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1943-1945 Bambini nascost

4.3 Documenti, bugie e falsi nom

Secondo quanto afferma Sara Valentina di Palma, ad un controllo accurato i documenti falsi potevano non bastare perché spesso venivano contraffatti in maniera approssimativa; nonostante questo gli ebrei braccati che riuscivano a procurarseli confidarono molto in essi39:

Le carte di identità sono state lo strumento, la base, il perno della nostra storia. Non so dove mio padre conobbe il segretario del piccolo comune, vicino a Cattolica. Forse andò a chiedere un’informazione, forse per avere le carte annonarie. L’impiegato capì che quel signore aveva dei pensieri e un cognome imbarazzante, schedato in chissà quali elenchi. Gli chiese se il problema l’ave a solo lui e mio padre gli spiegò che il problema era grande anche come dimensione: sei noi Rimini, quattro i Finzi più la nonna Finzi, la zia Maria Cantoni vedova d’Angeli e poi il direttore della ditta di mio padre, Guido Vivanti. Sono brutti cognomi, disse il segretario comunale. È vero, disse il signor Rimini. Torni tra due giorni - disse il segretario - ci saranno quattordici carte d’identità perfette, una di scorta.40

Dell’importanza rivestita dalle “carte false” se ne accorse anche la piccola Liliana Treves quando, dopo mesi in cui visse nascosta con la famiglia sull’Appennino tosco-emiliano, durante gli ultimi preparativi della fuga in Svizzera, notò che il padre continuava ad accertarsi di avere con sé qualcosa («Il papà è già pronto da molto tempo ed è anche molto agitato. Va su e giù per la stanza. Non parla. Fa continuamente il gesto di guardare dentro la tasca del suo cappotto. Che cosa guarda papà? I documenti. Guarda i documenti»41). Se ne accorsero presto pure i bambini delle famiglie Finzi e

Rimini quando si ritrovarono a “prendere confidenza”, a “provare” fra di loro i nuovi cognomi trascritti sulle carte d’identità e modificati in Franzi per i primi e Ruini per i secondi42.

38 Ivi, p. 147.

39 S. V. Di Palma, Bambini e Adolescenti nella Shoah, cit., p. 109. 40 C. Rimini, Una carta in più, cit., p. 19.

41 L. Treves Alcalay, Con occhi di bambina (1941-1945), cit., p. 58.

42 Racconta Cesare Moisè Finzi: «Credete sia facile inventarsi una nuova identità e una nuova vita? Provate un po’ voi! Non si tratta di un gioco, c’è di mezzo la vita di tutti. Come spiegarglielo ai più piccoli, si chiedono gli adulti, specie a Silvana e Graziana che da poco hanno imparato a dire i loro nomi e indirizzi veri? Ecco, allora, che in casa è tutto un susseguirsi di presentazioni e di risposte, di firme e controfirme… Un caos! “Piacere, Lina Arenghi (e non Ardenghi). Lei è?” Io sono Vincenzo Franzi detto Enzo (anziché Enzo Finzi).” Anche lei è di Milano?”, “Sì: sto, anzi stavo in viale degli Abruzzi 55” “Noi invece stavamo in viale Gran Sasso 15, eravamo quasi vicini di casa!” […] “Chi sei bella bimba?” “Mi chiamo

Cambiare nome divenne una scelta obbligata soprattutto per coloro il cui nome tradizionalmente rimandava ad una chiara origine ebraica43. Ma se

negli adulti questa era una scelta consapevole, non lo era altrettanto per i più giovani i quali, con il cambiamento del nome, videro all’improvviso messa in discussione anche una delle certezze più elementari. Il veneziano Vittorio Levis, ad esempio, mandato con la sorella sordomuta a casa della famiglia della loro domestica, a Quarto d’Altino, sottolinea: «Mi ricordo che quando sono partito, mia mamma, che mi aveva affidato con la responsabilità che si dà ad un bambino di 3 anni di stare attento alla sorella, mi aveva detto di non parlare con gli estranei e non dire che ero ebreo. Mi ricordo che ero molto sorpreso di non dire qualcosa che dicevo per me essere naturale».44

Mi hanno cambiato nome e naturalmente cognome. Le mie sorelle forse non sono più le mie sorelle, dato che il loro cognome è diverso45.

È questo uno dei pensieri che passava per la testa a Lia Levi nel momento in cui le suore nell’istituto religioso ebbero l’idea di far assumere alle ebree lì rifugiate il nome delle collegiali meridionali non più ritornare dopo le vacanze estive46. Per la bambina, tuttavia il cambio del nome non

rappresentò un evento traumatico, poiché nonostante fosse una questione di

Graziana Ruini (Graziana Rimini) e sto a Milano”, “Chi di voi è Cesare?” “Cesare Ruini o Cesare Franzi?”. E via così… ». C. M. Finzi, Il giorno che cambiò la mia vita, cit. pp. 107-108.

43 Ricorda Israel Paggi che fuggito a sette anni con la famiglia da Pitigliano si ritrovò a peregrinare per settimane tra i vari poderi della zona: «Eravamo senza documenti di identità e lo saremmo stati durante tutto quel periodo. Con i nostri ospiti rimanemmo d’accordo che se fossero venuti i tedeschi avremmo detto di essere sfollati dall’Italia meridionale, che era già in mano agli alleati. L’unico accorgimento fu quello che io mi facevo chiamare Mario anziché Ariel: molte persone hanno saputo che il mio vero nome era Ariel solo dopo decenni». A. Paggi, Un bambino nella tempesta. Ricordi di Bambino durante il periodo razziale a Pitigliano, Belforte & C, Livorno 2009, pp. 48-49.

44 Intervista a Vittorio Levis, Venezia, 6 dicembre 2007. 45 L. Levi, Una bambina e basta, cit., p. 74.

46 «Per noi le suore hanno avuto un’idea. Molte collegiali l’estate erano andate a casa per le vacanze scolastiche, ma dato che abitavano al sud, sono rimaste bloccate là dalla guerra. Qui nel convento sono restate molte delle loro cose, qualche vestito negli armadietti di ferro, libri e quaderni e quello che è più importante tutti i loro documenti. È così semplice, basta scegliere l’età giusta e noi diventiamo loro. A me capita “Maria Cristina Cataldi”. Non Elena o Lucia, ma Maria Cristina: è il massimo. Con un nome così c’è da scontare a vita anni di complesso ebraico». Ivi, p. 75. Le suore che ospitarono Emanuele Pacifici imposero a lui un nuovo cognome approfittando di un errore sul nominativo di una carta annonaria: «Ora mi sarebbe stato imposto di cambiare perfino identità; la mattina dopo infatti suor Marta venne in classe e, davanti a tutti gli altri ragazzi, disse che il mio nome era Pallini, mentre Pacifici era solo un soprannome datomi in famiglia a causa della mia tranquillità, e con voce severa aggiunse: “In questo istituto non possiamo ammettere dei soprannomi!”». Da quel giorno io e mio fratello diventammo i fratelli Pallini. A guerra finita, prima di lasciare il collegio, seppi che la suora si era accorta che nelle nostre tessere annonarie era stato scritto per errore Pallini e lei pensò bene di cogliere la palla al balzo». E. Pacifici, «Non ti voltare», cit., p. 61.

“assimilazione”, o meglio di «superassimilazione», come ammette la stessa scrittrice romana a proposito del nome impostole, («Maria Cristina, tutto c’era!»), si trattò pur sempre di un’esperienza condivisa che, in un certo qual modo, ebbe anche i suoi risvolti divertenti47.

La nuova identità si dimostrò un’imposizione che implicò soprattutto nei più piccoli, «dubbi e sgomento della conoscenza si sé e della logica»48. Per

qualcuno non essere più chiamato come d’abitudine divenne nello stesso tempo motivo di profonda afflizione. Mirjam Viterbi ricorda che, nelle prime fasi della vita clandestina ad Assisi, prima di avere nuovi documenti, i famigliari cercavano di sottacere o di pronunciare «in modo non troppo chiaro» il proprio cognome: «Così un giorno la nostra padrona di casa, per indicarci, ci chiamò più semplicemente: “I Signori su alto”, cioè “I Signori del piano di sopra”. In seguito, molti del circondario credettero che ci chiamassimo proprio così […]. Tutto questo io lo prendevo in modo molto naturale e in fondo mi divertiva. Ciò che invece non mi divertiva affatto», prosegue Mirjam Viterbi, «era l’amputazione del mio stesso nome che non era infatti più Mirjam - troppo eloquente - ma Miri. Quel “Miri” che mi veniva messo addosso con tanta spontaneità e noncuranza era per me, ogni volta una ferita: non avevo mai amato il mio nome ma ora era come se una parte di me stessa fosse stata tagliata via, gettata lontano, lasciandomi qualcosa di incompleto e sanguinate»49.

Franco De Benedetti Teglio50, nascosto a sette anni con la famiglia a

Morbello un paesino tra i colli della provincia di Alessandria, provò un grande malessere quando le persone del luogo chiamarono suo padre con il falso cognome: in tali occasioni sentiva crescere una voglia irrefrenabile di far conoscere a tutti la verità, ma, comprendendone i rischi, fu sempre costretto a trattenere dentro di sé questo suo intimo bisogno.51

Donatella Levi, invece si ritroverà nascosta a Roma e, a causa dei documenti falsi che vennero procurati a lei e ai suoi famigliari, oltre ad

47 Alla stregua di quanto raccontato da Cesare Moisé Finzi, pure Lia Levi e le altre bambine nascoste con lei cominciarono a chiamarsi l’una con l’altra per imparare i nuovi nomi: «Quindi era diventato un pochino un gioco collettivo perché, siccome si facevano le prove (perché appunto essendo un gruppo forte per paura che uno si sbagliasse facevamo delle prove), uno ti chiamva con un altro nome, col nome falso e tu ti dovevi rivoltare». Intervento di Lia Levi in B. Maida (a cura di), 1938, cit., pp. 140-141.

48 S. V. Di Palma, Bambini e adolescenti nella Shoah, cit., p. 111. 49 M. Viterbi Ben Horim, Con gli occhi di allora, cit., pp. 36-37.

50 Franco De Benedetti aggiungerà il secondo cognome Teglio nel dopoguerra in onore allo zio, Massimo Teglio, primula rossa della resistenza genovese e provvidenziale salvatore della famiglia di Franco De Benedetti.

51 «Qualche volta», racconta Franco De Benedetti Teglio, «gli abitanti del paese si rivolgevano a mio padre chiamandolo “Signor De Maria” e per me era una gran sofferenza non poter reagire, non poter gridare il nostro vero cognome a tutti, dover fingere anche con persone dal grande cuore, che non ci avrebbero certamente tradito e che non potevano non intuire la nostra reale condizione». F. De Benedetti Teglio, In vacanza con la mia famiglia, in «Diario», 21 gennaio 2005, Anno V, n. 1, p. 47.

assumere generalità completamente diverse, dovrà sforzarsi di ricordare il nuovo nome della madre e, addirittura, di non rivolgersi con l’appellativo di “papà” verso il genitore impegnato a fingersi frate:

Il fatto che lui fosse stato il mio papà e poi avesse smesso di esserlo mi faceva sempre avere dei dubbi. Non sapevo se mi voleva ancora bene come poteva volerlo alla sua bambina o se, cambiando nome, vestito, lavoro e casa, avesse anche smesso i suoi sentimenti verso tutti noi. Ma quando veniva a trovarci si comportava come se fossimo ancora la sua famiglia, questo mi rassicurava molto. Anche se molte cose cambiavano, altre, tra le mura di una casa, potevano restare le stesse52.

I nomi si modificavano quando in fondo, le persone e le cose agli occhi di Donatella non sembravano così diverse da come le aveva sempre viste e riconosciute53. A quattro anni fu difficile accettare le contraddizioni che

stravolgevano il proprio mondo ora minacciato anche da ciò che in passato appariva così normale quanto il proprio nome e cognome54.

In un tempo in cui il pericolo poteva annidarsi ovunque, l’esistenza degli ebrei nascosti era appesa ad un filo tanto sottile che bastava il solo sospetto d’essere riconosciuti per sprofondare istantaneamente nell’angoscia della cattura.

Un giorno Donatella Levi, in via del tutto eccezionale, uscì insieme alla madre per andare a trovare dei parenti rifugiatisi come loro nella Capitale. In quell’occasione, le due incontrarono nell’ascensore del palazzo in cui si erano recate, un uomo in apparenza molto gentile del quale Donatella sembrò fidarsi: «Andare a fare una visita era un avvenimento molto importante e raro. La casa aveva l’ascensore ed io ero felice di poter finalmente uscire, dopo il tifo, e di prendere l’ascensore. Con noi era salito un signore, molto alto. Si era tolto il cappello e aveva salutato la mamma, con tono gentile. Fatti un po’ di piani con noi, prima di uscire, tenendo la porta aperta, mi chiese: “Che bella bambina che sei! Come ti chiami?”. Dimenticando tutto quello che avevo imparato, presa dall’eccitazione dell’ascensore, risposi guardandolo dritto in faccia: “Vuole sapere il nome

52 D. Levi, Vuole sapere il nome vero o il nome falso?, Il Lichene Edizioni, Padova 1995, p. 52. 53 È quello che pensa, ad esempio, Liliana Treves quando la madre le spiega che quello non dovrà essere più il suo nome: «Forse bisogna essere molto grandi per capire perché. Mi chiamo Wanda Consolo. Non mi piace questo nome. Preferisco Liliana Treves. Quando chiedo perché abbiamo cambiato nome la mamma mi risponde che non ci debbono riconoscere. “però noi rimaniamo gli stessi, - le dico io – non ci riconoscono dal nome ma dalla faccia…”». L. Treves Alcalay, Con occhi di bambina (1941-1945), cit., p. 58. Su questa testimonianza di vedano anche le riflessioni in S. V. Di Palma, Bambini e adolescenti nella Shoah, cit., p. 111.

54 «Tu da oggi non ti chiami più Donatella, non vieni più da Verona; adesso devi dire, a chiunque te lo chieda, che vieni da Parma […]. Guardami bene, devo dirti la cosa più importante: per nessun motivo al mondo devi dire di chiamarti Levi, mai a nessuno; dimentica quei nomi, per sempre. I nostri nomi sono la cosa più pericolosa per noi, in assoluto, ricorda. Adesso ti chiami Maria Bianchi». D. Levi, Vuole sapere il nome vero o il nome falso?, cit., p. 26.

vero o quello falso?”. Il signore richiuse velocemente la porta e se ne andò senza salutare. La mamma premette il pulsante e discendemmo. Non mi rivolse la parola, mi prese per mano e, a passo veloce, mi fece fare molta strada. Prendemmo anche un tram e si guardava le spalle, mi diceva solamente che temeva che qualcuno potesse seguirci, che la frase che avevo detto era molto pericolosa. Non potei più uscire per molto tempo. La mamma rimase preoccupata per giorni interi e non mi sorrise, né mi baciò. Quando la osservavo guardare a lungo fuori dalla finestra, capivo di aver fatto una cosa grave, ma non sapevo come farmi perdonare. Avevo imparato in poco tempo tanti nomi, avevo tanta confusione e l’ascensore mi aveva distratto»55.

Riccardo Levi, ingegnere della ditta Olivetti di Ivrea, antifascista appartenente a Giustizia e Libertà e fratello del più noto Carlo Levi, prima di nascondere la moglie e i figli a Torrazzo, trovandosi l’8 settembre 1943 in vacanza in Valle d’Aosta si era messo subito alla ricerca di un luogo sicuro dove sostare momentaneamente con la famiglia56. Dopo aver ritoccato le

carte di identità, i Levi si fermarono nel paese di Gaby, ma appena credettero di aver trovato una stanza, si videro subito costretti a ripartire. Secondo Giovanni Levi, i suoi genitori giudicarono compromessa la permanenza nel paese valdostano, poiché il fratello maggiore Andrea non era stato capace di mentire a un’affittuaria indiscreta. Racconta Giovanni Levi: «Siamo scappati lì [a Gaby] e avevamo modificato i documenti in “Clevi” in maniera molto rozza. Comunque arrivati lì, mia madre stava disfando le valigie - avevamo trovato una casa - e mia madre ha sentito mio fratello che discuteva con la padrona di casa - nel 1943 mio fratello aveva sei anni - e la proprietaria di casa diceva: “Ma voi vi chiamate Clevi, Clevi per

davvero?”, e mio fratello che non dice mai le bugie ha detto: “Clevi, Clevi, no,

ma quasi…”. Allora mia madre ha chiuso le valigie e ce ne siamo andati.57 I

55 D. Levi, Vuole sapere il nome vero o il nome falso?, cit., p. 50. Cfr. anche S. V. Di Palma, Bambini e

adolescenti nella Shoah, cit., p. 112-113.

56 L’8 settembre 1943, Riccardo Levi, con la moglie, Irma Della Torre, e i tre figli Andrea, Giovanni e Stefano - nati rispettivamente nel 1937, 1939 e 1942 - si trovava a Champoluc, in Valle d’Aosta. Grazie ad un amico, il valdese Guglielmo Jervis, anch’esso ingegnere dell’Olivetti, nonché futuro eroe della Resistenza in Piemonte, tutta la famiglia Levi venne condotta a Gaby, un paese situato nella valle parallela a quella di Champoluc (la Valle del Lys) considerata più sicura da eventuali rastrellamenti tedeschi.

57 Intervista a Giovanni Levi, Venezia, 12 marzo 2008. Andrea Levi, ha dato un’altra versione dell’accaduto: «La storia è un po’ questa. Noi eravamo a Champoluc. A Champoluc, un po’ più a valle c’è Brusson. A Brusson però - questo me l’ha raccontato mia madre dopo - era troppo piena di ebrei e quindi un posto in cui era troppo facile che i tedeschi facessero una retata e quindi ce ne andiamo. Jervis ci ha portato nella Valle del Lys, a Gaby, e lì i miei genitori mi hanno accusato - credo falsamente - di aver rivelato che eravamo ebrei all’albergatrice… fatto sta che in realtà era successo questo: mio padre che stava cercando di affittare per un cugino un alloggio oltre a quello in cui abitavamo noi, ma è arrivato un maresciallo o un funzionario del regime fascista e dice “No lei non conta niente, è ebreo e l’alloggio lo prendo io” allorché mio padre

Levi dovettero peregrinare per diverse settimane prima di trovare stabile rifugio a Torrazzo Biellese dove i tre fratelli insieme alla madre - il padre Riccardo nel frattempo era entrato nella Resistenza - vissero come sfollati con il cognome di «Cardone» fino alla fine della guerra: «E allora noi siamo scappati immediatamente e siamo stati ospitati da una signora che non ci voleva assolutamente, che era la madre di un collega collaboratore di mio padre dell’Olivetti, a Stresa sul Lago maggiore, vicino a Meina dove c’è stato l’eccidio. Stavamo lì nascosti senza documenti, con questa signora terrorizzata che non ci dava da mangiare; era spaventatissima in questa Villa sul lago, aspettando che alla Olivetti si producessero dei documenti falsi attendibili, e dopo un mese ci hanno procurato i documenti e ci chiamavamo Cardone - Cardone era il nome del nostro mezzadro in Liguria, si chiamava Napoleone Cardone - e allora per avere un parente, ci siamo chiamati Cardone. Ci siamo trasferiti in questo paesino della Serra di Ivrea, nel canavese, che si chiama Torrazzo Biellese, e siamo stati lì per un anno e mezzo»58.

Una volta passato il pericolo, per i bambini scampati alla persecuzione poter riutilizzare il vero nome fu una cosa molto meno banale di quanto si potrebbe forse pensare59. Vivere sotto mentite spoglie significò profondere

un costante impegno nel sostegno di un’identità fasulla60, che, come ricorda

Giovanni Levi a proposito della ritrosia ad accettare il vero cognome da parte del fratello minore, era stata tutt’altro che tale per chi solo allora iniziava a conoscere la vita61.

ha detto “Macché ebreo!, non siamo sicuramente noi!”. Però il giorno dopo ce ne siamo andati. Intervista ad Andrea Levi, Genova 13 novembre 2008.

58 Intervista a Giovanni Levi, Venezia, 12 marzo 2008.

59 Appena superata la frontiera svizzera Liliana Treves interrogò la madre: «Devo domandare una cosa alla mamma. È una domanda importante. “Mamma, ora mi posso chiamare Liliana Treves?”. I grandi scoppiano a ridere. Perché ridono? La mia è una domanda seria. Rimango senza risposta». L. Treves Alcalay, Con gli occhi di bambina, cit., p. 65. Cfr. anche S. V. Di Palma,

Bambini e adolescenti nella Shoah, cit., p. 134.

60 Andrea Levi cercò di far intendere la verità sulla propria identità almeno ai suoi compagni di scuola di Torrazzo Biellese, senza tuttavia riuscirci: «Siccome le bugie si dicono alla maestra ma non ai compagni di scuola, cercavo di dire, “Ma no, ma no, non è che mi chiamo proprio Cardone” e mi ricordo che i miei compagni mi hanno detto: “Questo è scemo!”. Un’altra volta egli fu riconosciuto da un abitante del luogo e non sapendo come comportarsi si mise a piangere: «…Una volta mi ricordo in un paese vicino di Torrazzo, uno un po‘ stupido che conosceva mio padre, mi ha visto e mi ha detto “Ah ma tu sei il figlio dell’Ingegner Levi!” e io non potevo dire né sì né no, e mi son messo a piangere, cosa che non facevo facilmente, perché effettivamente era una situazione di grande… da un lato sapevo benissimo che se dicevo sì era distruttivo e se dicevo no, dicevo una bugia… e quindi son scoppiato a piangere, e quindi la situazione era pesante… ». Intervista ad Andrea Levi, Genova 13 novembre 2008.

61 Finita la guerra, mio fratello si rifiutava di prendere il nome di Levi, diceva: “Io sono Stefano