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1943-1945 Bambini nascost

4.2 Alla prova della clandestinità

Dopo che trovò un provvidenziale rifugio, il giorno del rastrellamento di Roma, in casa di un’amica, Franca Tedeschi si sentì presto in un luogo inospitale. Rimanere nascosta in casa a differenza della sua amica che poteva uscire e vivere all’aperto come se niente fosse successo, parve a Franca un obbligo così incomprensibile quanto tremendamente faticoso da tollerare: «In più mi ricordo che la mattina la bambina usciva per andare a scuola e noi volevamo andare a scuola ma dovevamo stare nascosti, mi ricordo che guardavo attraverso le persiane tutte queste persone che passavano e che pensavo “Ma perché non posso uscire, perché devo stare dentro

come una prigioniera, che ho fatto male, non faccio del male a nessuno, eppure dobbiamo stare nascosti” e mi dispiaceva molto, sentivo questa mancanza di

libertà anche perché noi eravamo molto conosciute nel quartiere perché eravamo 4 bambine sempre vestite tutte e quattro uguali…» 27.

Chi fu costretto a stare nascosto e “invisibile”, condusse un’esistenza con peculiarità comuni, ma anche con maggiori complicazioni di chi invece poté vivere alla luce del sole. Ai bambini “invisibili” infatti, «venne negata una normale infanzia, furono privati di tutto ciò che questa comporta: istruzione, sviluppo di capacità, modelli di relazioni famigliari, processi di socializzazione. Soffrirono invece di deprivazioni di persistenti incertezze psicologiche tra la (normalmente inespressa) asserzione del proprio diritto di vivere e la (troppo spesso manifesta) gratitudine nei confronti di chi si prese cura di loro». Sempre, secondo Debórah Dwork, i bambini «nascosti ma “visibili”, dovettero anch’essi superare difficoltà analoghe a quelle sperimentate dagli “invisibili” […]. Se è vero che i primi goderono di maggior libertà, e in qualche caso furono tanto fortunati da condurre una normale vita infantile, i più grandi, quelli in grado di capire (seppure vagamente) il pericolo della situazione, come gli altri vissero nel terrore di tradirsi o di essere denunciati. Non dovettero occultare la loro presenza fisica ma la loro identità ebraica»28.

26 Per uno sguardo d’insieme su questi campi si vedano i saggi di A. M. Ori, Fossoli, dicembre

1943-agosto 1944, C. Villani, Il Durchgangslager di Bolzano (1944-1945), S. Bon, La Risiera di San Saba, in B. Mantelli (a cura di), Il libro dei deportati, Vol. II, Deportati, deportatori, tempi, luoghi,

Mursia, Milano 2010; su Fossoli in particolare si veda anche la recente opera di Liliana Picciotto,

L’alba ci colse come un tradimento. Gli ebrei nel campo di Fossoli. 1943-1944, Mondadori, Milano

2010.

27 ACS, SHF, c. n. 8777, Franca Tedeschi Portaleone. 28 D. Dwork, Nascere con la stella, cit., p. 107.

Alcuni autori hanno riscontrato29 che i bambini nascosti insieme alla

famiglia generalmente sopportarono «disagi e difficoltà con maggiore forza d’animo» di chi invece rimase da solo o insieme a persone sconosciute30.

È probabilmente vero che anche la presenza di un solo famigliare poteva bastare ai bambini per sentirsi, nonostante tutto, sufficientemente sicuri e tranquilli. Roberto Bassi aveva capito che dividersi dai genitori e andare nell’Istituto “Pro Infantia Abbandonata” sarebbe stata una condizione necessaria per «alleggerire» il compito dei genitori nella salvaguardia della famiglia dopo l’arrivo a Roma: «in più poi», ha raccontato Bassi, «io ci sono andato anche con mia sorella, quindi niente di drammatico, niente di particolare. Dopo semmai è stato difficile l’adeguarsi a questa vita un po’ particolare del collegio…»31.

I tre fratelli Levi, nascosti nel paesino piemontese di Torrazzo Biellese, trovarono nella madre uno schermo efficace nell’ovattare la loro precaria condizione di perseguitati e nel far trascorrere i giorni nel mezzo della guerra senza l’angoscia di sentirsi costantemente in pericolo: «Nostra madre», racconta Andrea Levi, «non ci trasmetteva ansia, tutt’altro, effettivamente ci faceva fare una vita normale, e sostanzialmente c’è riuscita; le ansie che erano normali erano molto attutite, ma poi noi facevamo la vita dei contadini, anzi, eravamo più naturali dei contadini!»32.

Dello stesso parere è anche il fratello Giovanni: «L’impressione che ho avuto è che era un periodo piuttosto giocoso mi pare... Questo sempre per merito di mia madre... Penso sempre che cosa angosciante fosse per mia madre, ma lo penso ora. Mia madre, in un’autobiografia che ha scritto e che non ha pubblicato, in risposta all’autobiografia di suo marito [Ricordi politici di un

ingegnere, ndr], ha scritto: “Tu ti sei ‘divertito’ a fare il partigiano… mentre io stavo lì con i tre bambini, terrorizzata dai rastrellamenti e dai repubblichini…»33.

Fiammetta Falco, se pensa alla sua vita prima della persecuzione, non riesce a ricordare piacevolmente i mesi trascorsi insieme alla famiglia fra i monti soprastanti Sestri Levante; eppure, quando dopo tanti anni di distanza ha rivangato quei momenti, riconosce che il clima famigliare, rimase tutto sommato sereno. Secondo il parere di Fiammetta, ciò fu soprattutto merito dei genitori i quali si prodigarono come meglio poterono per preservare lei e le sorelle più piccole dal «peggio», senza però trascurare di spiegare loro anche le ragioni di tanti patimenti34.

29 Si vedano per il caso italiano S. V. Di Palma, Bambini e adolescenti nella Shoah, cit., pp. 115-127, e le riflessioni complessive in D. Dwork, Nascere con la stella, cit., pp. 104-124.

30 S. V. Di Palma, Bambini e adolescenti nella Shoah, cit., p. 115. 31 Intervista a Roberto Bassi, Venezia, 4 dicembre 2007.

32 Intervista ad Andrea Levi, Genova 13 novembre 2008. 33 Intervista a Giovanni Levi, Venezia, 12 marzo 2008.

34 «Debbo dire che ho avuto la fortuna di aver avuto due genitori meravigliosi che hanno fatto tutto il possibile per preservarmi il peggio, ma nello stesso tempo mi hanno reso cosciente di quello che stavamo passando, e se confronto l'esperienza mia con quello di mio marito - che poi è molto simile perché anche loro sono stati salvati da una famiglia nell'entroterra ligure - i miei

Essere edotti sullo stato delle cose, ascoltare le discussioni sul dal farsi degli adulti, permetteva ai bambini di sentirsi pienamente coinvolti nella vita famigliare, di immergersi in un ruolo diverso da quello che con molta probabilità sarebbe stato riservato loro. Riflettendo sulla propria partecipazione alle vicende dei “grandi”, Cesare Rimini ha osservato: «Ora mi sembra strano ma dall’inizio noi bambini abbiamo partecipato alle vicende dei grandi insieme a loro. Non siamo mai stati fuori dai problemi, forse sarebbe stato difficile darci una visione alterata della realtà, ma nessuno ci provò. I grandi non abbassavano la voce in nostra presenza e così tutti i rischi erano chiari, anche a noi sembrava di partecipare alle decisioni. Le storie della famiglia si aggregavano e si scomponevano per la forza degli avvenimenti. Ci sono delle date che hanno avuto riflessi sulla vita di tutti, tutti hanno perso qualche cosa, anche solo una parte della giovinezza, ma noi bambini le abbiamo vissute come una cronaca di famiglia»35.

Purtroppo, sostenere le dure condizioni di vita, mentire su se stessi, mantenere giorno dopo giorno «quel vivere», «del tutto avulso dal passato e dal futuro»36, segnava profondamente il corpo e l’animo dei perseguitati,

per cui durante la convivenza forzata si cadde in disaccordi e in incomprensioni che talvolta sfociarono in veri e propri litigi.

Salvatore Jona, avvocato e padre di famiglia nascosto in un piccolo borgo dell’Appennino Ligure, dichiarò nelle sue memorie: «Non rimaneva che il misero presente, afflitto da cento piccole necessità quotidiane, amareggiato dall’onta e dal peso della menzogna che ci attanagliava alla gola. Il fisico era tremendamente peggiorato; traumi psichici e nervosi: le frequenti discussioni in casa, le sgridate ai figliuoli, i cozzi, anche violenti, tra i grandi peggioravano la situazione e ci rendevano sempre più instabili e nervosi»37.

Il nervosismo degli adulti collimava con il temperamento vivace dei bambini alimentato, secondo la moglie dell’avvocato Jona, Emilia Pardo, dal molto tempo trascorso fuori del nascondiglio: «Mi davano tante soddisfazioni, ma purtroppo noi eravamo nervosissimi e non tolleravamo la

suoceri però hanno, direi, quasi "violentato" questi bambini che avevano con queste paure, responsabilizzandoli talmente che questi sono venuti su, secondo me, un po' scioccati. Mentre io, nonostante tutto l'atmosfera di famiglia era tranquilla, con delle privazioni, però ci spiegavano, "Guardate non possiamo più avere questo... lo zucchero non c'è più...". Comunque a parte questi momenti di tragedia però l'atmosfera generale era di molta serenità, devo dire che anche le mie sorelle che erano piccoline non hanno avuto traumi, per cui credo sia stata una gran fortuna avere dei genitori con i nervi saldi». Intervista a Fiammetta Falco Jona, Venezia, 21 maggio 2010.

35 C. Rimini, Una carta in più, Mondadori, Milano 2001, p. 57 (1a ed. 1997).

36 «Non era vita […]. Il passato ci appariva come una favola irreale, alla quale avevamo inconsciamente partecipato senza renderci conto della sua incomparabile bellezza ed il cui solo ricordo destava in noi riflessioni così amare e reazioni così incontenibili, da costringerci ad evitare con ogni sforzo che il pensiero vi tornasse su». S. Jona, Resistenza disarmata, cit., p. 70. 37 Ibidem.

loro vivacità scatenata (tanto più viva quanto più vivevano all’aperto, in compagnia di ragazzi poco educati)»38.