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3 «Difesa della poesia»

5. Linguaggio, traduzione, dialetto

Un paragrafo sulle riflessioni linguistiche di Giorgio Caproni è già sta- to scritto in maniera piuttosto esauriente da Michela Baldini,118 e a

quello si rinvia senz’altro in apertura di questa nuova ricognizione.119

In quella sede la studiosa ha delineato bene quali siano in merito a una teoria del linguaggio i debiti del poeta, senz’altro avvantaggiatosi per tempo delle opere del filosofo di area “ligustica” Adelchi Baratono, e nello specifico di Arte e poesia.120 Di lì in avanti la riflessione dell’au-

118 BALDINI, Giorgio Caproni narratore, Roma, Bulzoni, 2009, cfr. nello specifico il

cap. Questioni di poetica, pp. 15-59.

119 Si fa riferimento ad alcuni pezzi come Scrittura prefabbricata e linguaggio, «La

Fiera letteraria», 26 dicembre 1946; Il quadrato della verità, «La Fiera letteraria», 27 maggio 1947; La precisione dei vocaboli ossia la Babele, «La Fiera letteraria», 22 maggio 1947, ed altri ripresi puntualmente nei luoghi specifici.

120 «La riflessione caproniana presenta dunque un evidente debito espressivo verso le

teorie di Baratono: gli interventi citati chiariscono del resto che non si tratta di prestiti terminologici, ma mettono in evidenza come l'intera riflessione sul lin- guaggio desuma dal più brillante dei filosofi della linea ligure il concetto stesso di lingua. Ricorrenti sono inoltre in Caproni come in Baratono, le metafore architet- toniche per parlare dell'arte letteraria: se la poesia viene accostata alla musica, la

tore, sempre strettamente connaturata al lavoro poetico, e dunque allar- gamento virtuale di quell’officina, muove verso le più fattive esigenze del traduttore e coinvolge anche lateralmente lo statuto di un particola- rissimo lessico critico esemplato sul linguaggio musicale. Da un certo momento in avanti, l’idea sarà quella di aver anticipato “del tutto a lume di naso” le più avanzate teorie strutturaliste e semiotiche che ne- gli anni Cinquanta-Sessanta approdavano anche in Italia. C’è in effetti in Caproni un certo piglio pionieristico su questi temi che pure si deve, come detto, all’esigenza del poeta di “ragionare ad alta voce”, alla cu- riosità per una materia che con l’aumento delle traduzioni, le quali prendono a un certo punto il posto delle narrazioni in prima persona, costituiscono una fonte di lavoro e dunque di riflessione non indiffe- rente ed infine i casi della contingenza storico-letteraria, che al valore del verbo appunterà via via il senso di un dibattito in fieri.

Ciò che nel 1946 attirava l’attenzione di un Caproni trentaquat- trenne era l’uso che di alcune scritture particolarmente codificate si può fare. A partire per esempio dalle frasi utilizzate in ambito commer- ciale e burocratico (e qui forse si rivede l’esperienza di “garzone” pres- so un avvocato di Genova) il poeta ragiona sulla valenza dei segni con- venzionali, i quali starebbero alla più alta espressione del linguaggio, cioè la poesia, come la cornetta militare che segnala il rancio sta alla musica:

Provatevi a leggere una qualsiasi frase prefabbricata per gli usi suddetti: in ter- mini di linguaggio non dice propriamente nulla – semplicemente essa significa per convenzione questa o quella determinata faccenda, davvero non potendo da essa ricevere nulla uno che questa convenzione (quel significato) non cono- scesse già: fino al punto di poter concludere che una simile scrittura […] serve soltanto per rammemorare ciò che il lettore già sa. (p. 188)

L’idea che già si mostra formata in questo che è il primo articolo di una piccola serie implicita è quella che il linguaggio costituisca un’altra realtà, parallela a quella delle cose, e non semplicemente un mezzo di comunicazione del pensiero e del sentimento. All’apice di questa realtà parallela si pone il canto, in cui «[…] la parola cuore è ogni volta che si legge […] un oggetto distinto dalla parte anatomica che la scrittura pre- fabbricata convenuta significa con tale segno, o da qualsiasi altro signi- ficato così com’è definito nel vocabolario». (p. 188) Continuando la sua riflessione ne Il quadrato della verità, Caproni arriva a teorizzare la consistenza della realtà indipendente del verbo, fatta del solo potere di suscitare emozioni indipendenti dal messaggio di partenza e dunque fondative di un cambiamento emozionale nel ricevente che modifica la sua esistenza stessa, «[…] E in questo, appunto, risiede la dignità del linguaggio poetico: in questa sua potenza non nel trasmettere identica bensì nel generare una realtà – quell’altra realtà di cui dicevo dove la parola, rotto l’involucro concettuale (la convenzione) e girato tutto il circolo della cultura, si ritrova all’origine e all’originalità (alla prima pronuncia), tessendo più che un discorso logico, un ruggito dolce di belva, il mugghio di quell’animale estremamente dotato e complesso

ch’è l’uomo: cioè qualcosa di ben più ‘convincente’ di qualsiasi elo- quio». (p. 202)

Nell’ambito di questa osmosi di realtà, in cui si nega il valore di “documento” della poesia, Caproni ricava per i poeti un ruolo singolare e quasi sacrale, a conferma dell’alta considerazione che della figura poetica si contribuisce a costruire; dal suo operato dipende, per dirla in breve, il commercio di verità che intercorre fra i possibili frazionamen- ti di questa verità composita: «[…] il poeta (lo scrittore) è non soltanto un ponte tra le due realtà parallele bensì nello stesso tempo è anche il regolatore del traffico su tale ponte: per cui sta a lui, in mezzo alla res- sa, farvi passare l’errore anziché la verità. L’errore (il falso) che istan- taneamente brucerebbe l’altra realtà, la quale vive all’unica condizione di essere vera». (p. 203) Quello che accade con l’articolo seguente, La

precisione dei vocaboli ossia la Babele, è un ulteriore passo del ragio-

namento in cui si contrappone la gabbia del linguaggio logico, ovvero del linguaggio usato per il fine di una comprensione del mondo, al lin- guaggio poetico che al contrario non cerca di interpretare la realtà ma semplicemente la pronuncia. Per ricostruire questo passaggio della sua indagine sulla parola, Caproni deve tornare alle origini adamitiche: «Sta di fatto che Adamo, dando un valore conoscitivo al verbum, cioè inventando il linguaggio logico, si creò nelle parole i campi del suo esi- lio e della sua servitù – si perdette nella foresta delle parole (nella selva oscura) senza possibilità, forse, di risalire il dilettuoso colle». (p. 232)

La natura pratica e sostanziale della poesia viene poi ribadita e argomentata, con un più di boutade che sul finale stempera la tesi in

una specie di paradosso, nell’articolo Versi come utensili,121 in cui la

poesia viene descritta come un insieme di «Strumenti per sospirare, per esclamare la gioia, il dolore, l’amore ed altre infinite indefinibili cose o stati d’animo […]». (p. 320) Caproni invita a fare un uso pratico della poesia, a reimmetterla nel piano della vita quotidiana abbattendo quella troppa soggezione che la scuola prova a suscitare nei confronti degli autori classici. Un’altra differenza che emerge abbastanza nettamente dalla descrizione caproniana è la differenza di un linguaggio definito, senza sfumature allusive, che pertiene alla prosa, e un linguaggio ricco si «trasposizioni e di ultrasignificazioni» (p. 320) che nel gioco della poesia serve proprio a quella trasferibilità dell’emozione su cui il poeta si arrovella in questi anni di immediato dopoguerra. Sorge dunque spontanea la domanda Le poesie sono oggetti?122 che in questa proposi-

zione deve intendersi come “le poesie sono oggetti interpretabili?”. L’occasione è quella di una lettura pubblica che Eduardo De Filippo tiene alla “Casa della Cultura” di Roma, presente lo stesso Caproni. Il grande spettacolo offerto dall’autore e attore napoletano spinge l’udito- re a interrogarsi sulla possibilità di un’interpretazione di ciò che viene considerato come l’approssimazione estrema a un movimento interiore difficilmente comunicabile con il solo ausilio delle parole scritte. La tesi è questa: se una musica, per la vastità dei segni e delle possibilità che comprende, è interpretabile, a causa dell’estrema povertà che il lin- guaggio scritto rappresenta a fronte del mondo interiore, una poesia do- vrebbe essere letta, in linea di massima, solo dal proprio autore: «Piut-

121 «Mondo Operaio», 25 dicembre 1948, Prose, pp. 319-21. 122 «Mondo Operaio», 36 marzo 1949, ivi, pp. 357-9.

tosto per mio conto penso (e non l’ho mai detto per scherzo) che un poeta le sue poesie non le dovrebbe scrivere, bensì incidere sopra un disco, eliminando in questo modo la dizione altrui». (p. 358)

È un altro passaggio su cui in qualche modo grava l’ombra del paradosso, per di più smentito in vecchiaia dal poeta stesso che desi- gnerà l’attore Achille Millo come “voce ufficiale” del suo Congedo, ma nasconde almeno una presa di coscienza teorica che vale la pena ri- capitolare, ovvero la dimensione privata della poesia, per cui quasi si proibisce la lettura ad alta voce, la sonorizzazione che la imporrebbe ad altri ascoltatori: «A questo modo […] il testo scritto d’una poesia di- venta, nel più alto e nobile dei sensi, quello che forse propriamente è: un ‘canovaccio’ su cui ciascun uomo può eseguire la ‘sua’ poesia, il che è sempre uno dei più nobili modi di rendersi necessari in una so- cietà, creando oggetti di cui ciascun uomo può servirsi secondo i suoi scopi e anche (con diverso rendimento) secondo le sue capacità». (p. 359) La questione dello statuto ontologico della parola non tarda ad in- tegrare in sé la serie di suggestioni che l’esercizio della traduzione su- scita nel poeta, il quale, per risolvere la vexata quaestio di una possibi- le “traducibilità della poesia”, sulla quale graverebbe un equivoco ori- ginario, procede dividendo nettamente i due modi:

Sulla traducibilità e intraducibilità della poesia se ne sono dette di cotte e di cru- de (cose giudiziosissime accanto a cose da far accapponare la pelle), ma è un fatto che il mondo letterario è ancora, a questo proposito, diviso da una barrica- ta. Con questa breve nota non ho davvero la pretesa di archiviare una buona vol- ta il ‘problema’. Vorrei soltanto sottolineare l’equivoco che, a mio parere, non

contribuisce certo a render resolvibile il problema stesso. Il quale equivoco ecco dove mi par che affondi le sue radici: nel credere che prosa e poesia, per il sem- plice fatto ch’usano entrambe lo stesso mezzo (la parola) siano ‘generi’ distinti d’una medesima arte, mentre in realtà esse sono due arti ben separate, stando fra loro come, a mo’ d’esempio, sta la pittura alla musica.123

La poesia non si configura dunque come arte a sé, ma in qualche modo rappresenta un traguardo cui tutte le altre arti tenderebbero, un primum sul valore estetico che rischia però di alimentare il problema di cui so- pra. Per risolvere la questione Caproni la riduce alla sua componente base, arrivando a domandarsi se piuttosto sia traducibile la parola. At- traversando la sua personale “teoria degli armonici” (per cui si rimanda alla Terza parte) il poeta arriva ad una conclusione che rinnova e anzi rivendica fortemente la differenza fra i due generi: «Conclusione? Mi pare d’averla detta. Cioè, che mentre mi par sempre traducibilissima la prosa, la poesia propriamente detta è traducibile soltanto pagando un ben forte (e spesso addirittura fallimentare) tasso di sconto». (p. 384) Sembra interessante la postilla che a questa conclusione il poeta appo- ne nella versione dell’articolo pubblicata sulla «Voce adriatica» del 2 settembre dello stesso anno124: «Come postilla, voglio aggiungere que-

sto: che se si tenesse presente che poesia e prosa sono due arti distinte, non si avrebbero certi ibridismi che tanto turbano le nostre lettere: la prosa poetica, ieri, e, oggi, insorgente sul medesimo equivoco, la poe- sia prosastica». (p. 2072)

123 Pane e 'bread', «Mondo Operaio», 30 luglio 1949, ivi, pp. 381-4, a p. 381. 124 ivi, pp. 2069-72.

Il ragionamento sembra spostarsi di nuovo, coinvolgendo sta- volta l’uso del dialetto in poesia.125 Va da sé che questo interessamento

si sviluppa sulla voga poetica matura in Italia negli anni Cinquanta, co- stituendo comunque il pretesto per un ragionamento sul merito e sul valore del rapporto della lingua nazionale con le parlate locali, soprat- tutto nell’ambito degli approdi letterari. Al netto del rischio di una ri- stretta arcadia localistica, Caproni coglie e condivide la ragione politi- ca di una tale espressione, e riesce anche a motivarla finemente, dimo- strandosi attento interprete del presente. Tuttavia anche nel dialetto la questione principe rimane quella della traduzione o traducibilità delle vette più alte della letteratura. Qualunque siano le lingue in gioco, si tratta in ogni modo di «[…] penetrare un’altra cultura e coi mezzi della nostra, che in tale esercizio vengono sempre arricchiti, di farla, appun- to, nostra. Che è sempre un farne ‘un’altra cosa’, è vero, ma precisa- mente per questo anche una cosa attiva: un acquisto dove il guadagno copre sempre la spesa».126 L’imprecisione cui le lingue sono indotte nel

trasbordo dall’una all’altra può essere compensata da una penetrazione di carattere culturale che finisce per rendere profittevole un’operazione pure teoricamente imperfetta.

125 Per cui cfr. articoli come Oggetti e non più geroglifici, «Il Belli», II, 2, maggio

1953 e Destino del dialetto, «Il Lavoro Nuovo», 28 maggio 1954, Prose, pp. 545- 6 e 555-7; ma anche Problemi di traduzione, «il verri», XVIII, 26, 1968, ivi, pp. 1891-5, sull'esperienza di traduzione di Mort à crédit, e il discorso Divagazioni

sul tradurre, pronunciato in occasione del Premio città di Monselice per una tra-

duzione, ricevuto nel 1973.