3 «Difesa della poesia»
7. Scritti di cultura e letteratura ligure
7.2. Vedute cittadine
Senza abbandonare l’assunto di un motivo filosofico e culturale scatu- rente da un paesaggio enigmatico nella sua interna tensione fra entro- terra, città e riviera, vissuto anche tramite il filtro della poesia, Caproni si prova in maniera frammentaria a fare i conti con un’appartenenza territoriale nel momento in cui diviene morale e ancora estetica, cer- cando nel corpo del panorama il germe di una comunanza riconoscibi- le. Il ritratto di un territorio così altamente simbolico nella trasfigura- zione artistica operata in parte rilevante dalla poesia, si compie nel cor- so di circa quarant’anni, ma il primo passo di questo itinerario è un me- morabile ritratto di Genova all’indomani della Liberazione.179 Rivol-
gendosi all’amico Libero Bigiaretti, che tanta parte avrà nel suo primo periodo romano, Caproni descrive in soggettiva i luoghi di una città of- fesa e piegata, adottando il tono quasi sperimentale di un “neorealismo lirico” che prova a rendere i casi del proletariato genovese con una pro- sa ricca di riprese e ripetizioni, sottilmente tramata di espedienti retori- ci solo in parte volti a un’eleganza rude, e più spesso necessari a un di- scorso che prova a comprendere nel respiro del periodo lungo e ben co- struito l’afflato fine e popolare fatto di visi umili e vicende di piccola
179 Cfr. Lettera da Genova, «Aretusa», I, 9, novembre 1945. A questo filone si adde-
bitano anche pezzi come Io genovese di Livorno, «Italia socialista», 22 febbraio 1948. Genova città di gesso, «Italia socialista», 22 luglio 1948; Le stradine del
genovesato, «La Repubblica», 25 maggio 1948; «La Fiera letteraria», 25 dicembre
1955; «Immagine di una città», «La Fiera letteraria», 4 ottobre 1959; Nelle chiese
di Genova il rumore del mare, «Corriere mercantile», 25 febbraio del 1960; Viag- gio a Genova, «L'Espresso», 24 gennaio 1982.
umanità brulicante tra le macerie “rosee e bianche”:180 «Non dico dun-
que che Genova ora è plebea: dico che si è screziata di plebe. Ed è già tanto, ed è già troppo, perché a Genova una plebe non è mai esistita, nemmeno in Prè esisteva prima la plebe, nemmeno a porta Soprana, forse nemmeno a Ravenna dove vigeva una miseria gelosa di sé e quanto mai pudica, che non avrebbe varcato coi suoi cenci e coi suoi mocci i confini del sacro centro per tutto l’oro del mondo».181
Con incedere sontuoso e dimesso, la rassegna dei luoghi della città continua stemperandosi sul gusto del porto «abbandonato come un campo da tennis»,182 o dello Strega, «un muraglione a picco sul
mare»183 dove «andavano a fracassarsi la testa che non reggevano più,
scossa dal vento della disperazione, i suicidi»,184 cogliendo immagini
genuinamente espressive, in preparazione delle cronache del dopoguer- ra. L’ultimo panorama della città, una città stranamente vitale in cui si coglie forse il germe e l’entusiasmo della rinascita, è affidato al connu- bio della luna e della prostituta che spende i suoi malinconici sorrisi ai camion in partenza:
E fu lì che trassi l’ultima immagine di Genova: la giottesca luna rotonda nel- l’aria ancora leggermente diurna – la donna fino al sangue tinta e col vestito che copre appena le nude cosce troppo mature, tutta occupata a sorridere pro- fessionalmente a ogni camion del convoglio che, ben oliato, con le sue buone
180 Varrà la pena ricordare che proprio nell'ambito di un concorso bandito da «Aretu-
sa», Caproni nel 1946 si aggiudicherà un premio di 10.000 lire con il racconto
Giorni aperti.
181 Lettera da Genova, cit., p. 146. 182 ivi, p. 148.
183 ibid. 184 ibid.
gomme sul fondo liscio e netto, transita in quell’istante: a sorridere camion dopo camion, uno per uno, benché nessuno le rispondesse, mentre la luna a poco a poco si alzava, era già alta la luna, e l’ultimo camion non era ancora passato, ed essa non aveva consumato ancora l’ultimo suo sorriso. (p. 149)
Nel letterato che va alla ricerca di una immagine collegata alla natura idillica dell’esistenza, pure nell’urgenza di una situazione storica dram- matica, si riconosce il fondo di una educazione genuinamente umani- stica, a cui si allega il mito della presenza poetica. Ed è proprio in nome di una “ricerca dei simili” che si chiude il passaggio di Caproni nella Genova bombardata del dopo-Liberazione, dove le figure vagheg- giate di Montale, Cherchi,185 Sbarbaro, Saccarotti186 e Barile, affollano
la mente del poeta, che non può fare a meno, quasi fosse un vizio del- l’anima, di rivolgersi alle sue guide predilette nel momento di una così grave crisi.187 L’elaborazione intima di un piccolo canone di nomi, pure
185 «Diciamo subito che, anche nel giovane Cherchi, quel che più ci piace è proprio
quel suo felice ritorno, tentato finora con tutta onestà, all'originaria funzione della scultura italiana: la quale, più che al “frammento”, mira piuttosto a una vera e pro- pria compiuta estrinsecazione che vorremmo dire “narrativa” del sentimento pla- stico, se questa parola non ci conducesse ad equivoci di natura letteraria. Una “narrazione”, insomma, intesa non nel senso proprio di letterario racconto (col suo svolgimento nel tempo) ma nel senso invece (un poco come accade nella liri- ca) di contemporaneità di più motivi insieme composti, sì quasi a dare all'opera una funzione di spaziale rappresentazione, che vorremmo dire propria per distin- guerla dal letterario) dal racconto plastico», Arti belle in Liguria, cit., p. 37.
186 «Oscar Saccarotti, […] è giunto alla sua conclusione proprio attraverso una tor-
mentata e “voluta” esperienza: esperienza che si è svolta non solo nello spazio (Italia ed estero) ma anche, e più, nel tempo (Ottocento e Novecento). Certi suoi 'fiori' e certe sue 'nature in silenzio' (il neologismo però non ci piace) dipinti con quei toni tra grigi e azzurri e rosei che son tutti suoi, – e adattissimi del resto a soddisfare (per quella poesia che in sé contengono tali oggetti) lo spirito eminen- temente malinconico e agreste del nostro – bastano a farci riconoscere in lui un pittore, come volgarmente si dice, nato», ivi, p. 38.
in grande anticipo sulla corrente ligustica,188 ci conferma nell’idea di
una base empirica e personale, che porrà l’autore di fronte alla respon- sabilità di una “scoperta” critica.
La calata del poeta si chiude con lo scacco di una umanità na- scosta, dove le idee della poesia non possono fare altro che ritirarsi ad aspettare, ed è suggestivo pensare che l’unica figura reale nella conclu- sione della Lettera sia quella di un filosofo, nell’elenco fitto di artisti. Va inoltre segnalato come, nella testimonianza dello stesso Caproni, la Liberazione e la Resistenza rappresenteranno la fine di un’epoca anche dal punto di vista letterario, quel momento cioè in cui la versificazione si arrende ai talenti più attuali della prosa, unica espressione utile a rac- contare la storia di quei giorni:
Basta, non c’era un pontile d’imbraco per la mia nave, Libero. Gli artisti e i letterati di Genova non hanno più ritrovo, la mia nave era impaziente di salpa- re per i suoi sassi, non poteva stanare altri visi alla periferia o nelle redazioni o nelle chiuse case. A me urgeva ormai raggiungere quel punto della Val Trebbia che ti ho detto, e l’indomani mattina, subito, scavalcando tutti i ponti rotti, io lo raggiunsi quel punto, alfine […].189
che da Santa Caterina porta alla redazione del “Lavoro Nuovo”, e lì alfine lo tro- vai qualcuno: Ciccirelli m'accompagnò da Poggi, ritrovai Alfredo Poggi annerito dal campo di concentramento, non più a scuola, in cattedra, ma sulla plancia del suo giornale. E fu una commozione grande per me rivedere, come una pietra ca- riata dai fulmini, colui che conoscevo col cuore come uno dei più giovanili mae- stri d'Italia», Lettera da Genova, cit., p. 151.
188 Ci troviamo circa un decennio a monte di quella serie. 189 Lettera da Genova, cit., p. 151.
Passando dalla città natale, contrapposta a Genova già nel 1948, Ca- proni va a definire il seme di una divisione che passerà con abbondan- za di frutti nei versi. Il “genovese di Livorno” si trova a rielaborare in prima istanza lo spazio di una città della mente, che «esisterà sempre finché esisto io […] col suo sapore di gelati nell’odor di pesce del Mer- cato Centrale lungo i Fossi, e con l’illuminato asfalto del Voltone»,190
accostata alla figura dell’infanzia-madre. Esattamente all’opposto della
Lettera si pone una nuova visita in città, di cui si rende conto nel pezzo Genova città di gesso,191 rendiconto della prima ricostruzione. Con un
tono da retorica in minore, che vale nelle intenzioni del cronista l’effi- cace avvicinamento a chi legge senza abbandonare la cura della prosa d’arte, si procede per fotogrammi, tracciando una prospettiva che uni- sce l’evocativa vista dall’alto192 alla calata nel buio dei caruggi e dei vi-
coli intestinali, con l’effetto di uno zoom in cui non mancano le refe- renze letterarie e artistiche care al ritrattista. È così che sulla città si ravvisa un’aura «bianca, gessosa come l’osso di seppia asciutto al
190 Io genovese di Livorno, «Italia socialista», 22 febbraio 1948, Prose, pp. 281-3. In-
teressante, tra l'altro, la caustica definizione, in apertura, dell'opera più celebre di De Amicis: «[…] Cuore, questo tremendo libro d'un uomo che, senza un filo di carità o di poesia, allettava i bambini per farli piangere e per ricavarne tanti picco- li funzionari dell'esistenza: tanti futuri “scrivani fiorentini”, inzuppati fino alle mi- dolla di lacrime e di sopportazione sotto la mano di pietra d'un loro Iddio piccino e cattivo come un capufficio».
191 «L'Italia socialista», 22 luglio 1948, Prose, pp. 289-92.
192 «E m'è parso anche che quelle calcine nude dessero maggior consistenza a un'anti-
ca immagine di Genova vista da Castelletto, dove ancora cospirano i gatti teppisti cari a Gianna Manzini, o dal Righi: di Genova come città di macerie, quale è sem- pre apparsa dall'alto spaziando l'occhio sui vecchi muri di grigiobianca arenaria e sui tetti chiari d'ardesia, disordinati e con tutte le loro scaglie addossate l'una con- tro l'altra», ivi, p. 289.
sole»,193 mentre i luoghi accolti nel ragionamento in versi194 fanno ca-
polino descrivendo una geografia che a sua volta inizia a sfumarsi, dato che Caproni, lo ricorda in apertura d’articolo, ha raggiunto la città «di mattina da Roma (dalla luce di terracotta di Roma e da quella cupa e millenaria erba dell’agro)».195 A chiudere il ritratto della varia umanità
è di nuovo la figura di quelle «donne dei marinai, sepolte nel belletto e nella luce elettrica anche al solleone, con le loro carni abbandonate da- gli alleati e tornate merce casalinga sotto le velature anch’esse azzurri- ne e gessose delle ciprie e degli organdis».196
In un senso non deteriore ma di contorno, bisognerà recepire in que- sti primi anni le altre manifestazioni d’attenzione alla città, e più precisa- mente nei campi d’azione che saranno la sfumata appartenenza, o declina- zione politica ed il vago eruditismo, clivi entrambi che si accentuano a se- conda dell’occasione.197 La curiosità per il territorio genovese,198 e per la sua
storia, vale, in maniera ormai assodata, come base di partenza per bozzetti di carattere non artistico, e il passo di un ipotetico personaggio sulle tipiche stradine del genovesato dette «cröse»,199 può accogliere in sé una sfumatura
193 ibid.
194 Stando alle date, ci troviamo nel periodo subito posteriore alla composizione delle
Stanze della funicolare, cfr. CAPRONI, L'opera in versi, cit., p. 1145.
195 Genova città di gesso, cit. p. 289 196 ivi, p. 291.
197 Mi riferisco ai pezzi Le stradine del genovesato, «La Repubblica», 25 maggio
1948 e L'acquasola dei nostri nonni, «Il Lavoro nuovo», 13 gennaio 1949, Prose rispettivamente alle pp. 303-5 e 325-7.
198 «[…] la salita del Seminario a lato di via XX Settembre, o le innumerevoli salite
di Sant'Anna, di San Nicola, di San Rocchino, di Sant'Ugo, dell'Incarnazione, del- le Convertite, delle Giannelline, delle Dorotee, e via dicendo (portano tutte un nome religioso, e tutte sono 'salite', il toponomasta locale non essendosi mai posto dal punto di vista adatto per considerarle 'discese', giacché il luogo d'ogni litora- neo, si capisce, è il livello marino)», Le stradine del genovesato, cit., p. 302.
allusiva che rappresenta la buona occasione per un ritratto all’aperto dal tono naturalista o macchiaiolo, a tema placidamente socialista, come se le stradine tipiche dei dintorni popolari della città e l’umanità che le percorro- no fossero un tutt’uno che richiama a sé in un ragionamento stilistico anco- ra avulso dalla politica ma ad essa esteticamente solidale, dove la ricerca del bello, ma non attraverso il rinnovamento dell’impianto filosofico, si sposa alla speranza di un rinnovamento sociale. È così che la «plurimilionesima parte di ciò che i giornali chiamano proletariato»,200 dopo aver attraversato i
quartieri di Quezzi o Marassi, «dove nella gola del Bisagno asciutto sono i parallelepipedi altissimi e stretti delle case popolari»,201 può concludere la
sua camminata «allegramente per i fatti suoi […] a mangiare una minestra o a mettere in moto un motore, a baciare una ragazza o a risolare un paio di scarpe: a fare insomma una cosa vera per sé e per gli altri, e quindi con mil- le buone ragioni per aver quel passo sciolto che vedete e per fischiettare con la mano destra in tasca».202 Ci bastano queste poche righe per inquadrare
l’esperienza volta a un socialismo popolare, in cui le stradine del genovesa- to saranno il punto di partenza per un approdo che si rivelerà, in fronte alla riviera, scettico, esistenziale.
Un possibile contrappunto è offerto da un altro simbolo dell’anima genovese, colta nel momento liturgico della preghiera e del raccoglimento, in cui lo spirito liberale e individuale va a coniugarsi, per una sorta di mira- 'cröse', e sono inconfondibili, fatte di viva ghiaia marina incastonata nel terreno, con in mezzo la guida rossa dei mattoni di costa: vie nitide e pulite, lavate dalla pioggia e spazzate dalla tramontana, le quali nulla hanno a che fare coi famosi 'carrugi' della zona intestinale della città», ibid.
200 ivi, p. 305. 201 ivi, p. 304 202 ivi, p. 305.
colo di civiltà, con la misericordia cristiana, per cui «il lucro è opera som- mamente civile e superiore onore e atto di carità, giacché tutta la famigerata avarizia dei genovesi (e il loro indaffararsi, il loro accumulare, e in breve il loro costruirsi e costruire una proprietà privata o fortuna) altro non è che la perfetta coscienza del compito loro assegnato da Dio medesimo […]».203
Alla “crösa socialista” si affianca così la chiesina dello spirito liberale,204
abbozzo di due estremi popolari in cui la società genovese, osservata, inter- pretata e interiorizzata, esplica le tendenze più forti nel campo di una specu- lazione in minore, che va a farsi alta nella ricerca artistica e critica, in equili- brio fra uno stilismo sommesso in lotta con ragioni più marcatamente espressive, ratificate dal murmure di sottofondo di un mare simbolico pure nel basso profilo della sua significazione mercantile.205 Siamo insomma al
203 Nelle chiese di Genova il rumore del mare, Prose, pp. 1421-3, a p. 1422.
204 «Le antiche chiese di Genova sono differenti da tutte le altre chiese del mondo, e
ci si prega in modo differente. Sono, più che chiese, buie conchiglie (gusci marini che sembrano a volte fossilizzati), ed entrare in una di tali chiese di dure pietre grigie annerite dai fumi portuali e industriali (in San Donato, in San Giovanni in Prè, per tacere delle altre famosissime), specie dopo essersi sperduti nell'intrico intestinale dei carrugi, dove si elabora in una sinfonia di afrori la digestione delle mercanzie che si tramutano in lucro, è un po' come entrare in una conca marina, ingrandimento di quelle, ruvide d'incrostazioni calcaree e saline, che i ragazzi rac- cattano sulla spiaggia e accostano all'orecchio per sentire l'odore del mare che, tra le navate nere di secoli e di semitenebra, è anche diffuso brusio di traffici e di pa- lanche, e di cantieri in opera lungo i due corni – est ed ovest – delle città, e di gra- vi sirene mercantili, le quali vengono e vanno, e profonde come bassi d'organo, specie di nottetempo fanno vibrare le invetriate, quando placatosi il rumorio delle gru e dei magli, e delle perforatrici, senti vasto come un gran sospiro l'ansito della risacca, la cui rotolante ghiaia dà anch'essa il suono e l'idea, nella doppia tenebra di quelle chiese, d'un fosforico rotolio di quattrini», ivi, p. 1421.
205 «Nato in una città di porto e cresciuto in un'altra città di porto, mi contenterò di
dire che il mio non è il mare estatico dei contemplativi, ma semplicemente un mare mercantile, popolati più che da Sirene o Tritoni da bastimenti in rotta o alla fonda: un mare trafficato o addirittura commerciale, ecco, anche se questa mia idea di mare può riuscire per molti riduttiva, e quindi deludente», Caproni: il mio
è un mare mercantile con qualche metafora, «Tuttolibri», 22 giugno 1985, ivi, pp.
contrasto palpabile e concreto, tanto da rendere necessaria la compresenza di pulsioni estranee e opposte unite dal bisogno di materialità, ora insoppri- mibile, ora negato. Un ultimo accenno alla città, in cui la visita si tramuta in viaggio aumentando la distanza e la prospettiva visuale, ne rende un ritratto apertamente deformato dove la spinta delle pulsioni opposte si risolve nel gusto particolare e fiabesco del Kitsch primo Novecento come irrefrenabile urgenza di una nuova forma d’immaginario:
Ma la nostra Genova-Kitsch è propriamente la Genova-Coppedè, sorta fra il tramonto del secolo scorso e l’alba dell’attuale, quando la ben inquattrinata borghesia genovese o ingenovesitasi, gonfiate le penne per i prosperi introiti, prese a fantasticar Castelli, simboli di potenza. E Castelli quanto più possibile ‘romantici’ – ‘gotici’ come tutti i Castelli delle fiabe – terribilmente ma incan- tevolmente fasulli, giusto il destino di tutte le cose non necessarie ma scaturite dal Sogno, un Sogno, nella fattispecie, molto più prossimo a Sem Benelli che a Shakespeare o a Kafka, si capisce.206