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L’infanzia ebraica nell’Italia prima delle leggi razzial

1.3 A onor di Patria

Fra le pagine del libricino inedito, stampato per i propri congiunti da Franca Polacco, si possono osservare molte fotografie d’epoca, alcune delle quali ritraggono famigliari e amici, mentre altre raffigurano vari momenti della vita nella Comunità ebraica di Venezia. Fra queste ultime, compare una fotografia (fig. 1.), scattata durante un Seder celebrato in Comunità intorno agli anni Venti, che ben si presta a dare l’idea dell’intreccio tra fascismo e vita ebraica comunitaria. Nella foto si scorgono almeno un centinaio di persone: sono soprattutto bambini della comunità che, in un’ampia sala, seduti allegramente intorno ad una grande tavolata a ferro di cavallo, attendono di ricevere le pietanze della festa. Osservando bene questa immagine in bianco e nero, soffermandosi sui volti sorridenti dei visi dei bambini rivolti alla macchina del fotografo, viene spontaneo ritornare alla gioiosa atmosfera che allora si stava respirando in quel salone pieno del vociare festoso di quell’allegra compagnia sulla quale svettano addossati alle pareti - ma sembrano quasi fuori luogo nelle loro seriose pose istituzionali - i ritratti del Re Vittorio Emanuele III (posto in bella vista sopra la bandiera tricolore con lo stemma sabaudo) e di Benito Mussolini.

78 Come fu, ad esempio, per Davide Schiffer, figlio di un ebreo ungherese e di una ragazza italiana cattolica, che, educato al cattolicesimo, trovò strani ma particolarmente piacevoli gli usi rituali della nonna ungherese la volta in cui venne a trovarlo in Italia: «Nonna Cathalin», ha scritto Schiffer, «preparava il mangiare il venerdì e per tutto il giorno non voleva essere disturbata. Accendeva sul mobile in sala le due candele rituali, accanto alla Menorah, e poi non faceva niente. Nessuno faceva niente fino a sera. Si aspettava fino a quando non spuntava la prima stella in cielo e si dava il via a una grande scorpacciata. C’era da mangiare per un reggimento. A noi bambini piacevano soprattutto i dolci, quelli con noci e marmellata…» D. Schiffer, Non c’è ritorno a casa… Shoah, Resistenza, Dopoguerra, Sei, Torino 2008, p. 41.

(fig. 1)

Il rapporto del fascismo con le comunità ebraiche italiane fino alla svolta decisiva delle leggi antisemite del ’38 fu contraddistinto da un vigile e, in molta parte, ambiguo atteggiamento di controllo. In via ufficiale le comunità non mancarono di esprimere il loro favore alla politica del duce cercando di non disgiungere l’ebraismo dal patriottismo nazionale79;

tuttavia, nell’ambito privato bisogna ritenere che gli ebrei italiani mantenessero legato il loro senso patrio più che al fascismo e al suo capo, al Re d’Italia e in generale a Casa Savoia verso la quale, secondo quanto sottolineato da Enzo Collotti, continuava a permanere «il debito di riconoscenza» per avere «dato il via definitivo all’emancipazione»80.

Come già è stato ricordato citando le considerazioni di Michele Sarfatti, in proporzione al resto della nazione negli ebrei italiani le idee antifasciste

79 A questo proposito vale la pena di soffermarsi sul contenuto dell’albo accompagnatorio di un’offerta di 50 mila lire all’Ente Opere Assistenziali di Venezia, con cui il 4 novembre 1936, la Comunità israelitica della città lagunare intendeva omaggiare la «Vittoria della nostra Patria ora coronata colla fondazione dell’Impero»: «Ad esaltazione/ dell’ascesa trionfale dell’Italia fascista/

concepita, preparata e condotta/ dal genio di Benito Mussolini*/ e coronata nell’anno XIV E.F. colla

fondazione dell’Impero/ la Comunità israelitica di Venezia*/ che alla fede religiosa unisce ardente/

l’amore alla Patria/ fedele alla lunga costante tradizione/ di fratellanza e solidarietà con tutti gli altri italiani/ chiama a raccolta nella persona dei rispettivi capi/ tutte le famiglie che la costituiscono/ perché/ elevino esultante e devoto il pensiero/ alla più grande e potente loro patria fascista/ al Re Imperatore

Vittorio Emanuele III* il vittorioso/ al Duce del Fascismo, salvatore della nazione/ costruttore e

fondatore dell’Italia imperiale/ 4 novembre 1936» * In grassetto nel testo. Come si evince dalla

risposta alla Comunità della Segreteria particolare del Duce, a poco meno di un anno e mezzo dalle disposizioni razziali, Mussolini espresse il suo «compiacimento» per l’atto della Comunità. Si veda ACS, SPD, CO, b. 447, fasc. 172.097/7, Venezia Comunità israelitica offerta. 80 E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei, cit., p. 14.

sussistevano in misura maggiore81. La contrarietà al regime era vissuta in

famiglia con forzata discrezione e i bambini ne erano tenuti a debita distanza. Nel suo volume di memorie, Marco Maestro ricorda che il timore nei riguardi del fascismo era molto sentito fra le mura domestiche: i suoi “ricordi politici” sono soprattutto legati alle conseguenze di questa paura, della quale, insieme ai suoi fratelli, alcune volte fece inconsapevolmente esperienza 82. Secondo Maestro, il fascismo per i giovani di allora era certo

«una realtà presente, che i nostri genitori non amavano», ma che «per la nostra vita di tutti i giorni» rimaneva ancora qualcosa di “accessorio”83.

Non amare l’Italia fascista non vuol dire però non amare la patria, anzi. L’Italia è sentita come il paese a cui si appartiene da generazioni, per il quale si è combattuto e si è data la vita; se ne ama la cultura, la storia, l’arte, la letteratura. Guido Bedarida, direttore e responsabile della Rassegna

Mensile d’Israel dal 1926 all’ottobre 1938, nonché fondatore nel 1924 del

Gruppo sionistico giovanile livornese, attraverso «la sua opera di scrittore, di storico, di organizzatore» dedicò gran parte della sua vita a difendere lo stretto connubio tra identità ebraica e italianità. Nella sua opera più importante, Ebrei d’Italia, apparsa nel 1950, ma frutto di riflessioni iniziate nei primi anni Trenta, egli rivendicò l’importanza «dell’apporto culturale, economico, storico, degli ebrei nella vita italiana degli ultimi cento anni84.

Oltre a questi libri, come custodi del sentimento patrio di Guido Bedarida, rimangono oggi i suoi figli verso i quali egli, anche quando il fascismo si mise contro gli ebrei italiani, non mancò mai di trasmettere un sincero e profondo attaccamento all’Italia. Gabriele, il secondogenito di Bedarida, nato nel 1934, racconta infatti che nel momento in cui, a causa delle leggi razziali, la famiglia fu costretta a trasferirsi in Francia per continuare a lavorare, il padre volle portare con sé alcuni libri fra i quali un testo di

81 Si veda nota 18.

82 Racconta Marco Maestri: «A casa avevamo un grammofono a manovella e diversi dischi di polivinile, a 78 giri. Uno di essi conteneva sul lato A l’Inno di Garibaldi – Si scopron le tombe, si

levano i morti – e sul lato B un inno che però i nostri genitori ci avevano severamente proibito di

far suonare. Naturalmente ogni proibizione stuzzica la curiosità dei bambini e una volta che ci trovammo soli a casa, ne approfittammo per violare la proibizione. Ascoltammo così, a tutto volume e ripetutamente Su fratelli su compagni… l’inno che tanti anni dopo, avrei ascoltato infinite volte. Quando mia madre tornò a casa si precipitò a fermare l’apparecchio e ci spiegò che una cosa del genere poteva provocarci anche guai notevoli, tanto più che uno dei vicini di casa era un noto fascista. E così ricordo un altro episodio, solo di poco posteriore. Mia madre e una delle mie sorelle erano uscite per compere. Mia sorella aveva all’epoca sei o sette anni e chissà come trovò un garofano rosso e se lo appuntò all’occhiello. A un tratto mia madre si ricordò che era il Primo maggio e allarmatissima glielo gettò via…». M. Maestro, Ballata di tempi

lontani, cit., p. 18-19.

83 Ibidem.

84 Si veda la premessa di Elio Toaff ad AA.VV., Scritti sull’ebraismo in memoria di Guido Bedarida, Firenze, 1966, p. 12.

poesie, «La lirica italiana», dal quale era solito declamarne a lui e ai fratelli canti risorgimentali ivi racchiusi85.

Della sua casa veneziana Roberto Bassi ricorda l’essenzialità e «una serie di cose che» destavano la sua curiosa attenzione di bimbo: in un comparto di una vecchia cassapanca cinquecentesca del salotto, «unico mobile autentico», era riposta la bandiera italiana «che veniva esposta nelle grandi occasioni». Nella camera da letto, invece, egli conserva vivo il ricordo di «una spilla dalla quale pendeva un piccolo corno d’argento» utilizzata insieme ad un nastro tricolore per tenere uniti e intrecciati i due fili elettrici della luce e del campanello: il tutto rappresentava l’unione d’insieme tra religione di fede e religione di patria che si professavano in quella famiglia e che in fondo, in accordo con il pensiero di Bassi, possiamo considerare passioni condivise con lo stesso calore dalla maggioranza della popolazione ebraica italiana:

Nel corno, che si poteva aprire, era contenuta una piccola pergamena scritta in ebraico, una mezuzà. Fili elettrici e corno erano legati da un sottile nastro tricolore. Ho descritto questo corno - che conservo ancora - perché dà un’idea dei sentimenti che circolavano in casa. Ravviso nella piccola pergamena («ascolta Israele, il Signore nostro Dio, il Signore è Uno») la figura di mio padre. Nel corno, classico portafortuna, vedo mia madre, con le sue innocue superstizioni (guai a rovesciare la saliera a tavola!). Il nastrino tricolore rappresentava in egual misura l’attaccamento all’Italia, di mio padre ufficiale dell’esercito italiano e di mia madre, crocerossina nella Prima guerra mondiale. Questa era, io credo, la disposizione d’animo della maggior parte degli ebrei italiani fino al 1938.86

1.3.2 I Balilla e la guerra d’Etiopia

Nel complessivo progetto di fascistizzazione della nazione, le giovani generazioni erano considerate dal regime con un occhio di particolare

85«Mio padre ci parlava della Grande Guerra, ci parlava del Risorgimento, ci cantava “L’addio

mio bell’addio”, “L’inno di Garibaldi” che nessuno oggi si ricorda più ...si scopran le tombe si levan i morti, i martiri nostri son tutti risorti…». Intervista a Gabriele Bedarida, Livorno, 10 settembre 2007.

Il sentimento trasmesso dal padre non ha mai abbandonato la primogenita Anna. In un colloquio con il sottoscritto, alla domanda di come considera oggi l’Italia e gli Italiani che allora la perseguitarono, ha risposto che in ogni caso è il paese che li ha anche aiutati: «come diceva mio padre “è sempre il mio Paese”. Io dopo un po‘ che sono via dall’Italia non vedo l’ora di tornarci... anche se c’è questo attaccamento verso Israele dove poi ora vive mia figlia con la sua famiglia... però l’Italia è sempre l’Italia. Ora in genere in ogni città d’Italia che vado con mio marito andiamo alla ricerca di tutto quello che c’è della tradizione ebraica, di solito lo facciamo, c’è proprio questo richiamo al passato». Intervista a Anna Bedarida Perugia, Roma, 16 novembre 2007.

riguardo. Lo stato totalitario fascista, propugnatore di un corpo nazionale formato sul modello del «cittadino soldato»87, nella militarizzazione della

nazione arruola anche i bambini, approcciandosi quotidianamente alle loro vite attraverso la propaganda e l’educazione alla vita militare.

«L’idea di dare un moschetto ad ogni bambino» è stata «una banale quanto grande trovata, potenzialmente carica di fascino»: «per sedurre l’infanzia», scrive Antonio Gibelli, «il regime non si limita a farla sognare con variopinte copertine di quaderno o con favolose storie in figurine da scambiare furtivamente. Le offre qualcosa di più: un precoce richiamo alle armi, una divisa, il gioco della guerra più vero che mai bambino abbia potuto sognare, perché è un gioco autorizzato, anzi organizzato dallo Stato - che della guerra è titolare - e dallo Stato (nella veste dell’ONB) correlato dell’attrezzatura necessaria, in particolare di fucili semi-autentici»88.

Fino al 1938 nel progetto di formazione dell’italiano fascista, i bambini delle famiglie israelite non erano stati esclusi. Anche quindi nella memoria delle giovani generazioni ebraiche degli anni Trenta - momento in cui il Fascismo godette di maggior consenso popolare - il “balillismo” e i suoi simboli - su tutti, la divisa e il moschetto - occupano un posto di assoluto rilievo nei ricordi antecedenti alla persecuzione. Fieri nella loro divisa (tanto che era umiliante non poter indossare ed essere uguale a tutti gli altri89)

inorgogliti dal maneggiare quel fucile sì in miniatura, ma identico nella forma a quelli degli adulti, i bambini che la provano, vivono con partecipazione la vita sussidiaria del Balilla: «Ho fatto una carriera brillante nei balilla», racconta Ferruccio Neerman, «sono stato Balilla moschettiere - mia moglie mi prende in giro per questo - poi promosso tamburino e poi trombettiere, tutto in un anno e poco più... è stata una carriera folgorante».90

Il giorno in cui nelle scuole ebraiche ci si doveva presentare con l’uniforme era il venerdì poiché il sabato (giorno in cui il partito fascista concentrava le attività di propaganda), nel rispetto della sacralità della giornata, le scuole rimanevano chiuse. In verità, prima ancora di diventare Balilla, i bambini italiani venivano inquadrati nei “figli della lupa”. Emanuele Pacifici ricorda bene la sua divisa da “figlio della lupa”: «Camicia nera, calzoncini corti e calzettoni grigio-verdi, scarpe di vernice nera, il fez

87 E. Gentile, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 184. 88 A. Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla grande Guerra a Salò, Einaudi, Torino 2005, p. 319.

89 Anche le bambine e le ragazze erano state inquadrate in particolari “corpi”, quali «le Piccole italiane» e le «Giovani italiane». Ricorda Amalia Navarro: «Mio papà mi ha fatto piangere un giorno che volevo cinque lire per la tessera delle giovani italiane che dovevo portare a scuola, che se io glieli avessi chiesti senza dirgli cosa era me li avrebbe dati subito: “Neanche per sogno!” Facevamo ginnastica vestite da giovani italiane e io ero l’unica che non avevo la divisa, non l’ho mai portata. Il fascismo esteriormente era affascinante… perché non avevamo neanche la mentalità da capire, e poi non avevano contrarietà con noi ebrei». M. Pezzetti, Il libro della

Shoah italiana, cit., p. 26.

nero con la nappa e sopra la camicia un bel cinturone bianco incrociato a X come le bretelle e al centro del petto una grande M di metallo. La M naturalmente stava per Mussolini»91.

La guerra d’Etiopia è l’altro grande evento che in quegli anni diventa catalizzatore di memorie. Gibelli ne ha spiegato i motivi di fondo: «Quello del 1935/36 si conferma come il crocevia dove s’incontrano tutte le invenzioni iconografiche, il moltiplicatore d’iniziative pubblicitarie, propagandistiche, narrative, l’occasione della più grande fantasmagoria offerta dal Duce agli italiani, adulti e soprattutto bambini, il primo evento mediatico di risonanza paragonabile a quella della Grande Guerra (anzi superiore, se si considera la concentrazione nel tempo e l’inedita varietà dei mezzi), tale da influenzare coi suoi linguaggi i più diversi ambiti comunicativi e, reciprocamente, da essere evocato nei più diversi contesti.»92

Roberto Bassi riconduce il primo ricordo “politico” a una cartolina che nel 1935 riproduce un Balilla che orina («in segno di scherno»93) su di un

foglio a terra che altro non era che la carta delle “inique sanzioni” decretate contro l’Italia, a seguito dell’invasione dell’Etiopia. L’immagine, ricorda Bassi, gli rimase tuttavia impressa per la posa del bambino ai suoi occhi sconveniente; forse proprio per questo, più che per un fatto politico, il padre di Roberto la fece presto sparire dagli occhi del figlio94.

L’Etiopia è un paese lontano e della guerra, in patria, ufficialmente si sa solo quello che i giornali, la radio e i cinegiornali del regime raccontano:

Durante la guerra d’Abissinia la gente aveva partecipato con grande passione alle imprese dei nostri soldati; incollata alle radio o guardando al cinema i film Luce che venivano proiettati prima del film aveva appreso quanto coraggiosi fossero i nostri soldati, specie le camicie nere, e quanto cattivi e crudeli fossero gli abissini sostenuti e sobillati dai perfidi inglesi. Quando Badoglio entrò ad Addis Abeba alla testa delle truppe ci fu un tripudio nelle strade e alla Casa del fascio. Bandiere, canti, inneggiamenti all’Italia che, nonostante le inique sanzioni decretate dalla Società delle Nazioni a Ginevra, aveva saputo trionfare e portare la libertà ad un popolo in schiavitù.95

I bambini sono coinvolti nel clima di esaltazione che invade il paese: ogni giorno, le notizie sull’andamento della guerra che vengono pubblicate sui giornali sono commentate a scuola, ma non tutto in loro sembra così

91 E. Pacifici, Non ti voltare, cit., p. 25. 92 A. Gibelli, Il popolo bambino, cit., p. 291. 93 Ivi., p. 294.

94 «La cartolina mi aveva colpito perché molto “osè”: mi pareva che il fare pipì fosse un problema molto intimo e privato, ed era sconcertante vederlo fare in fotografia.». R. Bassi,

Scaramucce sul lago Ladoga, cit., p. 30.

chiaro e lineare. Davide Schiffer, abbastanza grandicello per leggere i giornali e farsi un’idea propria della guerra, racconta:

Non capivo però perché questo popolo, schiavo e arretrato, avesse combattuto così duramente, specialmente contro il generale Graziani che da sud era arrivato ad Addis Abeba in ritardo, e non si fosse lasciato liberare subito.[…]

Finivo le elementari, ma leggevo regolarmente i giornali. A Napoli ve ne erano due, Il Mattino ed il Roma, ma noi leggevamo Il Mattino. Sapevo che quella non era la prima impresa coloniale italiana, che prima c’era stata la disgraziata guerra per Adua dove erano morti i valorosi maggiori Toselli e Galliano, poi la guerra di Libia che riuscivo a collegare alla canzone Tripoli bel suol d’amore che mia madre cantava quando ero al paese.96

L’intervento dei genitori serve invece ai bambini più piccoli per capire i “sottili” cambiamenti che avvengono nella vita quotidiana che essi non sono in grado di collegare alle sopraggiunte esigenze belliche nazionali:

Nell’autunno avanzato, noto che in città sta succedendo qualcosa di nuovo. Quando andiamo a passeggio, nelle piazze, nei giardini o in certi angoli delle strade più larghe incontriamo strani cumuli di oggetti, i più vari[...]. Con l’aiuto di mamma riesco a compitare: «Ferro per la Patria». Cosa vuol dire? Perché si deve consegnare del ferro alla Patria? Cosa se ne fa la Patria di quel ferro vecchio? Così vengo a sapere che l’Italia sta conducendo una guerra in Africa per “portare la civiltà italiana” a un povero popolo di analfabeti e insegnare a lavorare la terra non solo con la vanga, ma con i moderni mezzi che gli italiani, anzi i fascisti, regaleranno loro. Ma “cattive” nazioni cercano di impedire all’Italia di portare a termine questa grande opera, bloccando i rifornimenti alle nostre fabbriche [...] Vengo colto da un terribile dubbio: dovrò regalare alla Patria anche i miei amatissimi soldatini di piombo? E la mia bellissima automobilina gialla a pedali, targata BO 12, con cui scorrazzo per le camere nelle giornate in cui non si può uscire di casa?97

La guerra di Abissinia si afferma nell’immaginario collettivo e in quello dei bambini italiani proprio perché - nell’intento di sdrammatizzazione e affabulazione del conflitto etiopico, di sostituire «all’aggressività e alla ferocia», «alla volgarità conclamata», «la risata e lo scherzo» - sapientemente si traduce il conflitto al pubblico in parole, immagini e canti che in larga parte prendono spunto o fanno un uso proprio dei canoni espressivi tipici del mondo infantile98. Esaminando le canzoni più celebri nate durante

questa guerra, Mario Isnenghi ha evidenziato quanto «ci sono nella guerra

96 Ibidem.

97 C. M. Finzi, Il giorno che cambiò la mia vita, cit., p. 17-18. 98 A. Gibelli, Il popolo bambino, cit., p., p. 292.

d’Etiopia, come già nella guerra di Libia, un tripudio, un’estasi collettiva, un abbandono al senso della propria superiorità e un presentimento di vittoria facile e guadagni sicuri, che si esprimono anche nel brio e nella strafottenza delle musiche che le accompagnano»99. Il riferimento naturalmente è rivolto

ai motivetti che durante il conflitto tutti cantano, in particolare alla celeberrima Faccetta nera che con quell’aria così allegra, fa apparire “la guerra civilizzatrice” una necessaria quanto gioiosa impresa che non può che non essere vittoriosa. Faccetta nera è una canzone impossibile da dimenticare anche per chi l’ha ascoltata in giovanissima età:

Faccetta nera, bella abissina

aspetta e spera che quell’ora s’avvicina quando saremo a Maccalé

noi ti daremo un altro Duce e un altro re...

Beh, mi dico, se la guerra è tutta qui, non è poi così terribile. Non