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La memoria dei bambini ebrei nascosti in Italia: il tempo sospeso e ritrovato.

Innanzitutto è necessario individuare il lato dell’indagine. Sui bambini nascosti italiani, non esiste a livello nazionale, come già ricordato, una specifica storiografia e le migliori indicazioni devono essere dedotte da lavori riguardanti i salvatori (“I Giusti”) o, in generale, l’infanzia ebraica durante la persecuzione; gli studi di Liliana Picciotto, ma soprattutto di Bruno Maida e di Sara Valentina di Palma83. I motivi sono molteplici e sono

rintracciabili, in generale nel ritardo della storiografia (e soprattutto della psicologia italiana84) ad affrontare un argomento come la persecuzione

ebraica; e nell’importanza secondaria con cui spesso si tende a valutare la storia dell’infanzia85. Riguardo il soggetto di questa ricerca si ritiene che sia

possibile occuparsene solo oggi perché la memoria di coloro che all’epoca furono bambini nascosti ha cominciato a farsi spazio solo da poco, da quando cioè si sono sentiti investiti della condizione di “ultimi testimoni”.

Roberto Bassi, veneziano, classe 1931, che trascorse gli anni dell’occupazione tedesca in Italia a Roma presso un Istituto cattolico per l’infanzia, nel dopoguerra sentì ’esigenza di dare una risposta a cause e conseguenze della tragedia occorsa agli ebrei in Europa. «Non appena, in qualche modo, realizzammo l’enormità dell’accaduto», scrive Bassi nella premessa al libro nel quale narra le proprie vicende d’infanzia, «ci ponemmo tutti un grande interrogativo: perché Auschwitz? Come era potuto accadere? Accanto a queste domande - alle quali non siamo ancora riusciti a dare una risposta definitiva - ne sorse un’altra, privata e personale: perché io sono sopravvissuto, mentre i miei cugini non ci sono più? In qualche forma mi sentivo colpevole per essere ancora vivo. E quale responsabilità ricade su di me, per il solo fatto di essere sopravvissuto? Evidentemente, quella di testimoniare»86. Roberto Bassi, che per rispondere

a questa esigenza si impegnò nel dopoguerra insieme ad altri compagni

83 Mi riferisco soprattutto a L. Picciotto (a cura di), I giusti d'Italia: i non ebrei che salvarono gli

ebrei: 1943-1945, Mondadori, Milano 2006; B. Maida (a cura di), 1938. I bambini e le leggi razziali in Italia, Giuntina, Firenze 1999; B. Maida, I bambini e la Shoah, cit., S. V. Di Palma, Bambini e adolescenti nella Shoah, cit.; S. V. Di Palma, I bambini nella Shoah, in M. Cattaruzza, M. Flores, S.

Levis Sullam, E. Traverso (a cura di), Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e

la memoria del XX secolo, Vol. IV, Eredità rappresentazioni, identità, Utet, Torino 2006 pp.73-103.

Oltre a questi notevoli punti di riflessione scaturiscono dal libro di Debórah Dwork, Nascere con

la stella. I bambini ebrei nell’Europa nazista, Marsilio, Venezia 2005, in particolare nel capitolo III°

dedicato interamente al fenomeno della clandestinità, Dwork racconta le vicende occorse anche ad alcuni bambini italiani.

84 Si veda D. Levi, La psicoanalisi italiana e il trauma dei sopravvissuti. Il caso italiano che non c’è, in B. Maida (a cura di), 1938 i bambini e le leggi razziali in Italia, cit.

85 Cfr. B. Maida, Presentazione, cit. p. 13-14.

della Federazione Giovanile Ebraica a creare il Centro di Documentazione ebraica Contemporanea, nonostante i suoi originali propositi, solo dopo sessant’anni e l’incontro/scontro con un insegnante di scuola superiore «negazionista», mette compiutamente per inscritto la sua storia personale87:

Il CDEC ebbe sede, in un primo tempo, nella mia camera da letto. Nel 1956 ottenni un locale dalla Comunità Israelitica di Venezia. Il lavoro per il CDEC era massacrante, ed io dovevo preparare gli esami di medicina. Talora dovevo smettere il lavoro, uscire dal locale del Centro di Documentazione e mescolarmi alla gente comune che passava per la strada e che guardavo con ostilità, perché non sapeva, non si curava, non voleva conoscere, nella sua interezza, gli orrori del nazismo. Parlare di sei milioni di morti era facile; leggere le ultime lettere da Fossili, quelle mai recapitate, scritte poco prima della deportazione e della morte, era spesso intollerabile. In quel periodo - era il marzo 1955 - decisi di annotare quanto era accaduto a me ed ai miei nel 1943. Scrissi poche pagine - che conservo - e poi lasciai perdere. Debbo dire che la nostra storia, nel dramma generale degli ebrei in Europa, mi pareva veramente insignificante. 88

Qualche anno prima dell’uscita del libro di Bassi, nel 1998 era uscito presso una casa editrice triestina il volume Auschwitz è di tutti di Marta Ascoli. Marta Ascoli è uscita viva da Auschwitz. Per molti anni Marta è stata incapace di affrontare questo argomento, ma il dovere della testimonianza, «rivolta soprattutto a coloro che non credono», «oggi, prima che il velo dell’oblio faccia dimenticare - con la scomparsa degli ultimi sopravvissuti - ciò che sono stati i lager nazisti e il genocidio del popolo ebreo», è stato così impellente da darle una possibilità di riuscire a sopportare la sofferenza della reminiscenza di ricordi così drammatici a lungo mantenuti sotto silenzio. La decisione di scrivere è conseguenza di una presa di coscienza impossibile senza la «lunga maturazione» personale89.

Le testimonianze di Marta Ascoli e di Roberto Bassi partono da posizioni diverse ma complementari. Marta Ascoli, dedica il suo diario alla memoria

87 «La vita di tutti i giorni, il mio impegno politico in campo ebraico […] e l’attività professionale, mi avevano distolto da ogni velleità di raccontare. Che cosa mi ha spinto a buttar giù queste righe? Penso sia stata la polemica innescata da un insegnate di Mestre, il quale si diletta ad insegnare il “negazionismo”. Poiché gli ricordavo i famigliari miei e di mia moglie finiti nei crematori di Auschwitz, ebbe l’impudenza di scrivermi “l’uso del forno crematorio oggi non suscita alcuno scandalo, anzi, viene incoraggiato come segno di civiltà” dimenticando che questi non erano morti di varicella o di tifo, ma erano stati uccisi con il gas». Ivi, p. 18. 88 Ivi, p. 17.

89 «Nell’accingermi a scrivere queste memorie sapevo che rievocare episodi così dolorosi avrebbe fatto riaffiorare dal profondo ricordi graffianti, umiliazioni cocenti, subiti nell’età più bella in cui tutto si spera dalla vita». M. Ascoli, Auschwitz è di tutti, Edizioni Lint, Trieste 1998, p. 7.

del padre deportato, ucciso nella prima selezione, «ed a tutti coloro che non hanno fatto ritorno». Roberto Bassi invece si rivolge sia ai genitori salvatisi come lui rimanendo in clandestinità (i quali, però, più dell’autore «hanno sofferto in prima persona le odiose discriminazioni delle legge razziali»), sia alla moglie Lia «che è nata già in libertà ma ha visto la sua famiglia decimata dai nazisti», sia ai suoi figli, «perché sappiano quello che è stato e lo possano ricordare un giorno ai loro figli»90.

La condizione del medico veneziano è quella di un outsider, cioè di colui che non parte da un’esperienza alla pari di quella subita da Marta Ascoli o dei famigliari della moglie, o anche di quella dei propri genitori. La situazione di bambino nascosto, proteggendolo, lo tenne lontano dal pericolo. Per tanti anni Bassi non ha voluto esporsi perché sentiva «insignificanti» le proprie vicende, ma ora, il momento particolare fa acquisire tutt’altra importanza anche al suo vissuto. Anch’egli è diventato un testimone: si è riconosciuto tra i pochi rimasti ormai a serbare un ricordo diretto della persecuzione e di chi per questa ha sofferto o addirittura perso la vita. Il compito precipuo adesso è quello di mantenere vivo il ricordo e di tramandarlo in primo luogo ai figli nella maniera più efficace.

La trasmissione delle “cronache” famigliari ai discendenti più giovani può produrre un’occasione di conoscenza ed elaborazione del passato da parte del testimone il quale si espone all’ascolto mosso dalla consapevolezza che la sua narrazione può avere un significato per qualcuno. Questo atteggiamento è chiaro in Aldo Zargani - anch’egli bambino nascosto, le cui vicende e relative riflessioni su di esse saranno osservate da vicino nel corso di questa trattazione - :

Basilea, 7 febbraio 1995 Caro Mario Davide,

Quando leggerai questa lettera saranno passati molti anni da oggi, giorno del tuo quarto compleanno, ma già adesso, terminato il libro che ho scritto per te, i ricordi hanno cominciato a dileguarsi fiochi e mesti. Raccontare la propria vita è come sdraiarsi sul lettino dello psicanalista si sa, ed è per merito tuo che nel 1995 si è spenta, almeno spero, la mia guerra psichica contro la Germania del III Reich, la Guerra dei Cinquant’anni. Abbiamo fatto pari, credo che ci sia stato un armistizio fra spettri. […]

Con i genitori si parla, soprattutto dopo che sono morti, con i nonni si chiacchiera e si ridacchia appena un po’ quando si è bambini piccoli, poi basta: questo libro è perciò un pesante tentativo di intromettermi nelle tue conversazioni di un futuro che è al di là di ogni mio orizzonte.

L’impulso a scrivere per te è scaturito dall’augurio, ingenuo o forse no, che il tuo avvenire possa essere sufficientemente sereno da farti sembrare le tragedie degli anni Trenta e Quaranta «del secolo scorso» perfino più

straordinarie di quanto non appaiono oggi ai pochi che le ricordano o le studiano. Perciò ti ho raccontato le mie, che straordinarie non sono. 91

La parola, il racconto erompe dal desiderio di tramandare non solo il passato, ma parimenti per offrire uno strumento utile per la futura comprensione del presente personale di ogni spettatore interessato. Non è un caso quindi, come si evince nella sopra citata lettera-congedo di Aldo Zargani o già dall’epilogo della più nota opera di Joseph Joffo, Un sacchetto

di biglie (Un sac de billes92), oppure dalla dedica di un piccolo e meno

conosciuto libro quale quello di Monika Diana Sears, La bambina sotto il

tavolo93, se i figli e nipoti degli anziani bambini nascosti non siano molto spesso solo i semplici dedicatari ma anche gli espliciti moventi dell’opera memorialistica. Naturalmente si scrive soprattutto per se stessi, ma se si pensa che a disporre delle proprie parole saranno altri, si narra con maggior convinzione e cognizione di causa94.

91 A. Zargani, Per violino solo. La mia infanzia nell’Aldiqua 1938-1945, Il Mulino, Bologna 2002, p. 223, (1a ed. 1995).

92 «Ecco tutto. Oggi ho quarantadue anni e dei bambini. Tre bambini. Guardo mio figlio come mi guardava trent’anni fa, mio padre e mi viene una domanda, idiota, forse, come tante domande. Perché ho scritto questo libro? Certo è una domanda che avrei dovuto farmi prima di incominciare, sarebbe stato più logico ma le cose non avvengono spesso logicamente, mi è uscito come una cosa naturale, mi era forse necessario. Mi dico che lo leggerà più tardi e questo mi basta. Lo respingerà, lo considererà un insieme di ricordi stantii o, al contrario, ci rifletterà, adesso tocca a lui giocare questo gioco. In ogni caso, immagino di dovergli dire stasera, all’ora in cui entrerà nlla sua camera a fianco della mia, “ Bambino mio, prendi la tua sacca e 50.000 franchi (vecchi) e parti”. A me è successo, è successo a mio padre e mi invade una gioia senza limiti a pensare che a lui non succede. Il mondo andrà meglio? […]. Guardando dormire mio figlio non posso che augurarmi una cosa: che mai provi il tempo della sofferenza e della paura come lo ho conosciuto io durante quegli anni. Ma cos’ho da temere? Cose del genere non si produrranno più, mai più. Le sacche sono in solaio e ci resteranno per sempre. Forse…». J. Joffo,

Un sacchetto di biglie, BUR, Milano 2009, pp. 285-286, (Ed. orig. 1973) (1a ed. it. BUR 1977).

93 «Questo libro nasce come una lettera al mio allora unico nipote, Edoardo. Nel frattempo la lettera si è tramutata in libro, e sono nati altri due nipoti, Giorgio e Julian. È a tutti loro che voglio dedicarlo, con la sincera speranza che il grido “Mai più”, non sia vano, e possa avere per loro e i loro cari un profondo significato». M. D. Sears, La bambina sotto il tavolo. Una memoria

dell’Olocausto, Alberti, Reggio Emilia 2007, p. 11.

94 Come afferma Ferruccio Neerman nella prefazione al suo libro di ricordi: «Una seconda motivazione alla stesura di questo libro mi venne data da un amico, Scipione Maffei, una sera in montagna. Mentre accennavo, per la verità con una certa reticenza, alla mia infanzia vissuta da bambino ebreo, egli manifestò un interesse decisamente vivace nei confronti delle mie vicende e per tutta la serata mi sollecitò a continuare il racconto rivolgendomi domande sempre più sottili, chiedendomi particolari sempre più precisi e dimostrando una partecipazione così sincera che alla fine mi convinsi che la mia storia potesse essere di qualche interesse anche per chi non era stato personalmente coinvolto. Esattamente il contrario di quanto avevo creduto fino allora.» F. Neerman, Infanzia rubata. Storia vissuta di un bambino ebreo, Damolgraf, Arbizzano di Negrar (Vr) 2002, pp. 3-4.

Forse bisogna tenere presente, più di quanto si è fatto fino ad ora, l’influenza del rapporto generazionale come catalizzatore di memoria, soprattutto quando tra «testimone del provato» e del «non provato» (riprendendo la terminologia utilizzata da Raffaella di Castro), si innesca un’identificazione profonda. Tale immedesimazione può avere diverse declinazioni a partire dal periodo di vita che intercorre tra gli interlocutori: «improvvisamente», racconta Raffaella di Castro, «mia mamma era come se diventasse e…succube di questi ricordi […] e dovesse […] raccontarli. Come se mi trovassi di fronte non più la mamma […] ma una bambina che piange! Cioè la bambina stessa che aveva vissuto quelle cose, e con la quale poi immediatamente scattava un senso di identificazione […] [La bambina perseguitata che si doveva nascondere ero io, non era - cioè mia mamma ero io, l’avevo vissuto come se l’avessi vissuto io direttamente»95.

Parlare ai nipoti può essere in un certo senso più facile e - se lo si è sentito ma anche elaborato come tale - potenzialmente meno traumatico96. In

questo caso si tratta di raccontare a chi è ancora bambino vicende accadute quando lo stesso testimone era molto giovane. L’identificazione può procedere anche in un senso inverso: sono i nonni che ritrovano nei più piccoli loro stessi; attraverso un linguaggio adatto ai loro particolari ascoltatori, essi hanno la possibilità di ripercorrere in un modo forse meno “compromettente” quelle vicende di un tempo lontano che li riguardarono da vicino e che, nonostante gli anni intercorsi, rimangono ugualmente cariche di emozione e di sentimenti il cui controllo non è per forza di cose scontato97.

Il cammino di testimoni per questi uomini e donne è stato più lento del previsto anche perché ogni iniziativa memorialistica è stata in un certo senso una “conquista personale”. Nel 2000, l’istituzione ufficiale del Giorno della memoria98 - anche questo sintomo dello “sdoganamento” del testimone della

Shoah - ha incoraggiato, certo, molti protagonisti dell’epoca ad intervenire nel dibattito pubblico suscitato ogni anno da questa commemorazione.

Le cose esistono quando si nominano: nel caso dei bambini nascosti in Italia è valso il contrario. Nel nostro paese essi furono da un punto di vista

95 R. Di Castro, Testimoni del non-provato, cit. p. 154.

96 A proposito del rapporto tra testimoni e nipoti si vedano le considerazioni in S. V. Di Palma,

Bambini e adolescenti nella Shoah, cit., p. 188.

97 «Tutto ebbe inizio tanti anni fa, quando i miei quattro nipoti erano ancora abbastanza piccoli per avere voglia e il tempo d’ascoltare una nonna che per più di sessant’anni aveva evitato di avventurarsi in certi argomenti. […] Sollecitata da mio nipote Marci, che all’epoca frequentava le elementari, avevo incominciato a rispondere, ma in modo evasivo come si fosse trattato di una favola, ad alcune sue domande riguardanti la mia infanzia, la mia famiglia, le persecuzioni razziali e qualche episodio della seconda guerra mondiale. Per non confondermi durante la narrazione, avevo annotato i nomi, le date e gli avvenimenti più significativi su una manciata di foglietti di carta…». O. Neerman, Ebrei per caso, p. 1. (op. inedita).

numerico molto inferiore rispetto ad altri paesi con più forte presenza ebraica. Non si sono formate in Italia, come si è visto invece per Francia, Israele o Stati Uniti, delle associazioni di «Bambini nascosti» in grado di venire incontro e, nello stesso tempo, sollecitare il loro bisogno di parola e di confronto con chi ha avuto simili esperienze. Ma è solo una questione di numeri e di denominazioni?99 Forse non solo per questo. La questione

rimanda ancora una volta alla difficoltà di confrontarsi con un evento come la Shoah così rilevante per il popolo ebraico, senza sentirsi sopraffatti dalle contraddizioni. Un problema d’identità irrisolta quindi; o meglio, come ha scritto Donatella Levi, di «estraneità»:

Estraneità tale che per molto tempo mi ha portato a pensare il vero sopravvissuto fosse solo colui che era stato deportato nei campi, e che perciò stesso, in una strana analogia di quelle che solo l’inconscio sa fare, l’ebreo «vero» fosse solo quello che aveva «veramente» sofferto.

Verità queste, che non mi permettevano né di riconoscere un’appartenenza, né dare una legittimità alla sofferenza. E quella provata allora cos’era? Che statuto di diritto aveva? Quali diritti restavano al bambino ebreo nascosto e clandestino, che spunta, alla fine della guerra, tornando «solamente» da uno scampato pericolo? Cos’era vero? L’ebreo rimasto vivo era un vero ebreo?100.

99 Come ad esempio, della minor “quantità” di bambini orfani dei genitori, alla ricerca di un riconoscimento identitario? Il minor numero di bambini che hanno perso i genitori nello sterminio se da una parte può sembrare una consolazione, dall’altra deve far riflettere quanto, qui, più che altrove, i nuclei famigliari probabilmente furono catturati ed eliminati fino all’ultimo componente.

II