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4.6 “Sfollati” fra suore, sacerdoti e contadin

Lasciata la madre, Emanuele Pacifici e il fratello Raffaele vennero portati dallo Zio in un altro istituto religioso fiorentino dove speravano di trovare ospitalità:

Lo zio ci accompagnò a Settignano nel collegio di Santa Marta, ma non eravamo sicuri di essere accettati. Fortunatamente suor Marta Folcia, che faceva le veci della superiora momentaneamente indisposta, ci disse che potevamo rimanere e dopo aver brevemente parlato con lo zio, rivolgendosi a me e Raffaele, disse: «Allora ragazzi, salutate vostro zio e andate subito a mangiare nella sala refettorio». Era la domenica 21 novembre 1943: il mio destino mi imponeva ancora una volta una separazione dai miei cari, ancora una volta un ambiente estraneo.98

Il convento fiorentino di Santa Marta ospitò, oltre che i fratelli Pacifici, numerosi bambini ebrei; fra questi per un periodo ci fu anche, il poco sopra citato, Umberto Di Gioacchino. Inizialmente egli era stato lasciato dai genitori alle suore di Santa Marta già nell’ottobre del 1942, quando Umberto

96 L. Picciotto, I Giusti d’Italia, cit., pp. 47-48. Cfr. anche H. Cassuto, E ne parlerai ai tuoi figli… cit., p. 132.

97 E. Pacifici, «Non ti voltare», cit., p. 61. 98Ibidem.

aveva solo un anno. Umberto era nipote del rabbino di Firenze, Nathan Cassuto, il quale da tempo si era prodigato nell’assistenza dei profughi israeliti provenienti dai paesi in cui la persecuzione antisemita aveva messo in pericolo la loro vita. Per questo motivo il rabbino di Firenze fu edotto molto presto delle drammatiche conseguenze alle quali andavano incontro gli ebrei capitati sotto il giogo nazista e, intuendo il possibile pericolo che correvano gli ebrei italiani, non aveva indugiato nel cercare di porvi rimedio in anticipo. Di Gioacchino ha raccontato a riguardo:

Lo zio, Nathan Cassuto, era in una posizione privilegiata per avere notizie, informazioni, che, ovviamente, all’epoca non c’erano o quanto meno non giravano tra il pubblico e quindi cominciò ad avvertire un po’ la situazione pericolosa. La prima cosa che fu decisa fu come sistemare il bambino che era quello più facilmente, in un certo senso, nascondibile, perché non c’erano documenti non c’era la carta di identità ecc. I miei avevano lasciato la casa erano andati ospiti di amici in un’altra casa e mi trovarono una sistemazione presso le suore di Santa Marta.99

Poiché nell’ottobre 1943 la situazione a Firenze sembrava degenerare, il piccolo Umberto venne però ripreso dai genitori che ritenerono più sicuro portare il figlio con sé a Colle di Compito un paese nella campagna lucchese.100

Dopo l’8 settembre, le famiglie di Guido Bedarida e del fratello, per il timore di essere stati individuate dai tedeschi, lasciarono la grande fattoria nella campagna grossetana, dove si erano sistemate sin dal ritorno dalla Francia avvenuto nel febbraio del 1943. La ricerca di un luogo sicuro li condusse a Radicondoli, uno sperduto paesino nella provincia di Siena. Qui, entrambe le famiglie trovarono alloggio in un piccolo albergo101. Lasciata

Radicondoli, dopo una tappa di qualche giorno presso dei contadini («gente poverissima che non si lavava perché non c’era acqua, gente analfabeta, però gente di cuore»), i Bedarida raggiunsero il paese di Montieri, tra la provincia di Grosseto e Siena. A Montieri c’era un convento di suore Stimmatine le quali accolsero solo Anna, la più grandicella dei tre figli di Guido Bedarida e Pia Toaff, poiché le suore non potevano tenere maschi. Lasciata Anna, il resto della famiglia Bedarida tornò indietro e trovò ospitalità nella fattoria del conte Pannocchieschi ad Anqua, sempre nel

99 Intervista a Umberto Di Gioacchino, Verona, 17 settembre 2007. 100 Ibidem.

101 Gabriele Bedarida descrive così il peregrinare in quei giorni: «Avevamo trovato un alberghetto in comune di Radicondoli, non so chi ce l’aveva consigliato. L’alberghetto era immerso nella foresta, senza luce elettrica, senza acqua corrente ma ‘fare buon viso a cattiva sorte!’. E così siamo stati lì qualche settimana, finché peggiorando la situazione abbiamo deciso di dividerci, perché cerano voci di rastrellamenti da parte dei repubblichini». Intervista a

comune di Radicondoli. Intenzionati a salvare i figli, Guido Bedarida e la moglie affidarono Gabriele e Davide al parroco della piccola frazione di Anqua, don Mario Bracci, che li tenne nascosti nella propria casa, senza farli mai uscire e chiudendoli nella dispensa quando il pievano temeva visite dei militi fascisti102. Tuttavia la madre di don Bracci che viveva insieme a lui si

sentì investita di troppa responsabilità e così, dopo un paio di settimane, i due bambini vennero ricondotti dal conte Pannocchieschi. Il ritorno dai genitori fu caratterizzato da momenti di vero terrore; infatti, quando i due bambini, accompagnati dal fattore di un’anziana nobildonna che nel frattempo aveva preso a ben volere i coniugi Bedarida, incontrarono un prigioniero russo, anch’egli fuggitivo, temettero fortemente di poter essere aggrediti:

Durante quella fuga dalla prima casa nel senese con una persona di fiducia, mi ricordo a Radicondoli, passavamo per i boschi durante la notte e abbiamo incontrato un prigioniero russo che scappava e lì c’era da aspettarsi di tutto anche di essere aggrediti, di essere fatti fuori perché ognuno aveva paura dell’altro e mi ricordo la figura di quest’uomo che scappava e ha chiesto qualche cosa al nostro accompagnatore. Poi mi ricordo che siamo arrivati alla piazza di Radicondoli…103

Quella fuga notturna, per i piccoli Gabriele e Davide, prese tutti i connotati di un viaggio zeppo di immagini spettrali, e tale rimane fissato ancor oggi nella memoria:

Ecco bisogna immaginare questi paesini del senese arroccati sulle colline, la piazza centrale, la scarsa illuminazione la sera, e io mi ricordo che noi aspettavamo che il nostro accompagnatore sbrigasse delle cose e io guardavo su e c’era una persona che mi guardava, doveva essere una vecchia pazza, e questa donna mi faceva delle smorfie orribili. Quindi l’atmosfera era piuttosto cupa perché noi eravamo bambini e sapevamo, non so perché ma sapevamo, ma non ci rendevamo conto perché ci dovevamo nasconderci e oltretutto nella nostra solitudine vedere questa vecchia che ci faceva delle smorfie orribili e io non riuscivo a staccare gli occhi da questa vista… tremendo!104

Per loro fortuna i due bambini riuscirono a tornare dai loro genitori sani e salvi, dopo di che, sempre attraverso l’intercessione dell’anziana

102 «Lì» il pievano, racconta Davide Bedarida, «mi ricordo ci rinchiudeva nella dispensa e noi per passare il tempo si mangiava quest’uva secca!; lui poi ci lasciava un pochino per la casa ma le finestre erano chiuse, quando suonavano o si sentiva qualche macchina che generalmente le macchine erano dei repubblichini e allora ci rinchiudeva. Mi ricordo che questo pievano aveva scoperto che io cantavo bene e allora lui si metteva al piano e cantavo l’Ave Maria di Schubert!, me lo ricordo ancora… e mi piaceva, avevo sette anni». Intervista a Davide Bedarida, Livorno, 29 ottobre 2007.

103 Ibidem. 104 Ibidem.

nobildonna senese, vennero accolti nel collegio vescovile di Montepulciano105.

La famiglia Zimet, ex internata, fuggita frettolosamente dal bergamasco ai primi di dicembre del 1943 al preannunzio del loro arresto da parte delle autorità locali era giunta con molti affanni nella provincia di Sondrio. Il giorno in cui giunsero ad Albaredo, un paesino in Valtellina, gli Zimet conobbero don Angelo Milano, il sacerdote del luogo il quale aiutò la famiglia organizzando il loro viaggio fino a Tirano: con una guida di fiducia, avrebbero provato a superare il confine che, da lì, era ormai vicinissimo. I fuggitivi, per raggiungere Tirano, dovevano prendere un treno alla stazione di Talamona, un paese del fondovalle distante da Albaredo qualche chilometro. Accompagnati dal sagrestano di Albaredo, Regina e i genitori proseguirono la loro marcia di avvicinamento alla Svizzera. Purtroppo, il cammino divenne difficoltoso a causa della neve e delle fatiche fatte nei giorni precedenti; in più Regina, sofferente ai piedi per un principio di assideramento, ben presto non riuscì a reggere il passo e tutti furono costretti a rallentare. Sua madre la incoraggiò, le disse di stringere i denti e che mancava poco e i pensieri di Regina andarono a quel treno che per nulla al mondo avrebbe voluto perdere. Non ce la fecero:

Eravamo sopra Talamona quando vedemmo arrivare il nostro treno, che dopo cinque minuti ripartì! Tutti seguimmo con gli occhi il treno in partenza verso Tirano; nessuno osava dire una parola. Avevamo perso il treno ed era colpa mia, pensai.106

A Talamona, la famiglia fu accolta dalle suore Orsoline locali. La mattina dopo avrebbero dovuto salire nuovamente sul treno per Tirano, ma anche allora questo ripartì senza la famiglia Zimet. Quella mattina infatti gli Zimet seppero dall’arciprete di Talamona che quel tratto di ferrovia era divenuto ormai impraticabile: i tedeschi e i fascisti stavano effettuando frequenti controlli sulla linea ferroviaria e proprio il giorno precedente, sul quel treno che la famiglia perse, vennero riconosciuti e fermati diversi ebrei e prigionieri di guerra fuggiti dai campi di concentramento i quali poi, secondo quanto affermò l’arciprete, vennero immediatamente fucilati. Le ferite e il dolore ai piedi di Regina si erano rivelati alla fine dei malanni

105 La Palazzuoli aveva arrangiato perché fossimo portati al Collegio vescovile di Montepulciano e mia madre aveva parlato con il vescovo Mons. Emilio Giorgi, e così finimmo prima a Siena a casa di Monsignor Petrilli, che era uno della curia arcivescovile di Siena e, molto gentile, ci dette da mangiare, ci fece passare una mezza giornata piacevole in attesa dell’autobus per Montepulciano, poi il fattore Filippini ci portò a Montepulciano e lì ci lasciò. Intervista a Gabriele Bedarida, Livorno, 10 settembre 2007.

106 R. Zimet-Levy, Al di là del ponte. Le peripezie a lieto fine di una bambina ebrea sfuggita alla Shoà, Garzanti, Milano 2003, p. 123.

provvidenziali107. Regina e i suoi genitori rimasero per tre settimane senza

muoversi mai dal convento delle suore orsoline. Le suore avevano concesso l’utilizzo di una cucina ormai in disuso. La legna umida, bruciata nel camino per riscaldare e cucinare quel poco che avevano da mangiare, poiché era stato vietato loro di aprire le finestre della cucina, riempiva di fumo la stanza e così, oltre a parlare sottovoce, se dovevano tossire, i tre erano costretti a tenersi davanti alla bocca un fazzoletto in modo da smorzare ogni rumore. Alla famiglia rinchiusa in quel modo, sembrò quasi di essere stata dimenticata dal mondo, finché un giorno appena dopo il Natale 1943, ricomparve l’arciprete di Talamona. Egli era giunto ad avvisare gli Zimet che dovevano andarsene da lì quanto prima poiché le suore, spaventate da alcune notizie provenienti da Roma circa alcune retate avvenute nei luoghi sacri, avevano cominciato a temere che anche il loro convento potesse essere perquisito dai nazi-fascisti108. Il 31 dicembre 1943,

aiutati e consigliati dal sacerdote di Albaredo, attraversato il fiume Adda sul Ponte di Ganda, gli Zimet furono condotti dunque a San Bello109 da una

famiglia del luogo, i Della Nave, il cui capofamiglia, Giovanni, custodiva la piccola chiesa dell’abitato. A San Bello, dopo settimane passate a scappare e nascondersi («ero diventata come una bestiolina selvatica, impaurita per ogni rumore e per ogni persona sconosciuta»110), Regina ricominciò

lentamente a vivere in mezzo alle persone:

Così tornai tra la gente. Ogni tanto andavo con la famiglia in chiesa per farmi vedere; ero un po’ in conflitto con me stessa, non sapendo se era giusto per me andare in una chiesa che non era della mia religione, ma papà mi rassicurò dicendo che tutte le chiese sono case di Dio e che potevo dire silenziosamente anche la nostra preghiera, invocando il

107 «Che terribile ironia, pensai, se ieri fossimo arrivati in tempo per prendere il treno anche noi ci troveremmo fra i fucilati. Ringraziai il Signore per i terribili dolori ai piedi, che ce lo avevano impedito!». Ivi, pp. 124-125.

108 «Dove possiamo andare?» chiese mia madre tutta spaventata. La risposta fu fredda, direi perfino gelida: «Appena comincia a diventare buio, prendete il vostro bagaglio e passate sopra il ponte qui vicino al fiume Adda; dall’altra parte abitano tanti bravi contadini e credo, cioè spero, che qualcuno vi aiuterà d’ora in poi». Allora mio padre gli rispose con amarezza: «Andare incontro all’ignoto con una donna e una bambina, non conoscendo il posto e con tutte le strade principali controllate, è come dire andare in bocca al lupo, è puro suicidio! Sarà meglio che ci presentiamo direttamente ai carabinieri e se ci uccidono… pazienza!». «No, per l’amor del cielo, non intendevo dire questo… Rimanete qui ancora per questa notte e poi penseremo cosa fare», ci rispose l’arciprete con voce confusa. Allora papà gli chiese un grande favore: «Lasciateci chiamare il generoso sacerdote di Albaredo, don Angelo Milani, e faremo quello che ci consiglierà lui: tornare a San Marco o andare avanti». Nuovamente passammo una notte insonne e il giorno seguente arrivarono l’arciprete, il sacerdote di Albaredo e un terzo prete. Appena don Angelo ci vide strinse le nostre mani, dicendo con sincero affetto: «Miei cari compagni di sventura, mi sanguina il cuore di rivedervi in queste condizioni; date retta a me e seguite il proverbio Andate sempre avanti e mai indietro». Ivi, pp. 128-129.

109 Oggi frazione del Comune di Civo, in provincia di Sondrio. 110 R. Zimet-Levy, Al di là del ponte cit., p. 144.

Signore di salvare anche noi e i nostri cari benefattori di San Bello! Così feci; mentre ero inginocchiata davanti all’altare e cantavo con tutti l’Ave Maria, chiusi gli occhi per un momento e a bocca chiusa dissi: «Shema’ Yisra’el. Adonay Elohenu, Adonay, Echad»; non sapendo pregare oltre continuai in tedesco, invocando il Signore di benedirci e di salvare e proteggere noi tutti da ogni male.111

4.7 In Collegio

Don Michele Carlotto, uno dei quattro vicentini Giusti tra le Nazioni, dopo il 1° dicembre 1943 si prese cura in particolare di tre ebrei internati a Valli del Pasubio, un comune pedemontano in Provincia di Vicenza: due fratelli di tredici e quindici anni, Screcko (detto Felice) e Mladen (detto Bruno) Spiegel e la loro madre, Olga. Erano originari da Zagabria e, come era successo per altri ebrei croati, Olga e i figli, nell’autunno 1941 vennero internati dagli italiani nel paese vicentino dopo essere riusciti a raggiungere la Dalmazia. A Valli del Pasubio, Screcko e Mladen fecero amicizia con don Michele che, a quel tempo cappellano del Paese, aveva avuto il compito di preparare alla comunione e alla cresima i due, già battezzati poco prima della fuga da Zagabria. Mentre il resto degli internati a Valli, grazie alle carte di identità false procurate da don Carlotto, fuggirono dal paese vicentino, don Michele prese sotto la sua protezione i due ragazzi e la loro madre: nascose Olga in casa di contadini, mentre Screcko e Mladen furono accompagnati in campagna nella fattoria della sua famiglia: «I due ragazzi in bicicletta li ho portati a Castelgomberto in casa dei miei fratelli. In campagna erano felici e contenti. Abbiamo detto alla gente delle contrade intorno che erano due orfani sfollati da Fiume»112. A Castelgomberto

rimasero quasi due mesi, poi la gente del posto cominciò a sospettare qualcosa e don Carlotto corse ancora ai ripari:

Quando ho visto che erano in pericolo loro o la mia famiglia, allora ho parlato a Vicenza con il direttore dell’Istituto San Gaetano se me li teneva. «Io sarei anche disposto a prenderli», [disse il direttore dell’Istituto, don Ottorino Zanon] «ma non posso compromettere quaranta ragazzi per due ebrei se venisse qualche ispezione, domandiamo al Vescovo che io non mi prendo questa responsabilità»; e il vescovo ha detto al direttore «tu li prendi, e se viene qualcuno a chiedere qualcosa dici che “Io so solo che uno si chiama Bruno e l’altro Felice e non so altro perché me li ha consegnati il Vescovo”»113.

111 Ivi, p. 145.

112 Citato in P. Tagini, Le poche cose, cit., pp. 179-180. 113 Ibidem.

Screcko Spiegel ha usato queste parole per sintetizzare l’opera di soccorso che valse la propria vita e quella di suo fratello Malden: «Don Michele si è messo d’accordo con il Vescovo di Vicenza che don Ottorino ci prende in questo istituto e che noi abbiamo cambiato il nome, e non so chi lo abbia inventato, ma eravamo Bruno e Felice Bertoldi. Siamo arrivati all’Istituto San Gaetano come orfani di Trieste con i genitori che sono periti nei bombardamenti: questo era la fine del 1943, credo, dicembre 1943 o forse anche gennaio del 1944. E così siamo arrivati all’Istituto San Gaetano e lì siamo rimasti fino alla fine della guerra»114.

Screcko ricorda che all’istituto per orfani di Vicenza la preoccupazione maggiore era rappresentata dai frequenti bombardamenti alleati sulla città berica. In fin dei conti, nonostante essi non avessero molte notizie della madre (rimasta nascosta da contadini nei pressi di Schio), si sentirono tranquilli: all’orfanatrofio si «viveva abbastanza bene» ed entrambi erano impegnati nelle attività lavorative che dentro l’istituto115.

A differenza di quanto ritenuto dal ragazzo di Zagabria, il collegio salesiano di Cavaglià nel Biellese in cui furono portati Aldo Zargani e il fratello dopo la breve parentesi all’Arcivescovado di Torino, apparve un luogo non proprio rassicurante:

Il collegio era qualcosa di impressionante per dei bambini, perché era un collegio di campagna, adatto per dei bambini di campagna e inoltre in piena guerra, per cui… molto freddo, poco mangiare… la disciplina del collegio… i genitori che venivano solo una volta a settimana… e quindi era una cosa molto, molto triste.116

Il Seminario vescovile di Montepulciano intimorì Davide Bedarida in particolare durante i periodi di festività, quando cortili, corridoi e camerate si svuotavano della grande maggioranza dei collegiali: «Mi ricordo che c’erano dei periodi in cui gli altri ragazzi andavano a casa per via delle feste mentre noi rimanevamo mio fratello, io e altri 3 o 4, […]. E quando eravamo lì soli in questo inverno cupo perché c’era poca luce, mi ricordo che avevo paura a salire perché mi ricordo che il piano dove stavamo certe volte i gabinetti non erano accessibili allora io dovevo salire al piano di sopra dove non c’era nessuno in questo edificio medioevale, con pochissima luce che veniva su dalle scale, dovevo andare al gabinetto e c’erano questi grandi

114 Intervista a Screcko Spigel, Zagabria, 6 febbraio 2007.

115 «Là si studiava ma anche si lavorava, mio fratello è andato subito nell’officina meccanica, io prima ho fatto il falegname ma presto sono passato in tipografia: là c’era un tipografia dove si stampavano mi ricordo diversi articoli, ma si stampava anche un giornale e poi tante altre cose e così io ho lavorato su una macchina da stampa. All’istituto eravamo molto contenti: si viveva abbastanza bene, l’unico pericolo erano i bombardamenti, perché a quell’epoca Vicenza è stata molte volte bombardata perché era un centro di traffico (là c’era un aeroporto militare, c’era la stazione ferroviaria)». Ibidem.

ritratti di San Roberto Bellarmino e avevo paura e non avevo coraggio di arrivare al gabinetto e ho fatto la pipì in corridoio. Il prefetto della camerata se ne è accorto e mi ha sgridato severamente»117.

Quando venne accolta in convento, Franca Tedeschi fu colpita dalla tetra atmosfera del luogo:

E mi ricordo benissimo la sera in cui siamo entrati io avevo 11 anni e mezzo, era un convento poverissimo, molto, molto lugubre, perché era un palazzo antico, tutto grigio, aveva delle scale tutte rotte, poi c’erano le educande e le pensionanti queste educande erano tutte ragazze che non avevano un padre, o che erano divisi, tutte persone che non avevano una famiglia.Mi ricordo la sera in cui siamo entrati. Era la prima volta che ci staccavamo dai nostri genitori e dalle nostre sorelle. La prima volta nella nostra vita che uscivamo di casa da sole a 11 anni in mezzo a questo ambiente triste lugubre sconosciuto, freddo era i primi di novembre faceva un freddo terribile. Ricordo di aver passato la notte abbracciata alla mia gemella a piangere e a pensare dove sarà papà dove sarà mamma, cosa faranno le altre sorelle... Ci sostenevamo una con l’altra