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La “linea ligure”: Ceccardo, Novaro, Boine

3 «Difesa della poesia»

7. Scritti di cultura e letteratura ligure

7.3. La “linea ligure”: Ceccardo, Novaro, Boine

Esaurito dal dibattito storico il discorso sulla validità di una linea ligure o ligustica, e sulla solidità argomentativa dell’intuizione critica capronia- na nel lavorio intorno a un canone, resta il dato di fatto di una penetra- zione non superficiale della proposta nella vulgata critica del medio e se- condo Novecento, testimoniata in più luoghi.207 Va così a definirsi come

206 Viaggio a Genova, cit., pp. 1971-2.

207 «Sempre più quello della “linea ligure” diviene un comodo locus communis: ma

nel 1958 (tra gli articoli caproniani della Fiera e quelli del Corriere) Gaetano Ma- riani dedica una importante serie di quattro studi a Ceccardo, Novaro, Sbarbaro e Montale; nel 1962 i termini della questione vengono recepiti anche, e sia pure nel- l'ambito non specialistico del volume dedicato alla Liguria nell'enciclopedia Tutti-

una conclusione pacificamente accolta da tutte le parti in causa,208 seppu-

re con un surplus di enfasi, «in termini non soltanto storiografici ma so- prattutto valoriali, una nozione ristretta e “forte” di “linea ligure” che ad- diti in Camillo Sbarbaro, Eugenio Montale e Giorgio Caproni una delle linee portanti (se non la linea portante tout court) della poesia italiana novecentesca».209 A prescindere dal suo valore argomentativo, nella sto-

ria del poeta rimane un’attenzione nei confronti della poesia ligure, eser- citata organicamente a partire dal 1938, fino al 1986 del bellissimo Gli

asparagi di Sbarbaro e al Saluto a Guerrini di due anni successivo.210

Insieme al tentato salto di qualità verso una speculazione strutturata, il novero dei pezzi liguri a carattere letterario si compone prevalentemente di recensioni, ricordi e testimonianze, accomunabili su base tematica solo a patto di mantenere uno spettro d’oscillazione largo, sciogliendo cioè la categoria critica da ogni discorso di sistema, come del resto era nelle intenzioni del poeta-lettore, istintivamente portato a rifiutare uno stato ufficiale, sebbene si dimostri sedotto dalle possibilità di un’autorità con cui validare la voce del letterato. Come già accennato, Caproni non si risolverà mai su questo punto, sentendosi in primo luogo poeta anche nella necessità lucidamente riconosciuta di dover essere presente al suo

talia, da Natalino Sapegno […]. L'anno stesso, sulla Soffitta di Caltanissetta – ri-

vista bimestrale di lettere ed arti diretta da Mario Gori e Ugo Reale – compare una rassegna intitolata emblematicamente Poesia italiana contemporanea. La li-

nea ligure, che raccoglie testi di ben diciassette poeti», Linea ligure. Sbarbaro Montale, Caproni, cit., p. 91.

208 Fra i molti nomi si può definire un “partito dei contrari” in Ferrata, Laurano,

Guerrini e Lagorio.

209 Linea ligure. Sbarbaro Montale, Caproni, cit., p. 102.

210 Rispettivamente, «L'Indice dei libri del mese», III, 3 marzo e «Resine», luglio-set-

tempo. Quello che resta da fare è dunque riconsiderare con occhio vergi- ne gli scritti, accettandone preventivamente i limiti che alla lunga ne hanno determinato la corrosione sotto il profilo della legittimità teorica, mettendo però agli atti il successo sul piano comunicativo del giornali- sta, che nell’arco di tre anni si inserisce in un dibattito a lui precedente, larvato nei cenni di un autore guida come Montale,211 cui tra l’altro si at-

tribuisce la responsabilità di deformare con la sua presenza ingombrante e quasi dispotica, perfino il lessico del critico in prova:

Il peggio nasce quando lo schema, a causa evidentemente della sua eccessiva sem- plicità (come qui accade) viene dimenticato per la strada, e si procede al suo arric- chimento (fino a mutarlo sostanzialmente) con aggiunte successive di caratteristiche che si rinvengono di volta in volta nei singoli poeti […]. Questo accade a Caproni, tipicamente, con Montale. Egli tenta ad esempio di definire il carattere saliente dello spirito ligure, e lo fa consistere in un contrasto, in una rixa, tra la «continua tentazio-

ne del dissolvimento» che sarebbe nella luce splendida, nel mare, nel vento salino, e

la volontà di difendersi da essa «con un minuzioso accanimento, con le cose solide e

ferme, i beni stabili, la pietrificazione». E ribadisce: «capitalizzare nello spazio con- tro i dissolvimenti marini». Ma allora noi comprendiamo che la definizione ha molto

risentito in realtà della lezione di Montale (si cita infatti puntualmente il montaliano girasole: «Svanire / è dunque la ventura delle venture»); ed è stata estesa poi, a po- steriori, a tutto lo spirito ligure.212

211 Celebri queste parole: «Sì, conobbi presto (non di persona, se si eccettua Sbarba-

ro) alcuni poeti liguri: Ceccardo e Boine, fra gli altri. Dov'essi meglio aderivano alle fibre del nostro suolo rappresentarono senza dubbio un insegnamento per me. Ammirai la fedeltà e l'arte di Sbarbaro, ma Boine era poeta a metà e Ceccardo, che lo era per intero, non si rese mai conto dei suoi mezzi. Viveva rivolto verso il passato, sempre bisognoso di puntelli accademici. Lungi dal professarsi poeta

puer diffidò troppo del fanciullo che aveva in sé. Pure nessuno dei suoi contem-

poranei ebbe a tratti una voce paragonabile alla sua», MONTALE, Intenzioni (Inter-

vista immaginaria), in Il secondo mestiere. Arte, musica, società, cit., p. 1477.

212 ADRIANO GUERRINI, Il significato di Sbarbaro, Genova, Sabatelli, 1968, p. 75.

Per quanto riguarda Montale, i due estremi della sua posizione “mobile”, ma non in contraddizione interna, circa una tradizione poetica ligure si possono fissare fra uno scritto giornalistico del 1927, riportato alla luce da Franco Contorbia,213 e quella che, datata al 1967, è stata vista come la

più solenne bocciatura alla linea caproniana: «La linea ligure è stata in- ventata da letterati liguri, ma ha trovato scarso credito fuori dalla Ligu- ria. Esiste una poesia fatta da liguri, e alcune di esse hanno vaghe somi- glianze fra loro. Ma liguri di nascita erano anche Pastonchi, Jahier ed al- tri che non hanno mai cantato la Liguria».214 Se con questa parole si va

ad allungare sul capo di Caproni l’ombra, evidentemente mal sopportata, del “letterato”,215 bisogna riconoscere che nell’articolo del 1927 si dimo-

strava già formato e argomentato lo stesso canone di poeti (Ceccardi, Novaro, Boine, Sbarbaro) cui Caproni aggiungerà i nomi di Barile, Grande e, forse questa l’“impudenza” maggiore, quello stesso di Monta- le, che esordiva così nel suo Poeti e paesaggi di Liguria:

213 Allegato al saggio di FRANCO CONTORBIA, Montale: ultima lettera da Genova,

l'articolo si legge ora in Un uomo di lettere. Marino Parenti e il suo epistolario, a cura di A. D'Orsi, Torino, Provincia di Torino, 2001, pp. 105-14.

214 Genova, libro bianco, Genova, SAGEP, 1967, p. 121.

215 Nella stessa intervista montaliana, si segnala un'altra esternazione che può riferirsi

rudemente al lavoro di Caproni: «Gli amici di Genova? Erano pochi: qualcuno è morto altri sono andati altrove, altri ancora non erano veri amici ma semplici co- noscenti dei quali, in mancanza di meglio, bisognava accontentarsi», ibid.. Circa il letterato c'è poi da segnalare un “pregiudizio”, ma in tutt'altro tono, sintetizzato da Antonella Padovano: «Sempre qualche tempo dopo il primo incontro a Spotorno, [Sbarbaro] faceva il verso a Litania, che aveva appena fatto il suo ingresso nel

Seme del piangere (“Genova nome barbaro. / Campana. Montale. Sbarbaro”), la

cartolina inviata a Caproni da Angelo Barile insieme a Sbarbaro il 14 ottobre 1959: “Genova di Caproni / (abbasso) i letteratoni”. Difficile non sentirvi l'estro ammiccante del poeta di Spotorno […]», CAMILLO SBARBARO, Lettere a Giorgio

Caproni 1956-1967, a cura di A. Padovani Soldini, Genova, San Marco dei Giu-

È noto, ma non abbastanza, che forse più di ogni altra regione italiana, la Li- guria ha avuti ed ha poeti che riflettono nell’opera loro i colori e le linee del suo paesaggio, che sostanziano la propria poesia dell’essenza più nascosta del- le sue marine, dell’ossatura meno apparente de’ suoi monti. Che una regione che ha bellezze così conosciute e penetranti abbia poi salvato i suoi descrittori in poesia, si parla dei migliori, da ogni caduta nella vignetta e nel “vedutismo”, resta un miracolo che non si saprebbe spiegare se non riferendo- ci alla più profonda natura della nostra gente ed alla reale difficoltà di intima comprensione che offre questo nostro orlo di terra gettato sul mare, che rifiuta ruvidamente ogni commento inessenziale, ogni blandimento retorico ed entu- siastico.216

Anche l’assunto di base, come si vede, è lo stesso della linea tracciata sulle pagine della «Fiera», che, come ha notato tempestivamente Guer- rini, adotta in toto il dettame montaliano, cercando di farlo suo con un primo allargamento del novero dei nomi nella serie di quattro articoli usciti su «La Fiera letteraria» nel 1956 sotto la dicitura comune La cor-

rente ligustica nella nostra poesia,217 per allargare ulteriormente le ma-

glie del discorso in occasione della ripresa del 1959 sul «Corriere mer- cantile»,218 snaturando consapevolmente ogni residua velleità teorica in

216 Un uomo di lettere, cit., p. 105.

217 Un paesaggio non dipingibile, 4 novembre, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi e

Mario Novaro, 11 novembre, Boine, Sbarbaro, Montale, 18 novembre, Angelo Barile e Adriano Grande, 25 novembre, tutti raccolti in Prose, pp. 635-60. Si re-

gistra una oscillazione con la dicitura La corrente ligustica della nostra poesia, forse dovuta a errore tipografico.

218 Questa serie conta un pezzo introduttivo (Genova denaro e poesia, 22 luglio) più

sette articoli monografici sugli autori già “canonizzati” (tra il 28 luglio e l'8 set- tembre), uno bipartito fra Serra e Laurano (22 settembre), e due finali che aprono a De Micheli, De Bono, Ghiglione, Del Colle, De Orchi, Milani, Bonino (29 set- tembre) e Guerrini, Giudici, Vivaldi, Marmori, Sanguineti, Craviotto (6 ottobre),

nome di una rassegna delle intelligenze poetiche liguri che (con i gio- vani Giudici e Sanguineti) continuavano la tradizione. Rimandando a tempo debito l’inclusione della poesia dialettale (Firpo e Vivaldi) corre l’obbligo di citare anche il nome dell’autore della raccolta Uligine,219

Giovanni Descalzo, «poeta che, prematuramente morto nella natia Se- stri Levante, meriterebbe un capitolo a parte per la semplice ma genui- na vena soltanto in apparenza ai margini del grande moto di rinnova- mento allora in atto».220 Mutata la temperie storica, rimane dunque da

considerare il valore documentario di una lettura ragionata e commen- tata nel suo evolvere, che in qualche caso è utile far retrocedere all’o- pera maggiore, dato che, come ricorda Adele Dei, «quando Caproni co- mincia a parlare di una linea ligure della poesia del Novecento, […] sono gli anni che vanno dalle Stanze della funicolare al Passaggio

d’Enea, proprio le raccolte dove la mitologia ligure e genovese si stabi-

lizza e acquista un rilievo fondamentale».221 Precisamente su questa

chiave di lettura si è esercitato Orlando, che offre un tentativo in cui si correlano le suggestioni critiche al momento compositivo, cercando an- che nella filosofia di Giuseppe Rensi un motivo costitutivo nell’origine prima di un’idea “ligustica” della psiche autoriale.222 Fra i pochi idola

cfr. Prose, pp. 1271-1354.

219 GIOVANNI DESCALZO, Uligine, Sestri Levante, Vaj, 1929. 220 Prose, p. 1316.

221 Le carte incorciate, cit., p. 61.

222 «Per questo, sul modello di Proust, di cui proprio in quegli anni traduceva Il tem-

po ritrovato (1951), Caproni passa esplicitamente a ritagliarsi una sua propria tra-

dizione, una “nobile discendenza”: processo originatosi man mano, sulla base di alcune predilezioni autoctone, fino ad organizzarsi in una serie di letture sistema- tiche avviate proprio nel dopoguerra, e farsi quindi cosciente parametro di valuta- zione», La vita contraria, cit., p. 87.

che ne rappresentano l’essenza evanescente, Caproni torna a discutere di un “paesaggio non dipingibile” che conterrebbe in sé il solo indizio veramente comune a una serqua notevole, o più, irripetibile di autori che culmina nel doppio esito sbarbariano-montaliano, annientando la volontà stessa di una categorizzazione:

Ma ciò che che a noi qui preme di sottolineare, è piuttosto un altro fatto: l’es- sere riuscito per primo, lo Sbarbaro, a fare della Liguria letteraria non più e soltanto una regione d’Italia fra le più intelligenti e assimilatrici, ma una delle ragioni più partecipi, e addirittura un’anticipatrice, della grande poesia euro- pea del Cinquantennio: quella che maggiormente è riuscita ad esprimere la lunga e profonda crisi dell’anima nostra (Eliot e Sbarbaro son dello stesso mil- lesimo ma The waste land apparve nel ‘22, Pianissimo nel ‘14). (p. 658)

*

Se Montale si fosse limitato, sia pure con tanta energia, e con così lucida de- terminazione, alla doviziosa eredità ligure, certo egli sarebbe rimasto un poeta notevole, ma conclusivo soltanto. Ma Montale è poeta d’avvio, ed è proprio con lui – il più ligure di tutti – che parlar di poesia ligure cessa d’avere un sen- so. (p. 659)

Il pensiero ordinatore torna sovente al miracolo di una terra indagata da vari punti, in cerca di quell’ “affascinante squallore” che in maniera difficilmente definibile ne determina l’attrattiva. Il primo dei quattro articoli è tutto volto alla descrizione di un carattere abbozzato nel pas- saggio del ligure elettivo Campana e del «piccolo santo Nietzsche, abi- tante allora in Salita alle Battistine sopra le fontane Marose o Amorose, in una Genova ch’era ancora quella dell’Alizeri, dove molte vie conti-

nuavano a chiamarsi più saldamente ‘strade’: Strada Giulia, Strada Balbi, Strada Nuovissima».223 L’emersione carsica di una spontanea co-

munanza di intenti di ricerca trae origine nella ricostruzione più o meno erudita, sebbene sbozzata in poche righe, dell’ambiente letterario e pittorico ottocentesco: De Amicis, i garibaldini Mameli e Abba, oltre al «non sempre macchinoso Anton Giulio Barrili»;224 vengono inoltre

evocati i nomi di Chiabrera e Frugoni. L’atto di nascita di una linea re- gionale è tuttavia attribuito a Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, che Ca- proni descrive al netto di una monografia di Tito Rosina edita dal ben noto Emiliano degli Orfini,225 ritratto da cui il presentatore cava una

teoria di suggestioni critiche che fra Carducci e Pascoli (e una serie di altre referenze più o meno verificabili) indulgerà «a inaugurare quel frammentismo ligure (e Libro dei Frammenti si intitolò per l’appunto, nel ‘95, la prima raccolta ceccardiana), dove se la parola è ancora mar- morea (toscana in senso accademico) già la senti scossa e frantumata in timbri e significati nuovi, che non appagandosi poi nemmeno della composta musicalità pascoliana, o dell’edonistico realismo ritmico dannunziano, sembrano piuttosto rappresentare in atto, sotto la scorza ancora nicciana, il rumoroso crollo dell’ultimo titanismo della nostra poesia, sempre più sottilmente volta – sul versante ligure come su quel- lo (ma senza visionarietà) triestino – verso una prosasticità quasi pari- niana».226 Un recupero dunque (con relativo aggiustamento di tiro e ag-

giornamento in sede storiografica che rivaluta la figura) di uno spirito

223 ivi, p. 637. 224 ivi, p. 638.

225 Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Genova, Emiliano degli Orfini, 1937. 226 Prose, p. 645.

fatale in connessione elettiva con gli sviluppi di una linea che sarà poi europea:

Con Ceccardo dobbiamo fare punto qui, e ci dispiace. Ma ci sembra d’aver già dimostrato abbastanza come colui che per un generoso abbaglio ambiva al va- ticinio – il vate fallito Ceccardo Roccatagliata Ceccardi dell’apuana stirpe de- gli Ortonovo, che il Rosina ci descrive armato ancora, negli ultimi anni, della sua cravache, ma ormai domato, da un destino incredibilmente duro, su una panchina di piazza Corvetto come un qualsiasi pensionato – al contrario aves- se gettato il seme della disperazione nella poesia del nostro secolo. (p. 649)

Una tale descrizione di Ceccardo testimonia la volontà di un primo di- segno “appropriativo”, attribuendo, attraverso una sottile esasperazione degli accenti modernistici, un ruolo chiave che serve da avvio secondo (come visto, l’articolo era preceduto da un pezzo proemiale sul caratte- re ligure) nell’introduzione a un canone già formato. Se dunque l’inva- denza del poeta degli Ossi è preponderante, la mossa di Caproni si pone all’opposto in quanto al tono, in Montale sempre e indefettibil- mente in minore, a perdere. Si è già accennato come Caproni provi ad amplificare ciò che era confortato di sentire nel mormorio montaliano anche se non dobbiamo credere che al livornese mancassero l’audacia e l’ambizione di fare una proposta in proprio, adattandola al carattere di un ritratto critico personale. Sulla doppia incombenza montaliana testi- monia un passaggio in cui il nome del poeta fa capolino sulla coda del- l’ultima esternazione ceccardiana, l’impressione di una rinascenza dal- le ceneri del frammentismo d’inizio secolo è probabilmente la parte

migliore, limiti compresi, della più genuina intuizione critica: «Quanti miti crollano con lui, quanta poesia nuova nasce. A far sentir l’ansia, anzi l’ansito filosofico che quel crollar di miti comporta, e quasi ad an- ticipare il Pianissimo sbarbariano che dovrà necessariamente seguire a tanto fragore, sì da permettere poi al Montale d’uscire dalle feconde ce- neri del Frammentismo per ricomporre un discorso nuovo e nativo del- la nostra poesia […]».227 Sul pendio di una “filosofia lirica” è invece

introdotto il poeta Mario Novaro, direttore della «Riviera Ligure» e au- tore di una sola raccolta, Murmuri ed echi,228 che si trama di suggestio-

ni rensiane le quali, «nonostante certo atteggiamento ‘buddistico’ allora di moda»229 ha il merito di innestare il canto ligure su un fondo filosofi-

co, di cui nuovamente Montale sarà il beneficiario maggiore:

Ma è certo che in Novaro v’è più d’un riverbero di quell’irrazionalismo, di quel materialismo pessimistico proprio del Rensi, e di quel suo considerare il mondo, fino a un certo punto leopardianamente, come un meccanico indiffe- rente comporsi e scomporsi all’infinito di fatti senza un fine palese, in una tra- ma incomprensibile, di cui il pensiero non riesce a cogliere, appunto, che qual- che manchevole dato per costruire una sua irreale realtà. Così come già esiste il presentimento, nelle cogitanti rappresentazioni novariane, del «realismo em- blematico» di Montale, e pensiamo a quella sua «tela materiale degli eventi», a quei suoi «giuochi indifferenti di cangiamento, di equivalenza di essa realtà materiale», alle «lacune, salti della natura» (altrove parlerà di «strappi del tem- po»), all’«intrico di fili che tessono la tela dell’esistenza», e perfino a quel suo: «nient’altro chiedere che di vanire». (p. 650)

227 ibid.

228 MARIO NOVARO, Murmuri ed echi, Napoli, Ricciardi, 1914. 229 Prose, p. 649.

E quello che viene a identificarsi come uno dei tratti comuni a tutti i li- guri della linea è confermato dalla percezione del paesaggio come se- gno, o geroglifico, inverando una terminologia già propria del critico che ad essa attinge per descrivere il nodo attorcigliato dell’istanza poe- tica nei vari gradi dell’espressione linguistica; ecco allora che lo spet- tro del dialetto si intreccia all’assunto di un paesaggio «come un libro sibillino, dove parole e oggetti sono un’unica cosa».230 Spesso accomu-

nato al fratello Angiolo Silvio, di cui nel 1938 si era data la notizia del- la morte sulla rivista «Augustea»,231 Mario Novaro ha il merito, nel di-

segno caproniano, di una normalizzazione filosofica che offre una piat- taforma comune al sentire ligustico.

Per questa strada si spingerà anche il più giovane Giovanni Boi- ne, «venuto all’arte per fallimento della logica e morale comprensione».232 Operando un deciso ampliamento del tiro in occa-

sione della nuova serie del 1959, Caproni pone il “vociano” Boine a conferma di uno spirito critico, comune a tutto il gruppo, «erosivo di ogni mito calante o crescente idealismo crociano compreso, ma saluta- re come la salsedine marina di cui par composto».233 In concorso con il

230 ibid.

231 «Angiolo Silvio Novaro, benché settantenne, è morto con cuor di fanciullo. E ciò

dico pensando al suo meraviglioso modo, anche di fronte ai più duri casi, di man- tenere intatta la sua più candida reattività poetica. E siccome, ciò detto, troppo fa- cile sarebbe la corsa al Pascoli, aggiungo subito che, se invero entrambi con ansia cercano di capire il più segreto mistero del cosmo delle piccole cose, mi pare che Novaro lo faccia con modi più 'innocenti' senza cioè i, sia pure eccelsi, turbamenti sentimentali del grande di Barga», «Augustea», XIII, 16-17-18, 3 ottobre 1938, ivi, p. 83-84, a p. 83.

232 ivi, p. 653. 233 ivi, p. 1290.

più statico Novaro, l’autore della rubrica Plausi e botte,234 offre alle ge-

nerazioni successive la possibilità di una ponte naturale fra la teoria morale e la poesia, nonostante la mancanza di versi ad esclusivo van- taggio del frammento in prosa: «Queste sue “liriche”, come egli le chiamava, bastano a porlo fra i poeti della Liguria, coi quali egli ha in