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Interregno: dall’8 settembre al 1° dicembre

3.2 Verso la clandestinità

Il buono o il cattivo esito della fuga dipese sovente da ragioni che non potevano essere previste: spesso fu così anche per la decisione di nascondersi dopo che le probabilità di raggiungere la salvezza erano svanite. Abbandonate le case e i propri averi, in che modo sopravvivere?

Coloro che non avevano avuto le possibilità economiche, fisiche o semplicemente non se l’erano sentita di intraprendere una fuga a così alto rischio, o che, pur tentando di scappare furono costretti a rinunciare al loro proposito cercarono di rimanere all’interno del territorio italiano nascondendosi dove meglio capitava di trovare un rifugio. Anche per quest’altra eventualità valevano molti dei presupposti spesso già ricordati (fortuna, denaro, intraprendenza…) ma, in questo caso, le possibilità di sopravvivere erano soprattutto determinate dagli aiuti sui quali ciascuno dei perseguitati poteva contare una volta entrato in clandestinità.

Per gli ebrei rimasti al di qua del fronte fermo a Monte Cassino, solo il conseguimento di due obbiettivi avrebbe assicurato la salvezza: riparare nella neutrale Svizzera o raggiungere l’Italia liberata dagli anglo-americani oltrepassando le linee nemiche. Entrambe le possibilità erano comunque molto rischiose e, ancora una volta, il successo sarebbe stato il prodotto di una miscellanea di fattori derivanti, in primo luogo da una serie di coincidenze favorevoli e dalla necessaria buona dose di fortuna (su questi due elementi naturalmente non si poteva fare affidamento); in secondo

78 ACS, SHF, c. n. 42148, Fulvia Levi.

luogo dal possesso di una sufficiente quantità di denaro o beni di valore agevolmente trasportabili, indispensabili per pagare guide o «passatori» in grado di condurre alla frontiera.

Prima di inoltrarci nell’indagine del periodo clandestino, è però necessario ricordare ancora due momenti topici vissuti da alcuni bambini che insieme ai famigliari si cimentarono in un trasferimento in treno verso sud, o tentarono di oltrepassare a piedi il confine svizzero. Durante queste circostanze, ad esempio, furono i bambini coloro che maggiormente sembravano esporsi nel commettere delle disattenzioni che avrebbero potuto mettere in discussione il buon esito della fuga.

3.2.2 Il treno

Noi andammo alla stazione Tiburtina, dove c’era l’ultimo treno in partenza per il sud, perché papà aveva l’intenzione di andare verso le linee inglesi. E prendemmo questo treno che andava in Abruzzo: naturalmente non avevamo valige, non avevamo niente, anzi papà ci aveva costretti a metterci due tre vestiti uno sopra l’altro e partimmo con questo treno. Già quando arrivammo a Mandela - quindi pochi chilometri da Roma - fummo fermati dalle truppe tedesche che fecero scendere tutti dal treno, ci esaminarono tutti, però non cercavano ebrei ma renitenti alla leva e, mentre questi giovani che trovarono li arrestarono, noi proseguimmo fino ad Avezzano dove il treno poi si fermò.80

Nella storia della seconda guerra mondiale il treno è sinonimo di tradotte militari o di convogli carichi di uomini destinati a schiavitù e morte nel sistema concentrazionario del Terzo Reich. Se si pensa al trasporto su strada ferrata di quel periodo, non si sfugge dal ricorso a una di queste due immagini. Ciò nondimeno, nel corso del conflitto mondiale, all’interno dei paesi occupati dal nazismo, i servizi di collegamento ferroviario continuarono, dove possibile, a funzionare81.

Nell’Italia occupata, carrozze passeggeri trasportavano faticosamente da un capo all’altro del paese una moltitudine di persone, il più delle volte, intente a fuggire la guerra: fra le tante vicende di sfollati e di profughi che popolavano quei treni, dopo l’8 settembre 1943, si aggiunsero anche le storie segrete degli ebrei in fuga:

L’uomo di fatica è parecchio avanti a noi con i bagagli e papà, nel tenergli dietro, mi pare affaticato e triste. Ricordo i commenti della

80 Intervista a Lamberto Perugia, Roma, 8 maggio 2009.

81 Il trasporto dei passeggeri fu tuttavia dovunque sacrificato per lasciare la priorità ai convogli militari e a quelli destinati all’economia di guerra tedesca; esasperanti lentezze e sovraffollamenti erano quindi all’ordine del giorno, come costante divenne poi il pericolo di attacco aereo quando l’aviazione anglo-americana ebbe il dominio dei cieli.

nonna, che si preoccupava già di non trovare posto in treno. Io ero troppo eccitato, non tanto per il mio primo viaggio verso la capitale, quanto perché esso significava per me lo scampato pericolo dei Camilliani.82

Alla famiglia Bassi, scartata l’idea di espatriare in Svizzera, nei primi giorni di ottobre sembrò più sicuro e fattibile abbandonare Venezia e andare verso la Capitale dove poteva contare sul sostegno di alcuni parenti. I Bassi pensavano infatti che la liberazione di Roma, con gli Alleati sbarcati da poco a Salerno, fosse ormai solo questione di giorni. Dirigersi verso l’Italia meridionale equivaleva, però, ad esporsi a molteplici pericoli derivati in primo luogo dagli eventi bellici: prima dei combattimenti tra gli eserciti avversari e dei rastrellamenti che i nazisti attuavano ripetutamente nelle immediate retrovie del fronte con lo scopo di contrastare il flusso clandestino di persone (non solo ebrei, ma anche ex soldati dell’esercito italiano, renitenti alla leva…) che dall’armistizio si era riversato nelle province centro-meridionali, i fuggitivi dovevano scampare ai bombardamenti aerei che colpivano le linee di comunicazione. Le ferrovie erano obiettivi strategici che gli alleati bersagliavano quotidianamente per spezzare i rifornimenti alle truppe al fronte. Ogni convoglio passeggeri poteva dunque essere coinvolto dalle incursioni aeree, il cui rischio, per gli ebrei fuggiti in treno, si aggiungeva a quello di un eventuale controllo di polizia. La presenza dei militari sui treni incuteva molta ansia: anche per i più giovani, la paura di poter essere fermati fu una sensazione palpabile per tutto il tempo del viaggio. La famiglia di Cesare Finzi, fuggì da Ferrara verso l’Italia del Sud con l’obiettivo di avvicinarsi il più possibile al fronte e di superarlo per poi raggiungere la Puglia. Sulla tratta ferroviaria percorsa dai Finzi, i controlli erano frequenti e tutti ne erano terrorizzati giacché, possedendo ancora documenti d’identità in cui si dichiarava la loro appartenenza “razziale”, essi potevano essere facilmente identificati ed arrestati83.

Sul treno da Venezia verso Roma, Roberto Bassi temette di poter diventare il primo responsabile dell’arresto di tutta la famiglia: «Ero terribilmente preoccupato per le cose di valore che avevo addosso: non tanto per i gioielli cuciti nella cintura che mi ero legata tra camicia e pantaloni, quanto per i buoni del tesoro. Ad una perquisizione non troppo accurata non sarebbero saltati fuori, secondo l’opinione di mia madre. Io la pensavo diversamente: mi pareva che fosse un gioco da ragazzi individuare

82 R. Bassi, Scaramucce sul lago Ladoga, cit., p. 124.

83 Ad un certo momento del viaggio, dopo un’ispezione particolarmente attenta, lo spavento fu tale che i Finzi decisero, prima del previsto arrivo ad Ancona, di scendere dal treno alla stazione di Fano: da qui iniziarono le loro peregrinazioni tra vari paesi sul confine tra l’Emilia- Romagna e le Marche in cerca di un luogo sicuro. C. M. Finzi, Il giorno che cambiò la mia vita, cit., pp. 98-99.

quella rigida carta moneta che quasi mi toglieva il respiro. Che sarebbe stato di me? Invidiavo la mamma, che le sue cose le aveva nascoste nell’imbottitura delle spalle del suo tailleur, posto certamente più sicuro. Mi muovevo e la carta che avevo sul petto scricchiolava. Mi pareva che tutti dovessero udire quello scricchiolio: mi costrinsi terrorizzato a stare fermo. E mi addormentai»84.

Ferruccio Neerman, invece, di quel viaggio che doveva portare anche la sua famiglia dal Veneto alla Capitale, più che della paura dei controlli nazi- fascisti, ricorda l’incredibile sensazione che provò durante l’incursione aerea degli alleati che costrinse il suo convoglio a tornare indietro. Ferruccio, assistette alla picchiata dei velivoli, ma incredibilmente, durante quegli istanti drammatici non si sentì mai in pericolo, rimanendo tranquillo, certo del fatto che gli aerei non lo avrebbero colpito: «Pensavo: “Sono amici, non intendono colpire me, stanno dalla parte degli ebrei e quindi non vogliono farmi del male”. Come se i proiettili avessero saputo chi colpire e chi no»85. In quell’occasione, fortunosamente neppure alcun suo famigliare

fu ferito, ma egli, intorno al treno, poté costatare gli effetti prodotti dall’attacco tra gli altri passeggeri: «Coloro che risalivano sul treno avevano la faccia stralunata; alcuni tremavano come foglie per la paura, altri erano zuppi d’acqua come se fossero stati ripescati in mare dopo un naufragio, altri ancora erano inzaccherati di fango dalla testa ai piedi; infine uno, con una scarpa sola, portava la camicia sopra la giacca. Effetti del panico»86.

A differenza di quanto accadde ai loro correligionari veneziani e ferraresi - le cui vicende sono state brevemente illustrate - i Bassi riuscirono a giungere la destinazione che nei loro piani sembrava offrire maggiori garanzie di salvezza. Lungo quell’interminabile tragitto verso Roma, essi furono però testimoni di episodi di particolare terrore87:

A Fara Sabina il treno si arrestò accanto a tradotte militari e ad un treno carico di combustibile e munizioni […]. Noi osservammo con apprensione lo spiegamento di truppe, il loro armamento e soprattutto il treno carico di munizioni. Una semplice scheggia, una sola raffica e - oplà - saremmo tutti saltati in aria. Qualcuno, nel nostro treno, insinuava che ci tenevano lì apposta, perché gli americani non potessero attaccare i convogli militari senza provocare un massacro. Personalmente non

84. R. Bassi, Scaramucce sul lago Ladoga, cit., p. 125. 85 F. Neerman, Infanzia rubata, cit, p. 54

86Ivi, p. 54-55.

87 Come i serpenti che al solo sentire l’avvicinarsi del passo umano, scattano a nascondersi, così bastava la sola minaccia di attacco aereo a far gettare fuori dal treno i viaggiatori sotto ripari di fortuna. Questo fu ciò che vide Bassi quando il suo treno si trovava ad Orvieto: «Il treno era fermo alla stazione di Orvieto […] Orvieto era stata bombardata, e il treno non poteva proseguire. Si udì il ronzio delle fortezze volanti americane e vi furono scene di panico. Qualcuno si gettò nel fossato che correva lungo le rotaie: noi scendemmo e restammo vicini al treno». R. Bassi, Scaramucce sul lago Ladoga, cit., p. 125.

credevo troppo a questa spiegazione. Qualcuno si decise di tornare al nord. Io ero di nuovo preso dalla paura della polizia che, ogni tanto, passava nei corridoi del treno. In realtà, non venne fatto alcun controllo. Ricordo la sosta successiva, in località Settebagni. Un’altra volta saltammo giù dal treno, temendo un mitragliamento, ma anche qui nulla accadde88.

Effettuare un viaggio nell’Italia di allora poteva rivelarsi un’odissea piena di insidie. Se ne resero conto anche le sorelle Polacco quando dopo la notizia della deportazione degli ebrei di Roma furono messe sul primo treno che lasciava Venezia, in questo caso, in direzione di Milano: «Dovevamo arrivare in due ore invece siamo arrivati alla sera tardi e c'era il coprifuoco […] Siamo arrivati in questa stazione, siamo scesi, non ti dico come e avevamo chiesto nello scompartimento dove eravamo noi di passarci le valigie fuori del finestrino perché non riuscivamo neanche a scavalcare i corpi che c'erano, ma la gente dormiva nei corridoi e le persone a cui avevamo chiesto il favore avevano preso sonno, perché questo treno si fermava in continuazione. Noi ci siamo avvantaggiate un po', ma non mettevano fuori niente, poi siccome c'era la luna piena, quando il treno è ripartito, pensavamo di aver perduto tutto, e invece abbiamo visto che queste due valigie, questi due sacchi, uscivano in fondo dai finestrini... abbiamo dovuto andare sulla massicciata del treno per recuperarli»89. La

loro fuga aveva come prima tappa il piccolo paese lombardo di Lonato, vicino a Castiglione delle Stiviere: qualche giorno dopo, insieme ai genitori e al fratello, avrebbero tentato di raggiungere la Svizzera.

3.2.3 Al di qua e al di là della rete

I Polacco presero contatto con i contrabbandieri che operavano nei dintorni della sponda orientale del Lago Maggiore. Accompagnati dalle guide, dopo un lungo e faticoso percorso tra i monti, la notte prima di attraversare il confine vennero sistemati in un fienile a riposare:

Ci hanno portato in un fienile piccolo che mi pare di ricordare che era rotondo e ci hanno detto di riposare là che dovevamo aspettare l'alba e che all'alba sarebbero venuti a prenderci poiché eravamo vicino alla Svizzera. Ci siamo distesi su questo fieno mia mamma, mio papà, mio fratello ed io. E a un certo punto siamo scivolati giù... ci avevano detto di non tossire, “non starnutite, non parlate, perché ci sono le ronde, ci sono tanti fienili e ci sono tanti che si nascondono e dove sentono i rumori, beccano le persone”. E poi mia sorella, mio fratello e io abbiamo preso sonno… mio papà e mia mamma non credo… e, ad un certo punto, mio fratello ha perso la cuffia che aveva in testa - che era innamorato di ‘sta cuffia, la

88 Ivi, p. 127.

chiamava la mefisto, era quella con le punte in giù -, si è messo ad urlare: “LA MIA MEFISTO! LA MIA MEFISTO!”, e noi in mezzo a ‘sto fieno a tirar fuori ‘sta roba… quando l’abbiamo trovata gliel'abbiamo calata fino al collo... insomma è andata bene. Alla mattina sono venuti a chiamarci, abbiamo fatto ancora forse duecento metri, non di più, e ci hanno portato ad un limite dove c'era una radura di una cinquantina di metri neanche, dove finiva il bosco, e poi c'era un torrente, con dei sassi, con l'acqua che scorreva. Prima di andar fuori dal bosco, ci hanno detto “Ecco, di là, oltre il torrente c’è la Svizzera. Andate di corsa”, perché poi c’era un altro pezzo di radura e poi ancora il bosco, “Andate di corsa perché qua siete allo scoperto e se stanno controllando sparano”.90

Il confine tra l’Italia e la Svizzera, presidiato da militari tedeschi e italiani, rimase sorvegliatissimo per tutta la durata del conflitto. Il passaggio da una parte all’altra del confine era senza dubbio un momento fra i più pericolosi, la cui buona riuscita suscitava immensa gioia poiché si era propensi a credere che dopo aver superato la frontiera, il peggio fosse ormai passato. A quel punto gli ebrei condotti al presidio di polizia, venivano interrogati sulla propria identità personale. Questo era davvero il passo conclusivo che avrebbe determinato il definitivo accoglimento, e quindi una sicura salvezza. Nel primissimo periodo di occupazione alcune centinaia di ebrei riuscirono a passare in Svizzera: tra il settembre e l’ottobre 1943 si è calcolato che circa 1500 ebrei provenienti dalla sola città di Milano oltrepassarono il confine svizzero91. La probabilità che le guardie elvetiche

ricacciassero indietro gli ebrei fuggitivi nei mesi successivi rimase però molto alta. L’atteggiamento delle autorità cantonali e federali verso gli ebrei che tentavano l’espatrio si dimostrò di frequente ambiguo e talvolta tutt’altro che amichevole. I nuovi provvedimenti antisemiti emanati dalla Repubblica Sociale Italiana dal dicembre 1943 convinsero gli svizzeri ad essere meno fiscali nelle espulsioni: sebbene al «riconoscimento formale del diritto d’asilo si giunse solo il 12 luglio 1944»92, sin dai primi mesi di

quell’anno agli ebrei basterà dimostrare di essere tali per poter rimanere nel Paese neutrale93.

Jordanit Ascoli aveva solo 4 anni quando con i genitori e i fratelli intraprese la fuga verso la Svizzera. L’attraversamento della rete metallica posta lungo alcuni tratti del confine tra i due Stati, ha rappresentato per molti fuggiaschi l’ultimo ostacolo della fuga. Le probabilità di raggiungere il territorio svizzero dipendevano dal comportamento che avrebbe tenuto

90Ibidem.

91 L. Picciotto, Gli ebrei nella provincia di Milano, cit., p. 22.

92 A. Bazzocco, Fughe, traffici, intrighi alla frontiera italo-elvetica dopo l’armistizio dell’8 settembre

1943, in R. Marchesi, Como ultima uscita. Storie di Ebrei nel capoluogo lariano 1943-1944, Istituto di

Storia Contemporanea “P.A. Perretta” Como, Como 2004, p. 103.

93 R. Broggini, La frontiera della speranza. Gli ebrei dall’Italia verso la Svizzera 1943-1945, Mondadori, Milano 1999, p. 87. (prima ed. 1998).

Jordanit: «…e poi questa fuga su per le montagne», raccontò a sessant’anni di distanza, «per sentierini un po’ in groppa a mio fratello, che ha dieci anni più di me, e un po’ trascinata per mano. C’era un passatore, e noi eravamo in fila indiana, mio padre, mia madre, mia sorella (che è molto più grande di me, all’epoca aveva ventun anni), mio fratello ed io. Ricordo quindi il passaggio sotto la rete dei campanellini. Anche lì era l’imbrunire, era proprio quasi buio, e c’era un buco scavato per terra, e la rete era un pochino sollevata. Mi dissero che dovevo passare in silenzio e che dovevo essere bravissima a non far suonare i campanellini, perché se toccavo la rete era la fine. Questo passaggio me lo ricorderò per sempre. So che siamo passati uno dopo l’altro, e ovviamente io ero la più pericolosa, perché guai se facevo un gesto inconsulto, se parlavo, se dicevo qualcosa, se facevo un capriccio, chi lo sa. Invece è andato tutto bene, siamo passati dall’altra parte, poi siamo stati presi in consegna».94

La famiglia Ascoli, ad eccezione della piccola Jordanit era destinata a essere rimandata indietro ma, grazie all’insistenza della madre, tutti vennero alla fine accolti.

Similmente la famiglia di Uberto Tedeschi, superato il confine e raccolti dalle guardie elvetiche trepidò un’ultima volta di fronte alla titubanza dei militari nel momento del riconoscimento della loro origine ebraica95. Poi

però gli Svizzeri si risolsero a farli entrare nel paese:

94 Testimonianza riportata in S. V. Di Palma, Bambini e adolescenti nella Shoah cit., p. 218.

95 «Raggiunti i contrabbandieri la notte - era una notte di luna - ricordo che scherzavano con me “ah questo lo teniamo con noi!”, ad un certo punto si sentirono dei cani in lontananza e i contrabbandieri si misero fretta. Camminammo otto ore nella notte, mi ricordo che mia madre faticava a camminare e - poi ci ricattarono per aver altro denaro. Erano dei fuorilegge non certo antifascisti-. Alla fine ci lasciarono dicendo ecco lì in fondo è la Svizzera e si continuava a sentire i cani tedeschi che si avvicinavano. Mio fratello d’accordo ci lasciò per scendere, dopo un po’ sentimmo gridare aiuto aiuto, la voce di mio fratello, poco dopo si videro salire due soldati con il fucile puntato e noi trattenendo il respiro, e mio padre chiese “Deutsch o Schweitz?”, “Schweitz!”, era stato mio fratello e li aveva mandati su. Però arrivati nel posto di guardia ci disse di mostrate chi siete e dimostrate che siete perseguitati allora mio padre tirò fuori questo famoso foglio di preghiera ma questo non disse niente. E allora dissero, il bambino è malato - in effetti io ero reduce da una grossa influenza che aveva ritardato il viaggio mi ricordo benissimo le sgridate che presi ma invece questo ritardo è stato per la salvezza -. Allora venne in mente a mia madre di togliersi la fede nella quale all’interno ci sono le due lettere in ebraico. A quel punto il comandante si convinse che eravamo ebrei». ACS, SHF, c. n. 41851,

Uberto Tedeschi. La descrizione della fuga in Svizzera è stata descritta da Tedeschi anche in una

testimonianza scritta. Ancor meglio, in questa occasione, si può cogliere tutto il terrore scaturito nell’animo della famiglia quando si stava prospettando la possibilità di essere respinti: «Il capo -posto ci avrebbe respinto se non fossimo riusciti a dimostrare di essere ebrei o perseguitati politici. Non valse spiegargli che non era il caso andare in giro per l’Italia con documenti che dimostrerebbero quanto da lui richiesto. Non valeva certo il foglietto con la preghiera del Kaddish che mio padre (imprudentemente) portava sempre con sé. Le circoncisioni? Potevano essere state fatte per ragioni mediche… “uccideteci, piuttosto che rimandarci indietro!” urlò mia madre. […] La situazione sembrò disperata. Il sottufficiale, nel suo stentato italiano, confermò la sua irrevocabile decisione. Poi il nuovo miracolo. Ancora una volta l’intuito di mia