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Fonti e metodologia

2.2 Questioni di prospettiva

Sulla scia dell’approccio francese, si è pensato da subito di dare al lavoro una base pluridisciplinare, associando l’analisi storica con quella psicoanalitica, dal momento che sembrava impossibile affrontare l’argomento senza tener conto delle conseguenze traumatiche lasciate dalla persecuzione nell’animo di quelle giovani generazioni. Sara Valentina di Palma ha sottolineato come i traumi subiti nella Shoah dai più piccoli «restano indelebili, nelle loro vite e nelle loro testimonianze, sino ad essere trasmesse attraverso il sangue ai loro figli; rompono la vita di chi fa ritorno in due tronconi, tra un passato reciso dalla violenza e il presente della sofferenza, che anche dopo la guerra continua ad essere dilatato e incombente sulla vita futura. Tutti i bambini che sono passati attraverso la Shoah, sopravvivendo ad essa, conoscono la medesima dilatazione di quella tragica esperienza»39. La memoria della vita clandestina e le sue

conseguenze traumatiche dovevano rappresentare i due fuochi della ricerca. Con tale prospettiva, avvicinandomi, per quanto possibile, ai metodi d’indagine adottati dall’analisi psicoanalitica, ho composto una griglia di interrogazioni mirate a comprendere la situazione sperimentata durante gli anni della persecuzione e le conseguenze, non solo negative, del trauma subìto; le domande che componevano la griglia erano suddivise in tre periodi:

PERIODO DELLA PERSECUZIONE DEI DIRITTI

1. La sua famiglia osservava la religione ebraica?

2. Si ricorda come la sua famiglia accolse la notizia della promulgazione delle leggi razziali?

3. Percepì una mutazione nello stato d’animo all’interno della vostra famiglia

4. L’esclusione dalla scuola come fu vissuta e quali effetti ebbe su di lei? 5. Andò in una scuola ebraica? Che rapporti ebbe con gli altri alunni della scuola ebraica e con gli insegnanti?

6. Con le leggi antisemite suo padre perdette il lavoro? 7. La condizione economica della sua famiglia cambiò? 8. Come cercavate di sostenere questa situazione?

9. I suoi genitori pensarono mai di lasciare l’Italia? E di andare dove? 10. Si ricorda come venne considerata in famiglia l’intervento italiano nel secondo conflitto mondiale?

11. La caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, come fu valutata?

12. C’era la speranza che la mutata situazione politica risolvesse in meglio la situazione degli ebrei?

13. Avevate timore di un qualche ripercussione nazista? 14. Vi era giunto qualche sentore delle violenze naziste?

PERIODO DELLA CLANDESTINITA’

1. Quale fu l’atteggiamento e come reagirono i suoi genitori all’8 settembre?

2. La sua famiglia subì una delazione?

3. Come fu presa la decisione di abbandonare la propria casa? 4. Le fu dato un nome falso?

5. Come visse la nuova identità?

6. Rivelò mai a qualcuno la sua identità?

7. Nessuno sospettò o tutti sapevano e tacevano sulla sua vera identità? Com’era l’atteggiamento di queste persone verso di lei?

8. Dove fu nascosto e con chi? 9. Fu staccato dai suoi famigliari?

10. Vi aiutò qualcuno nella ricerca del nascondiglio?

11. Che atmosfera regnava all’interno del luogo dove era nascosto? 12. Com’era la vita nel nascondiglio?

13. Aveva momenti di svago?

14. Ha mai avuto paura di morire quando era nascosto?

15. Ha mai pensato a quello che poteva succederle se veniva catturato? 16. Quale reputa essere stato il fattore decisivo alla sua salvezza? DAL DOPOGUERRA FINO AD OGGI

1. Come è stata la sua liberazione? 2. Si ritiene un sopravvissuto?

3. Come considera la sua esperienza di bambino nella Shoah? 4. Quando è venuto a conoscenza dello sterminio?

5. Delle cose che ha lasciato prima di essere nascosto ha ritrovato qualcosa?

6. Sente di avere un legame con questi oggetti? 7. Parlavate mai in famiglia delle persecuzioni?

8. Quando lei ha cominciato a parlare in privato e in pubblico della sua esperienza? E cosa l’ha spinto?

9. Chi sente che nella sua famiglia è più attento alla sua testimonianza? 10. Non ha mai provato la sensazione che le persone non potessero capirla perché non hanno condiviso le sue stesse esperienze?

11. Si sentì influenzato dallo stato d’animo dei suoi genitori/fratelli/parenti sopravvissuti con lei?

12. Nel corso degli anni quanto odio ha provato verso i suoi persecutori? Perché in lei è stato più forte il desiderio di raccontare la sua esperienza più che rimuoverla dalla memoria?

13. Sogna mai di essere ancora là nel nascondiglio? 14. Com’è stato il suo rapporto con la religione? 15. Come considera l’opera svolta dalla Chiesa?

16. I suoi genitori che aspirazioni le trasmettevano e lei che cosa ha cercato di trasmettere ai suoi figli?

17. Come è stato il suo rapporto con i suoi genitori? Li ha mai idealizzati? 18. Ha mai sentito sulle sue spalle il peso far parte della generazione destinata a continuare la storia della sua famiglia e in generale la storia ebraica?

20. La sua esperienza si è rivelata nel corso degli anni più uno stimolo o un freno alla sua vita?

A queste domande non tutti gli intervistati hanno dato le risposte che si aspettavano, perciò divenne evidente che probabilmente era necessario considerare la questione all’interno di uno specchio interpretativo più ampio, seguendo all’occorrenza i suggerimenti provenienti soprattutto dalle riflessioni di Boris Cyrulnik, affermato etologo, psichiatra e psicoterapeuta francese (figlio di deportati ad Auschwitz) e teorico della «resilienza» (la capacità dell’uomo di affrontare e superare le avversità della vita), nonché di altri celebri esperti del mondo infantile quali Bruno Bettelheim e François Dolto.

Nell’intenzione di considerare solo il trauma possibile (però, come dire, che non avrebbe potuto non sussistere), non si stava infatti considerando coloro che di quell’esperienza, conservano ancor oggi un ricordo poco, o addirittura, per nulla drammatico né pertanto traumatico. Quest’ultimo aspetto, attenendosi troppo rigidamente alla linea indicata dalla griglia di domande individuata in principio, (il cui contenuto è stato influenzato per molti versi dai diversi studi francesi sull’argomento in cui l’esperienza del trauma nel bambino nascosto appare come un elemento centrale)40 non

veniva proprio considerato. Sebbene Debórah Dwork abbia posto l’accento come in ogni tipo di esperienza, «l’aver vissuto nascosti (e invisibili) o “da nascosti” ma visibili»41 fu comunque problematica, non è pur vero che essa

sia stata, necessariamente, un esperienza negativa o ricordata come tale. A proposito, sono state illuminanti, in questo senso, le dichiarazioni di Giovanni Levi il quale ha conservato un’immagine per nulla traumatica dei mesi passati da “bambino nascosto”:

Probabilmente per il mio carattere gioioso anche la mia rielaborazione è più gioiosa che drammatica, ma tuttavia ho effettivamente avuto la sensazione che sia stato un bel periodo della mia vita e non tragico, malgrado i pericoli, questo anche perché i pericoli in fondo sono costruttivi... 42

Questo ulteriore elemento è evidente sia da alcune interviste, sia da un’analisi più approfondita della varia memorialistica. La centralità dell’aspetto traumatico individuata in partenza, ha dovuto di conseguenza essere condivisa con lo studio delle situazioni che, grazie a particolari fattori, sono state colte dai bambini in modo tutt’altro che doloroso. Per la verità alcune opere cinematografiche avevano già intuito come il mondo infantile fosse stato capace attraverso la sua rappresentazione (riuscendo a

40 Cfr. cap. I, nota 67.

41 Dwork, Nascere con la stella, cit., p. 92.

unificare immagini fra loro contrastanti che un adulto per la sua razionalità non sarebbe in grado di associare), anche di vivere qualcosa di “inconcepibile”, a sopportarlo e dunque a sopravviverci senza troppo sconvolgimento interiore. Tale prospettiva, già presente ne il biografico Le

vieil homme et l’enfants di Claude Berri43 (storia di un bambino ebreo ospitato

da un anziano antisemita francese inconsapevole della sua reale identità) appare in tutta la sua evidenza nel film di Roberto Faenza Jona che visse nella

balena 44, (tratto dalla storia autobiografica di Jona Oberski sopravvissuto a

Bergen-Belsen45) e soprattutto nel favolistico La vita è bella46 di Benigni: tutti e due i film infatti, «vedono come protagonista un bambino incontaminato, incapace, davanti all’orrore, di comprenderlo realmente»47. Enrico

Modigliani nell’intervista realizzata per la Shoah Fondation ha ritrovato nel modo ironico e giocoso di Roberto Benigni di “far leggere” la tragica realtà della persecuzione razziale al piccolo protagonista del film, la stessa strategia utilizzata in un momento delicato dai propri genitori quando si trovarono nascosti in una casa di campagna fuori Roma:

In questa casa è avvenuto un episodio, chiamiamolo, un gioco che facevano i miei genitori... che ogni volta che lo rievoco non riesco a non commuovermi, incredibile, ogni volta dico questa volta lo devo raccontare e invece... il gioco consisteva in questo: la casa era su due piani, la nostra stanza da letto era al secondo piano. Mia madre doveva tener chiusa la porta, mio padre doveva legarmi una corda attorno alla vita e io dovevo tenere in braccio mia sorella di sei mesi, e mio padre mi calava dalla finestra con questa corda, e una volta sceso giù mi dovevo slegare e correre nella casa dei contadini di fronte. Non è stato fortunatamente necessario, però il concetto, ogni volta che ci penso è questo: che mio padre e mia madre, dovevano prendere tempo mentre le SS facevano irruzione in casa, mia madre doveva riuscire per pochi secondi a tenere la porta chiusa in attesa che mio padre ci facesse fuggire e ci liberasse. Questo però era rappresentato come un gioco che io facevo con molta partecipazione e comprensione e immagino di averne capito molto bene il significato, però lo vivevo come un gioco, e questo, in un certo senso, mi ha fatto comprendere e apprezzare in modo particolare il modo di raccontare di Benigni nel film La vita è bella. Con questa esperienza posso dire di aver vissuto qualcosa di simile. 48

Della realtà che vive, il bambino non raccoglie le informazioni che così come sono, ai suoi occhi inconsapevoli sarebbero incomprensibili, ma cerca di ordinarle e a darle un senso.

43 C. Berri, Le vieil homme et l’enfant, Fr.-It. 1967. 44 R. Faenza, Jona che visse nella balena, It. Fr. 1993.

45 J. Oberski, Anni d’infanzia, Mondadori, Milano 1982 (Ed. org. 1978). 46 R. Benigni, La vita è bella, It. 1997.

47 C. Gaetani, Il cinema e la Shoah, Le mani, Genova 2006, p. 188. 48 ACS, SHF, c. n. 40308, Enrico Modigliani.

L’innocenza è dunque un elemento basilare nella vita di perseguitati. Su questo punto sembra concordare anche Aldo Zargani: la differenza di appena un anno che correva fra lui e suo fratello è stata infatti determinante nella diversa percezione della propria situazione di bambini ebrei nascosti in un collegio cattolico:

Mio fratello, così bambino, non poteva vivere esperienze uguali alle mie, e perciò gli ho chiesto, oggi che ha sessant’anni anche lui, che cosa pensasse di me quando piangevo il primo dicembre 1943 all’Arcivescovado e durante gli iniziali tremendi quindici giorni di acclimatazione al collegio, e lui mi ha risposto: «Beh! Ho pensato che eri un intollerante stronzo. Quando ti vedevo mi inferocivo, e non parlavo perché altrimenti per te sarebbe stato peggio. Ma come era possibile che tu piangessi tanto, e questo per il fatto di essere stato schiaffato in collegio con me? Da anni la mamma mi minacciava di mettermi in collegio se non la smettevo di essere come sapevi che ero. Ti avevano beccato come me nonostante la corazza della tua ben nota ipocrisia, ma tu non ti rassegnavi ad affrontare la tua condanna con dignità, piagnucolavi come una bambina e non c’era verso di farti smettere. Questo pensavo, allora, di te». Lui, fino alla salita in montagna, era un bambino piccolo e poteva vivere solo i suoi drammi, non quelli dell’umanità, come invece era divenuto necessario in quell’emergenza.49

Le considerazioni di Zargani aprono un’altra prospettiva d’indagine: la possibilità che, soprattutto per i più piccoli, non abbiano colto le differenze del presente con il mondo di prima non avendone avuto di esso alcuna precedente esperienza. Di questo parere è anche Giovanni Levi, il quale riflettendo sull’opera di Aldo Zargani e confrontandola con il proprio vissuto da bambino, ha affermato:

Io ho apprezzato molto il libro di Zargani, perché un bambino come può pensare che ci sia qualcosa di diverso che nascondersi sotto falso nome in un convento o in un paese di montagna... io francamente ero convinto che fosse tutto normale... non sapevo che la guerra incominciava e che finiva... Probabilmente mio fratello che è del ’37 era più cosciente, ma io che son nato nel ’39 ho vissuto i primi sei anni della mia vita così.50

L’inesperienza del passato, l’influsso dell’immediato ambiente esterno (la madre, i fratelli, gli altri bambini, i partigiani ecc.), nonché una certa predisposizione caratteriale, hanno contribuito a far percepire a Giovanni Levi bambino una reale normalità in una situazione tutt’altro che normale. Con altri fattori, come ricorda una ex bambina nascosta intervistata da

49 A. Zargani, Per violino solo, cit., p. 214.

Debórah Dwork, la quotidianità percepita sarebbe stata con molta probabilità un’altra:

«I nazisti ungheresi... Le croci frecciate...Erano lì e portavano via tutti gli ebrei abitanti della casa. Così quella sera stessa andammo da un gentile, amico di mio padre...Vivevamo da loro, e io non riuscivo a capire perché non tornavamo a casa nostra. Stavamo là... ricordo che ci stavo ma non capivo. Ricordo la costante ansietà che trapelava da mia madre, che naturalmente era angosciata ventiquattro ore al giorno... L’ansia, questa è la sola cosa che rammento. E pensavo che la vita fosse quella. Che poteva capire una bambina di tre anni? Così andavano le cose. Si viveva perennemente nell’angoscia e nel timore»51.

Era indispensabile dunque osservare le storie dei bambini nascosti senza allontanarsi troppo da quello che era stata la visione effettiva del bambino, dimenticando una delle premesse inscindibili per lo studio della memoria infantile, ossia, considerare i fatti nella prospettiva di chi li visse in giovane età e li ricorda da adulto52. Per questo motivo è stato altrettanto necessario

pensare ad una narrazione storiografica “dalla parte dei bambini”, in grado di ricostruire il mondo interiore ed esteriore (con tutte le sue possibili sfumature) in cui essi vissero quegli anni, sciogliendo dalle loro memorie i nodi tra rielaborazione e ricordo delle percezioni provate nell’infanzia. L’operazione non è facile: se alle volte è lo stesso testimone a sbrogliare l’intreccio fra passato e presente (come in Aldo Zargani, e Giovanni Levi), in altri casi non è poi così immediato53.

51 Testimonianza di Judith Ehrmann-Denes in D. Dwork, Nascere con la stella, cit., p.93-94. 52 «Nel momento in cui l’analisi storica si rivolge alla persecuzione contro i bambini si assiste a un interessante paradosso, se da un lato, sono necessarie riflessioni mature, dall’altro ci si basa su testimonianze fornite da sopravvissuti che, essendo all’epoca dei fatti molto giovani, necessariamente non possedevano gli strumenti critici propri di un’età formata come quella adulta. La visuale attraverso cui i bambini hanno vissuto la Shoah impone pertanto agli studiosi di allontanarsi un po’ dagli strumenti logici usuali di comprensione, per vedere i fatti con gli occhi dei bambini. Gli stessi testimoni, nel momento in cui si riaccostano alla rievocazione del proprio passato, agiscono da una prospettiva adulta: anche il loro approccio, dunque, necessita di un ritorno al punto di vista infantile». S. V. Di Palma, Bambini e adolescenti

nella Shoah, cit., pp. 19-20.

53 Un esempio: Fulvia Levi di Trieste con i genitori nella primavera del 1944 viene aiutata da un amico a sistemarsi temporaneamente a Venezia in una fabbrica abbandonata. Fulvia racconta del divertimento nel girare tra i vari locali della fabbrica, divertimento che lei ricorda però come “amaro”. Quanto amaro può essere un divertimento per un bambino? Quanto invece quel sentimento ricordato è frutto di una rielaborazione successiva?

«Poi Zennaro ci sistemò in una fabbrica dietro la stazione di Venezia, dove Zennaro aveva raccolto tre baresi, padre madre con un bimbetto piccolo e stavano al pian terreno. Ma la fabbrica aveva vari piani e io ragazzina come ero dovevo trovare qualche motivo di distrazione e ho cominciato a girare di qua e di là su per le scale... andiamo in questa camera, scegliamo questa camera, forse è più bella questa... solo che la fabbrica era proprio in rovina e anche per abitarci bisognava sistemarla un po’, e ci siamo procurati tre brandine di ferro. Papà e io