PRIMA PARTE
1. Uno strano tipo di militanza
1.2. Altre fonti critiche
Rimandando ad altro luogo un panorama delle frequentazioni letterarie che ne hanno determinato in maniera pratica la lunga collaborazione a giornali e riviste, si può abbozzare un ritratto collettivo delle esperien- ze critiche che a vario titolo hanno interessato la formazione del giova- ne e l’attenzione dell’adulto, fino alla possibilità di una qualche com- parazione. Come si è visto, un elenco di nomi è fornito da Caproni stesso, e annovera autori di un arco temporale ampio ma decisamente definito; si va, rimescolando l’ordine alfabetico cui sono sottoposte le sue referenze in chiaro, da una generazione di nati negli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento (De Robertis, Cecchi, Ravegnani) alle maggio- ri campane fra i nati nei primi anni del secolo (Falqui, Solmi, Bocelli), a una teoria di quasi coetanei (Anceschi, Debenedetti, Macrì, Bo, Con- tini, Vigorelli) fino ai più giovani Spagnoletti, Piccioni, Seroni, Ramat. A questi critici “puri” bisognerà poi aggiungere le fascinazioni derivan- ti dall’esperienza di importanti poeti-critici cui Caproni ha sicuramente guardato nel corso del suo apprendistato. Non si possono dunque escludere Montale e Ungaretti, e bisognerà anche riservare uno spazio alle esperienze critiche di alcuni colleghi fra i più prossimi.
Il rapporto con i referenti critici sembra articolato da un com- plesso di valori riguardante maestri e guide vere e proprie, da cui si as- sumono modi e idee praticamente senza discussione, e compagni di viaggio, con cui invece si condivide il dibattito in fieri, spesso in una prefigurata “critica della critica” che un po’ oppone i sensi di quella or- gogliosa appartenenza al cielo dei poeti che già abbiamo visto, e un po’
collabora allo svolgimento delle maggiori questioni di storicizzazione prendendo parte negli schieramenti. Si può dare il caso ad es. di recen- sioni al lavoro critico di autori più giovani che serva da pretesto per il ritorno in prima persona sull’argomento principale; ma a questo punto sarà meglio seguire la voce di Caproni per una breve rassegna di “occa- sioni editoriali”.
Non sono poche infatti le antologie attraversate negli anni, da cui si può ricavare un’immagine della critica in azione con cui stabilire un utile parallelo. Con una nota del 22 giugno 1937 sul «Popolo di Si- cilia», ad es., Caproni dava conto della seconda serie de I contempora-
nei,32 di Giuseppe Ravegnani. Ricordato negli anni a venire nel novero
dei critici di riferimento, il ferrarese è una delle letture più precoci di Caproni e viene segnalato in questa occasione per l’onestà critica del suo punto di osservazione, secondo un modello retorico che pone il cri- tico migliore, sollevato di qualche gradino, nella stessa arena degli scrittori, “fascistamente” occupati nella zuffa per la vita: «È per questo nostro spirito, è per questa nostra carità di comprensione che noi oggi guardiamo con fiducia, malgrado tutto, la giovanissima falange dei nuovi scrittori italiani. Anzi, il loro gusto matto d’accapigliarsi, di dirsi corna per amore di un’idea, ci piace perché è il nostro stesso gusto, perché in fin dei conti anche noi qualche volta abbiamo fatto altrettan- to». (p. 60) Ravegnani, critico innamorato della bellezza, rappresente- rebbe così quella “cavalleria letteraria” che fa spendere parole e giudizi in vista di un possibile lettore futuro. Vengono infine lodate le capacità
di uno scrittore «succosissimo, limpido, saporoso», (p. 61) capace di rappresentare con gusto e fantasia la storia della recente letteratura, fa- cendo uso di una superiore ed ariostesca ironia.
Il critico è dunque una specie di arbitro della contesa, posiziona- to in un osservatorio privilegiato nell’agone letterario e chiamato pertan- to a quell’impegno di onestà e limpidezza nei confronti del lettore che pure non va confuso con l’assoluta imparzialità, ha anzi il compito di as- sumere e sostenere fino alle estreme conseguenze una posizione inter- pretativa, a rischio della contestazione e degli attacchi esterni:
[…] Giacinto Spagnoletti (e lo dimostrano le sassate che, insieme alle lodi, già gli hanno tirato addosso) ha fatto quanto un ‘contemporaneo’ sensibile e intel- ligente poteva fare: ha cioè testimoniato, e quasi sempre riuscendo a dire la verità, il sentimento poetico degli anni da lui considerati, dando ai ‘fatti’ e ai commentarii un ritmo che rasenta la passione e perfino la crudeltà , quasiché virtù e vizi, colpe e meriti dei poeti maggiori da lui raccolti, fossero virtù sue e vizi suoi, fossero (e dopotutto, infatti, lo sono) le sue colpe e i suoi meriti: un lavoro, vogliam concludere, condotto col rigore di un vero e proprio esame di coscienza, stringi stringi, di una generazione intera […].33
Con l’esame di coscienza cui fa riferimento il recensore ci indirizza in una parte ben definita dell’ultima tradizione critica, oltre a descrivere al meglio quale sia la responsabilità del giudice. Una responsabilità che molto spesso è tradita dalle smanie personalistiche, con l’effetto di una insopportabile ridondanza retorica che sarà sempre motivo d’accusa:
33 Poesia italiana, «Il Lavoro nuovo», 3 ottobre 1950, Prose, pp. 415-8, a p. 416, re-
censione ad Antologia della poesia italiana (1909-1949), a cura di G. Spagnoletti, Modena, Guanda, 1950.
Mi è capitato di leggere tempo addietro su una di tali riviste un saggio su Montale così capziosamente tecnico e calcolato e soppesato e calibrato nel lin- guaggio, da darmi la penosa impressione, ogni qualvolta venivano citati versi del Poeta, che interloquisse un bracciante in una Salamanca di Dottori in Poe- sia, tant’era lo stridore fra la concretezza della parola di Montale, veramente necessaria e nostra, e quei paganinismi d’intelligenza (?) non in settima, ma addirittura in nona posizione sul cantino, quand’erano bellamente a disposizio- ne, ad aver saputo toccare, tutte intere le quattro corde.34
Il rischio che Caproni comincia ad avvertire molto fortemente all’inizio degli anni Sessanta è quello di un concorso deteriore fra critica e poe- sia, basato non sull’esperienza di vita, ma sulla specializzazione lette- raria e sull’acume dell’osservazione, tanto da far apparire il poeta che prende la parola (e si tratta di Montale!) come un bracciante in mezzo a un consesso di dottori. La polemica, compresa la figura del poeta igno- rante, tornerà spesso a quest’altezza a testimonianza di una insofferen- za radicata.
Rimandando al paragrafo dedicato alla lettura di merito circa le ultime generazioni poetiche su cui il recensore non smetterà di interro- garsi nella parte apicale della maturità, con grande curiosità per il di- battito intorno alle nuove tendenze, sarà il caso di ricavare da due re- censioni al volume antologico La giovane poesia, qualche giudizio sul lavoro di un altro autore tenuto in buona considerazione: Enrico Fal- qui.35 In questo caso il critico è dipinto come un ordinatore muratoriano
34 I poeti più giovani, «Il Punto», 3 marzo 1962, Prose, pp. 1539-42, alle pp. 1539-40. 35 Le recensioni in questione sono quelle alla prima e alla seconda edizione di
che cerca, in contrasto con la resistenza dei tempi, di elaborare una for- ma di catalogazione sistematica.36 Più che mai il potenziale urto di que-
sto lavorio sul canone si fa sentire nell’imminenza della polemica e de- gli attacchi personali:
Il coro delle proteste, degli osanna, delle deprecazioni e delle esaltazioni e degli sfot- tò (la Guida Monaci dei poetanti nati dal ‘15 in poi, definì il volume uno di quei ‘maligni’ che oggi non mancheranno di approfittare del bel rosso pompeiano della copertina per paragonare il libro a un mattone) di cui perdura l’eco nel nostro orec- chio, non ci impedirà di ripetere quanto già dicemmo un anno fa a proposito della prima edizione: ciò che Enrico Falqui ci ha offerto, con questo suo Repertorio e col
Saggio che lo integra è un’opera non soltanto utile ma necessaria. (p. 967)
Se la forma antologia è quella maggiormente passibile di polemiche per lo più sterili, avverte il lettore, la questione di un possibile canone della contemporaneità non può essere sottovalutata ed è tenuta da Ca- proni nella giusta considerazione di momento dialettico e storicizzante, ENRICO FALQUI, La giovane poesia: saggio e repertorio, Roma, Colombo, 1956.
La prima uscì su «Il Lavoro nuovo», 6 settembre 1956, la seconda su «La Fiera letteraria», 19 gennaio 1958, Prose, rispettivamente pp. 715-8 e 967-71.
36 Sul tema Caproni si esprimerà anche nei termini seguenti: «Sono anch'io fra quelli
che non credono si possa mai, definitivamente, sistemare in sede critica un perio- do, un autore, un'opera. E ciò perché ogni epoca ha un suo giudizio, il quale natu- ralmente oscilla nel tempo attratto ora da un polo ora dall'altro, sì che da un seco- lo all'altro, come in minor misura dall'uno all'altro individuo, variando la visuale necessariamente varia l'aspetto prospettico. […] Discorso che vorrebbe trarre a questa conclusione: che la critica non è mai definitiva come la storia. Intendiamo- ci, ciò è detto per quanto riguarda i colori, i contorni, le sfumature: i nuclei natu- ralmente non variano, varia l'alone. Concepita così la critica come continuo farsi (sia pure, anzi certo non progressivo) dovremmo negare qualsiasi valore a ogni giudizio estetico? Non precisamente qualsiasi valore, appunto, il valore di defini- tiva sistemazione», Capasso critico, «Il Secolo XIX», 13 agosto 1937, Prose, pp. 73-75, a p. 73.
specie in relazione al lavoro dei critici più giovani.37 La forza del criti-
co nella sua necessaria funzione di onesto interprete della realtà è ri- marcata con forza all’indomani di Letteratura e verità di Luigi Baldac- ci. In questo caso a minacciare la vitale indipendenza del critico sono le pressioni dell’industria editoriale e il conseguente appiattimento di giudizio, più spesso, e ormai quasi esclusivamente, “ideologizzazione” dell’opera d’arte, piuttosto che disinteressata lettura:
Non ultimo, certo, il problema della critica, dal Baldacci profondamente sentito e sofferto, per quel progressivo deteriorarsi della figura stessa del critico come lettore e scrittore, sempre più minacciato da un suo condizionamento all’industria editoriale, o – insidia ancor più sottile – dalla tentazione di smettere il proprio abito tradizionale per indossar quello dell’estetologo o del saggista. [… ] in un panorama dove tutto è già dato per scontato, sì che se una cosa è lamentabile fra tanto fiorir di saggisti espertissimi nel formulare le loro diagnosi, è proprio la mancanza o insufficienza, specie fra i giovani, d’una loro capacità (o volontà) di lettura integrale e di giudizio sul concreto delle opere: d’una lettura e d’un giudizio di valore veramente liberi da motivi di propaganda o da catene ideologiche, e insomma d’una loro critica, atta – come ha da esser sempre la critica – a leggere dentro e non intorno.38
37 Si segnalano a titolo esemplificativo i pezzi Poeti del dopoguerra e Un'utile anto-
logia, rispettivamente in «Il Punto», 1 luglio 1961, ed in «La Nazione», 23 giugno
1963, Prose, pp. 1447-50 e pp. 1693-5. Le opere recensite sono Antologia di poe-
ti del dopoguerra, a cura di M. Lavagetto ed E. Siciliano, «Palatina», 17, 1961 e La poesia italiana contemporanea dal Carducci ai giorni nostri, a cura di G. B.
Squarotti e S. Jacomuzzi, Messina-Firenze, G. D'Anna, 1963.
38 Letteratura e verità, «La Nazione», 29 dicembre 1963, Prose, pp. 1730-2, a p.
Prima di passare a una minima prospettiva di tre maestri colti in altret- tanti ricordi, sarà il caso di soffermarci proprio sull’opera del più gio- vane fra queste nuove leve, Silvio Ramat. Del critico e poeta, Caproni indica infatti al lettore il saggio Montale,39 letto come l’esempio co-
struttivo «[…] d’una Critica con la maiuscola che ahimè, di giorno in giorno, vede sempre più svaporare i propri contorni, e alla quale corag- giosamente, sfidando ogni moda o conformismo, Ramat par aver volu- to richiamarci con questo suo serio e ponderatissimo saggio».40 Fonda-
mentale, nell’opinione del lettore, è la consapevolezza maturata dal cri- tico sulla centralità dell’opera del ligure nel “sistema novecentesco” operativa già all’altezza degli Ossi ed esaminata puntualmente nell’ul- timo capitolo della monografia dedicato ai rapporti fra Montale e gli al- tri poeti delle generazioni successive: «Ramat ha chiara coscienza che anche la sua generazione, come già quella che l’ha preceduta, deve fare i suoi conti con Montale, ed è appunto da questa chiara coscienza che muove il suo studio».41
Il primo e più tagliente dei ritratti dedicati ai maestri indiscussi è quello dedicato a Carlo Bo, definito Una guida spirituale.42 A parte
l’intensità del racconto, che sarebbe utile leggere per intero, fatto esclu- sivamente dal punto di vista del poeta, si intravede nell’elenco dei me- riti del critico anche una lezione assoluta, legata ad una visione forte- mente morale e spirituale cui la letteratura, ma in questo caso forse
39 SILVIO RAMAT, Montale, Firenze, Vallecchi, 1965, recensione su «La Nazione», 19
febbraio 1966, ivi, pp. 1867-9.
40 ivi, p. 1869. 41 ivi, p. 1868.
l’accento più diretto va forse proprio alla poesia, finisce per fare capo. In queste parole si ravvisa un atteggiamento che sarà sempre nei modi del Caproni lettore: «Bo infatti non era soltanto colui che per primo aveva sprovincializzato le nostre lettere, proponendoci una visione e una dimensione del tutto nuove (europee) della poesia, ma soprattutto colui che ci aveva indicato e insegnato una nuova mozione – perdona- temi la parola logora – dell’anima».43
Nonostante, o meglio proprio in virtù della maggiore confiden- za, sarà invece difficile trarre qualche pura lezione critica, sciolta dalla dolcezza del ricordo, dal personaggio Giacomo Debenedetti, nominato nelle Prose come la massima garanzia di serietà critica in veste di di- rettore di collane, presidente di premi letterari o intelligente ratificatore di giudizi.44 Va da sé che l’eredità debenedettiana non possa essere al-
tro che umana:
L’intelligenza di Giacomo, del resto, era notissima. In tutto e in tutti. Eppure lo hanno lasciato morire nell’amarezza (per non dire d’amarezza), negandogli quella cattedra dove nessuno, meglio di lui, avrebbe potuto meritarsi il titolo di Maestro. Un Maestro come veniva inteso una volta, capace di dispensare il proprio sapere non soltanto in aula, con i suoi corsi e le sue lezioni, ma nel
mondo con le sue opere. Basta. Mi viene in mente l’ultima volta che andai a
trovarlo, già steso sul suo lettuccio di morte, e con un nodo in gola mi fermo qui. Di lui comunque , m’è rimasta un’eredità: il preferire, sempre, all’esprit
de géometrie, l’esprit de finesse. (p. 2020)
43 ivi, pp. 1952-3.
L’ultimo e forse più influente dei maestri ritratti è Giuseppe De Rober- tis, impossibile da chiudere semplicemente nella fascinazione del ricor- do. L’occasione per parlarne è offerta dall’uscita nel 1962 di Altro No-
vecento.45 La prima delle qualità che Caproni indica nell’autore è la si-
curezza di un giudizio esercitato su libri di autori poco conosciuti, il pregio di De Robertis sarebbe dunque quello di un lettore speciale, a dispetto delle difficoltà sottese al mestiere del “critico giornaliero”. Se- condo le parole del recensore la dimostrazione della vittoria su questo genere di avversità è fornita proprio dalla riproposizione separata ma ancora vivida, a distanza di anni, di quegli stessi pezzi:
Il miracolo sorprende ancor di più se si pensa che tali articoli (continuiamo pure a chiamarli così) più d’una volta composti nelle strettoie d’un numero di righe obbligato, non meno tirannico, anche se non dettato dalla medesima re- gola d’armonia, del numero d’un sonetto […], furono e rimangono, non dob- biamo dimenticarlo, più che spettatori e testimoni sia pure attentissimi, prota- gonisti vivi e vivificanti nel naturale svolgimento delle nostre letture. Al punto che c’era da domandarsi se, senza la ‘lettura’ derobertisiana tanta ‘scrittura’ capace di resistere a tale lettura, cioè capace di resistere sul piano della poesia e dello stile, sarebbe egualmente nata. (p. 1654)
La “comprensione” di De Robertis, avulsa da ogni deteriore specializ- zazione, è una componente attiva della stessa formazione della poesia e della continuazione della tradizione letteraria patria; per lui il Nove-
45 GIUSEPPE DE ROBERTIS, Altro Novecento, Firenze, Le Monnier, 1962, in «La Na-
zione», 23 gennaio 1963, Prose, pp. 1653-5. Per una testimonianza dell'amicizia occorsa fra i due cfr. anche CAPRONI, DE ROBERTIS, Lettere 1952-1963, a cura di
cento non sembra essere qualcosa di diverso dalla tradizione «[…] ma di diverso nella tradizione, come d’altronde lo è ogni secolo rispetto a un altro». (ibid.) De Robertis è dunque un maestro, e non solo per let- tori e critici, ma proprio per i poeti, e qui si sente la voce emozionata del poeta che ha ricevuto l’onore di “essere letto” da tale personalità:
Chiunque abbia avuto la ventura di essere stato letto da De Robertis, meglio d’ogni altro può testimoniare con quale acutezza il suo pennino – e cioè il suo ingegno vivissimo, sempre sorretto da una sensibilità o prontezza d’orecchio e d’occhio ancor meno frequenti nell’ingegno stesso – riesca a punger nel vivo la verità d’una pagina, e l’anima di chi l’ha scritta, con una precisione (una forza di ‘rivelazione’) cui certamente neppure l’autore stesso, che per questo è grato al suo critico, avrebbe potuto giungere. (p. 1655)
L’ultimo cenno è per una prosa “di rimando” come si potrebbe definire quella di ogni critico, ma così viva ed animata da una inventività sottile da risultare piacevole alla lettura come e più della stessa prosa di invenzione. La figura di De Robertis sembra essere per Caproni, che qui ha l’opportu- nità di farne uno schizzo veloce, il prototipo del buon critico, con un piede nell’accademia e uno nella “militanza”, in tutto rivolto agli interessi della poesia.
Ma con De Robertis non conviene fermarsi qui. L’adesione alla ci- viltà letteraria cui Caproni dedica buona parte del suo impegno giornalie- ro, e di cui a ben guardare le Prose testimoniano un’ansia di inclusione, è anche il motivo di una critica al sistema editoriale del dopoguerra, quando i veloci cambiamenti sociali ed economici incrementano il consumo di li-
bri. Su questo punto Caproni si soffermerà a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta con alcuni pezzi, fra l’ironico e il laconico, in cui si esprime la difficoltà del recensore sommerso da valanghe di libri da legge- re e di cui rendere conto. Ed è a questo punto, a partire da questa insoffe- renza, che si può rintracciare una forma di ispirazione diretta nei confronti dello stesso De Robertis, che già nel 1915 scriveva:
Continua a rovinare sulla povera barca della “Voce”, o per usare una metafora più adatta, sulle mie povere spalle, un diluvio di manoscritti e di suppliche. Tutti di giovani, come dicono almeno le loro lettere accompagnatorie, e di poeti in versi e in prosa. Dio mi fulmini se ho scoperto fino ora un poco di in- gegno fra tutta questa carta scarabocchiata e dattilografata. […] Perché io mi domando, con quale diritto, o coraggio, e in nome di quale giustizia voi signo- ri mi scaraventate ogni giorno un po’ dei vostri fogli versificati o prosificati, perché io legga, stampi o risponda? Non potreste in anticipazione fare un pic- colo modesto esame di coscienza, pesarvi alla bilancia del buonsenso, tastare il polso alle vostre creaturine prima di spedirmele in via Cavour dove non c’è posto che per pochi e di polmoni buoni? E credete davvero che io possa sco- prire mai alcuno?; un poeta, uno scrittore, un critico? Ognuno si scopre da sé, trova la via da sé, dice le sue cose da sé.46
Se all’inizio la protesta del recensore Caproni è rivolta contro i cattivi poeti, che riempiono le loro opere di termini con la maiuscola,47 presto
il lamento si appella direttamente alla montagna di libri fermi ad aspet- tare, come se fossero la personificazione dei loro autori in coda nella
46 «La Voce», 15 febbraio 1915, poi in DE ROBERTIS, Scritti vociani, a cura di E. Fal-
qui, Firenze, Le Monnier, 1967, pp. 328-30.
sala d’attesa di un commendatore della poesia,48 che abbia la facoltà,
proprio come il De Robertis sopraccitato, di “scoprire” autori e autrici donando loro la fama. L’insofferenza per questo stato di cose non ri- sparmia nessuno e vede il recensore stretto fra la morsa delle richieste pressanti che giungono da ogni parte, quelle degli editori e quelle di autori sempre più determinati e pretenziosi che dimostrano un’insana