3 «Difesa della poesia»
4. Ermetismo, neorealismo e giovane poesia.
Tra il 1946 e il 1949, nel pieno delle prime polemiche antiermetiche circa le responsabilità della poesia nel ventennio fascista,85 Caproni
pubblica varie versioni di uno stesso articolo, in cui, oscillazioni com- prese, vengono esposte le opinioni del poeta circa una “scuola” che aveva conosciuto nei suoi anni di prima maturazione, fino a diventarne, in virtù di una vicinanza umana e generazionale più che per un presup- posto stilistico, ciò che può essere definito, con termine politico e mili- taresco, un “fiancheggiatore”.86 Vicinanze e distanze dal gruppo, nella
85 Per ricostruire la vicenda nelle sue direttrici base si può fare affidamento su
LEONELLI, Guerra e dopoguerra. Cultura e politica e l' “impegno” degli intellet-
tuali, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, Salerno ed., Roma,
2000, vol 9 (Il Novecento) pp. 689-727.
86 La consentaneità spontanea con figure come Luzi e quelle del gruppo fiorentino
(Bigongiari, Parronchi) è ben attestata all'altezza di Cronistoria, che esce proprio a Firenze nel 1943; allo stesso modo è ben argomentabile la lettura appassionata di autori come Gatto e l'amatissimo Montale.
sostanziale difesa di una linea che all’indomani della liberazione appa- re fortemente invecchiata, sono ben descritte nei pezzi derivanti dalle varie rielaborazioni di L’ermetismo e i più giovani, pubblicato in prima istanza su «La Tribuna del popolo» il 7 luglio 1946.87 In questa prima
stesura Caproni fa quasi subito il nome di due poeti evidentemente em- blematici della linea su cui si accinge a ragionare, Mario Luzi ed Al- fonso Gatto, che poi scompariranno nelle altre stesure, probabilmente per il desiderio di donare al discorso un più ampio respiro. In contrap- posizione all’affermazione di apertura, in cui si annunciava che ormai l’ermetismo, nella percezione comune, da una posizione “di sinistra” si era spostato al centro, se non addirittura all’estrema destra, dalla parte della reazione,88 segue la notazione che la poesia dei citati Gatto e Luzi
appare agli osservatori di quella metà anni Quaranta come un’ars con-
clusa, e dunque un’accademia, che in quanto tale è passibile di imita-
zioni da parte di chi “sia del mestiere”, anche se risulta ancora lontana dal gusto popolare. Caproni opera la massima apertura verso i tempi ammettendo che ragioni “troppo evidenti” rendono ormai impossibile appigliarsi all’imitazione della poetica chiusa che l’ermetismo ha rap- presentato:
87 Prose, pp. 179-81. L'articolo comparirà senza variazioni con il titolo Poesia come
solidarietà, su «Il Lavoro nuovo» del 31 maggio 1949; due versioni modificate
sono invece Ermetismo, «La voce adriatica», 17 agosto 1947 e Una poetica 'a
priori', «Mondo operaio», 9 luglio 1949. Per la versione di questi ultimi due cfr. Prose, pp. 2054-8.
88 Anche nelle successive stesure l'autore batterà sul tasto di una opposizione di sini-
stra che in quei tempi la poetica della “poesia pura” stava subendo da parte delle generazioni più giovani.
La generazione posteriore a quella dai trenta ai quarant’anni è dunque in netto atteggiamento polemico di sinistra contro l’ermetismo. Ed è giusto che sia così, ed è fatalmente giusto che chi oggi ha vent’anni o poco più consideri in ritardo ogni giovane che all’ermetismo si appiglia. Vi sono ragioni troppo pa- lesi per non considerare giusto questo atteggiamento dei giovani o, indipen- dentemente dall’età, di chiunque in questo momento tenti la poesia: e sono le ragioni stesse che hanno violentemente riportato l’uomo nella società, quelle per cui è ormai insopportabile come una clausura ingiustificata e perfino con- dannabile l’esercizio di una virtù tutta chiusa. (p. 180)
Proprio sulla generazione dei trenta-quarantenni conviene fermarsi per citare da un altro brano del 1949,89 interessante per più motivi. Nella
estesa citazione che segue, l’autore descrive due aspetti della propria biografia generazionale, e cioè la mancanza di libertà che mette a rischio anche la propria formazione autonoma, concepita già sul nascere come l’atto di una ars chiusa in sé, clandestina, segreta, e i dati più oggettivi di una maturazione vissuta tutta in un clima militare, in vista delle campa- gne fasciste e ad esse orientata. Questi due elementi, la clandestinità de- gli interessi personali e la violenza della storia nell’ottica dell’educazio- ne del ventennio, possono rendere la giusta misura di quel che significa e significherà, più cristallizzata negli anni tardi, ammorbidita dal repentino cambiamento dei tempi in questa seconda metà dei Quaranta, la difesa della poetica pura o chiusa, in relazione soprattutto alle accuse di stra- niamento dalla storia, se non di vera e propria collusione con essa.
89 Noi quasi quarantenni, «Mondo operaio», 26 febbraio 1949, Prose, pp. 353-5.
Per una difesa della “bianca generazione”, si rimanda anche all'articolo Pretesto
Senonché quando una leva d’uomini, appunto come la nostra, viene a trovarsi per tutto il suo tragitto nella battuta di arresto ch’è sempre una dittatura, cioè nel cono d’ombra che totalmente la copre […], allora davvero un sospetto gra- va su tale somma d’individui e li ‘distingue’ dagli altri: il sospetto che, nel più generoso dei casi, debba tutta la loro autoeducazione risentire dei difetti ed ec- cessi della clandestinità – debba insomma alitare su di essa un non inesplicabi- le sentore di chiuso: in essa cui è mancata, se non la nozione, certo l’esperien- za della libertà e d’una società non ripudiabile come una continua minaccia. Vediamola la nostra biografia. Infanzia: devastata dalla guerra. Adolescenza: marcia su Roma e istantanea chiusura degli orizzonti che l’età stessa schiude- va. Adolescenza e prima giovinezza fino ai vent’anni: la parola guerra, anzi la «parola d’ordine» guerra, e quindi, se non in tutti certo in quelli che fin da pic- coli la guerra la conobbero davvero (ma forse anche gli altri, appunto perché non la conobbero) la paura e l’angoscia della guerra, vale a dire l’impossibilità di vedere un qualsiasi futuro della nostra persona. E dai venti ai trent’anni: il «premilitare» (quantunque il moschetto ce lo avessero dato in mano da molti anni prima), e il militare con «l’animo mobilitato» fino alla mobilitazione nera, fino alla guerra vera d’Africa, di Spagna, del Mondo. (p. 353-4)
Queste sono le parole da tener presenti anche in fase di storicizzazione della fede e del lavoro letterario. Tornando all’articolo del 1944, notia- mo come Caproni non abbia remore nell’ammettere che la ribellione dell’ermetismo alla dittatura si sia sfogata tutta in senso verticale, in una ricerca individuale cui ora, dopo la Liberazione, è giusto contrap- porre un afflato comunitario; una ricerca letteraria che insomma non sia più espressione di una individualità isolata da un qualunque genere di contatto con gli altri. L’impasse che l’autore considera necessario
sottolineare nasce esattamente in questo punto, in quanto: «[…] i po- stulati e spesso i risultati di tale atteggiamento polemico (una rivolta contro l’ascetismo degli ermetici per riportare la poesia verso un’im- medesimazione attiva nella società) non possono in sede estetica non apparire viziati dello stesso vizio di chi assumendola oggi sceglie la poetica ermetica: dello stesso vizio, dico d’ogni poetica ‘adottata’, o accademica che dir si voglia».90 Le critiche all’ermetismo, anche in li-
nea di massima giustificate, sono mosse da un giudizio preconcetto che non genera poesia, come non ne genera l’intenzione di imitare il lavoro di quella parte di secolo.91 Per di più mancano i risultati concreti a di-
mostrare che la nuova tendenza sia passibile di una qualsiasi credibili- tà. Di più, per dimostrare il sospetto di una poetica ‘a priori’, di fatto impossibile da sviluppare, viene fatto un criptico riferimento alle prove di alcuni giovani che, senza rendersene pienamente conto, sembrano ri- volgersi a una tradizione come quella americana, nella produzione di versi “seminarrativi” che, appunto, danno l’impressione di essere tra- dotti. Il riferimento potrebbe essere a Lavorare stanca di Pavese, di cui in effetti dal 1943 circolava per Einaudi la seconda edizione aumentata, dopo la prima uscita per «Solaria» nel 1936 (del 1941, invece, è l’usci- ta di Americana), ma forse è più giusto lasciare la definizione nel vago, attribuendola ai primi tentativi di “poesia neorealista” che cominciava- no a leggersi sulle riviste:
90 ivi, p. 180.
91 Per un panorama della “polemica” fra ermetici e neorealisti si rimanda a SERGIO
E ci sarebbe da chiedersi inoltre questo: una poetica a priori è dunque possibi- le? E per dimostrare ancora una volta che non è possibile, potremo magari sot- tolineare il sospetto che subito nasce alla lettura dei poeti più giovani: che essi si appoggino, forse senza accorgersene, a un gusto già consumato in un’Euro- pa e in un’America di molti anni fa, pur credendo di far cosa nuova. E ciò col risultato di comporre versi ibridi, ‘tradotti’, in più assumendo l’equivoco d’u- na poesia prosastica (seminarrativa), certamente altrettanto dannosa per la poesia quanto lo fu per la narrativa la prosa poetica: una pania, non c’è biso- gno di dirlo, che noi abbiamo voluto segnalare a puro titolo di informazione, in noi non essendo il minimo dubbio che molti dei giovanissimi, i quali ci han- no portato a queste considerazioni, sapranno staccarsene non appena scopri- ranno in sé la forza di farlo. (p. 181)
Quello che accade nelle due riscritture posteriori (lo ricordiamo, una del 1947 e una del 1949) è una radicalizzazione di entrambi i fuochi negativi. L’ermetismo, prima di tutto. In maniera abbastanza netta, in- fatti, esso viene definito a chiare lettere un canone inattuale, non più perseguibile, assolvibile in prospettiva storica (su questo Caproni non cederà mai) e addirittura passibile di un proficuo ritorno futuro ma as- solutamente fuori dalle necessità del momento presente. Ma l’ammis- sione più scomoda, tanto più perché effettuata senza troppi giri di paro- le, sembra essere quella di una effettiva fuga ermetica dalla storia, il che, pur con tutte le specifiche del caso, finisce per confermare l’im- pianto accusatorio maggiore, salvando il piano dell’onestà intellettuale: Perché questo è vero: che l’ermetismo è stato sì una ribellione a una tirannide, ma in direzione del tutto verticale, una ricerca di altezze e di chiuse perfezioni: un vero e proprio moto concentrico, insomma, verso una propria intimità da
salvare a ogni costo (cioè un autentico isolamento) anziché un’eccentrica spin- ta (qualcosa come un’azione) capace di muovere una ‘società’ dall’inerzia. Col che non mi si fraintenda, non voglio minimamente dire che l’ermetismo abbia in tal modo tradito quello che pur sempre resta uno dei massimi fini della poe- sia: appunto il raggiungimento d’un’individuale perfezione: unicamente voglio sottolineare che oggi, una poesia, che ha cercato soltanto di raggiungere que- st’unico fine, non può più in alcun modo essere necessaria al nostro assillo presente – al presente assoluto bisogno d’azione ch’è in questa nostra società estremamente turbata. (Resta insomma l’ermetismo o a meglio dire restano in- somma i poeti cosiddetti ermetici, una cosa del passato, o del futuro, non una
necessità dell’immediato presente). (p. 2055)
Dall’altro lato sembra acuirsi l’impressione di una poetica che non ha sussistenza perché non supportata dalle opere, un pregiudizio che per di più si macchia dell’incapacità di organizzare il lavoro comune per il raggiungimento di una possibile via espressiva delineata solo a partire da una posizione politica.
È stano: proprio a coloro che oggi appaiono e sono così sensibili alle necessità sociali dell’uomo, proprio a costoro manca ciò che vorrei chiamare il ‘cinqui- smo’,92 alludendo con ciò ai cinque musicisti russi che, messi insieme, rinno-
varono (con le loro opere, non con le loro teorie) la musica russa. Manca ad essi il senso del lavoro comune, ed il più evidente segno di ciò è che manca as- solutamente un loro gruppo, una loro rivista che sia l’indice di un proficuo la- voro comune. È uno spettacolo molto triste per noi della generazione di mezzo (che su nuove esperienze puntavamo anche per la nostra salvezza), tale co-
92 Fa qui riferimento al cosiddetto “Gruppo dei Cinque”, musicisti russi che a partire
dal 1860 rifondarono la tradizione musicale patria. Anche in questo caso come in molti altri, il primo referente del linguaggio critico caproniano è quello della mu- sica.
munque da darci la penosa impressione che ciascuno oggi consumi per suo conto (visto che i tentativi portano un segno esteriore comune) proprio una poetica aprioristica ricavata a orecchio dietro la scia degli avvenimenti politici. (p. 2057-8)
Quello che emerge a quest’altezza, che pure è il momento di massimo sbilanciamento a favore dei sostenitori di una poetica nuova, è tuttavia una difesa non oltranzista della tradizione ermetica, alla quale comun- que si addebita un qualche guasto o limite interno. A ben vedere la po- sizione di Caproni, sebbene qui sia solo abbozzata, sarà quella che, in una certa misura, risulterà vincente, opponendo a una nuova poetica solo teorica il lavoro, sostanzialmente in continuità, degli ultimi figli dell’ermetismo, i quali daranno il meglio di sé partendo da basi già so- lide proprio a partire dal 1945 e finendo per imporsi, non senza l’eter- no ritorno di un dibattito sulla legittimità storica, nel panorama del se- condo dopoguerra. Sulla linea “continuista” si può confrontare quanto scriveva Giovanni Raboni nel suo Dopoguerra e secondo Novecento:
[…] la seconda guerra mondiale, con le sue forzate scoperte nell’ordine dello sgomento e dell’orrore ma anche, in quello della responsabilità etica, ha se- gnato oppure no, nelle vicende della poesia italiana del Novecento, una rottu- ra, uno scarto decisivo? Se dovessi scegliere, senza possibilità di distinzioni e sfumature, fra una risposta affermativa e una negativa, credo che opterei per la seconda. Alla prova dei fatti, cioè dei risultati testuali, le ragioni della conti- nuità sono risultate più forti della spinta al ricominciamento, o addirittura al ri- pudio, manifestatasi negli anni immediatamente successivi al ‘45 come parte
di un vasto progetto o, per essere più esatti, di una vasta utopia di rifondazione dell’intera tavola dei valori, che interessò allora, come tutti ricordiamo, la so- cietà e la cultura italiane.93
Il dibattito riprende a metà degli anni Cinquanta,94 quando su «Il
Caffé»95 Raoul Maria De Angelis riprende le parole di un articolo ca-
proniano pubblicato su un numero de «La Chimera»96 nello stesso
anno. Alla panoramica sulla poesia del XX secolo offerta da Caproni, De Angelis risponde in maniera non chiara, oscillando con un doppio articolo fra l’ironia di un’adulazione poco convinta e vagamente canzo- natoria (Il poeta ci sta strettino),97 ed il tono serioso di una risposta che
93 GIOVANNI RABONI, Poeti del secondo Novecento, in Storia delle letteratura italia-
na, nuova edizione accresciuta e aggiornata diretta da N. Sapegno, (Il
Novecento**), Milano, Garzanti, 1987, pp. 209-11, a p. 209.
94 «È possibile distinguere due fasi essenziali di questo atteggiamento di rivolta. Una
prima fase, più diretta e più ingenua, passò senza lasciare alcuna traccia di rilievo, ed è quella della poesia che si definì o fu definita neorealista e che produsse in ri- viste, fogli e collane di breve o brevissima vita un grande numero di scritture in versi del tutto inapprezzabili dal punto di vista espressivo, caratterizzate da un po- pulismo acceso e schematico e da un linguaggio rozzamente emotivo o piattamen- te comunicativo. A differenza del romanzo, che sulla base di propositi non dissi- mili diede qualche risultato meno effimero, la poesia nata sotto questo segno si bruciò interamente nel cerchio delle proprie intenzioni; e fu altrove, in altre scrit- ture, che si incarnarono e diedero frutti le tensioni di cui essa era sintomo. Una se- conda fase, incomparabilmente più articolata e incisiva, si avrà più tardi, nella se- conda metà degli anni Cinquanta, con il lavoro dei poeti raccolti intorno alla rivi- sta «Officina» e, in particolare, con le prime importanti raccolte poetiche in lingua italiana di Pier Paolo Pasolini. Ma l'antinovecentismo di questi autori, pur ripren- dendo alcuni spunti polemici e alcune istanze etico-critiche del neorealismo, spo- sterà l'accento della rottura a un recupero sperimentale di forme e modi pre-erme- tici, o addirittura pre-simbolisti, dando soprattutto vita, come vedremo a suo tem- po, a un'esperienza, anzi a una serie di esperienze di innegabile rilevanza stilisti- ca», ivi, p. 210.
95 n. 3, 1954.
96 Sono i poeti i misconosciuti legislatori del mondo, cit.
97 «Sono, i poeti, i misconosciuti legislatori del mondo: così afferma, su La Chime-
vorrebbe essere più compita dal titolo I simboli del decoro non ci ba-
stano. Caproni risponderà in tono conciliante sul numero successivo de
«Il Caffé».98 In sintesi, il risentimento di Caproni riguarda il posto che
la società a lui contemporanea riserva alla poesia, ancora configurata, dall’inizio del secolo fino alla sua metà, come il mezzo più efficace nel portare notizie sulla vita spirituale della collettività. Il confronto è pati- to soprattutto in relazione al grande successo e al grande strepito che si crea intorno ai romanzi ed ai film, due generi cui i letterati si stanno convertendo in massa, nell’opinione del poeta, attirati dal profitto:
[…] del vario cinquantennio trascorso – segmento tutto di comodo, lo sappiamo – se il nostro spirito ha serbato qualche lucida e precisa testimonianza o reliquia, e vorrà un giorno accendere una candelina a qualche ‘santino’ tuttavia vivo, è pro- prio vero che, dalla parte dell’anima o dell’animo nostro: dico dei veri figli del no- stro tempo, dovremmo andare a frugar fra le ceneri, di certo ancora calde, di quei film e di quei romanzoni che lì per lì hanno agito di più sul costume (e tutt’altro stile umano in chiave di poesia. Grazie a Dio, a rendere sopportabile il frastuono in questo mondo, ci sono ancora dei Caproni, dei Luzi, degli Anceschi (e delle «chimere») in giro: gente dallo spirito raccolto, intenta a registrare i suoni più sot- tili della vita, a dare una lezione di dignità artistica, senza opportunismi. Caproni riconosce che, nella società d'oggi, “il poeta ci sta più strettino che mai”, e si duo- le che costui abbia ceduto la briglia ai romanzieri (e ai cineasti). Tanto strettino che – egli ammette – “non fa più un gesto e lesina le parole una per una”, mentre i romanzieri – dice – hanno imparato bene la chiara sollecitazione e lezione di un'e- tà squisitamente politica. Il discorso del nostro amico poeta continua così, semi- nando la sua stretta palafitta a difesa delle intrusioni che possono essere sospinte nell'area artistica della “fatua sirena delle circostanze”. E giunge alla conclusione che, se il nostro spirito serba oggi qualche testimonianza o reliquia del cinquan- tennio trascorso , essi non sono lembi di romanzoni, ma sono frammenti di quella poesia (dalla Voce al Luzi, appunto) che ha rinnovato il linguaggio dell'epoca. Il bravo poeta, in definitiva, alza sulla cittadella fiorentina testé ricostruita il vessillo candido di un impegno che vuole difendere l'ingegno – e il costume artistico – dalle contaminazioni».
che negativamente, nella loro bella e veemente vampata, non foss’altro per essersi prestati volentieri a nuovi pretesti di conversazione), o non piuttosto fra le poche poesie scelte dalla poca produzione di quei pochissimi poeti (dalla «Voce» al Luzi, poniamo: e le dita son forse troppe per contarli) che davvero posson dirsi i pionie- ri, a tutto loro danno personale nella carriera mondana, nella dimensione del no- stro più proprio linguaggio […]? (p. 565)
La risposta di De Angelis non appare in fin dei conti troppo divergente dalla dicotomia posta da Caproni se non in un punto che riabilita la questione e pone al centro della scena proprio gli scrittori che il poeta di Livorno bolla in maniera un po’ sommaria come “romanzanti”; sono loro, afferma nella sua ripresa De Angelis, che alla svolta della metà del secolo portano avanti, abbandonati dai rappresentanti della pura ri- cerca poetica, quell’avvicinamento allo spirito del tempo che anche Caproni, pur se in termini opposti, indicava come necessario. Lo “scontro fra generi”, dunque, sebbene riduttivo, viene confermato nel- l’impianto, anche se letto in maniera diversa dal giornalista de «Il Caf-