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Dalle leggi razziali alla guerra

2.1 Esclusione e cambiament

Un pomeriggio, vado al Parco Massari con Manlio e la mamma. Appena arrivato, vedo i miei amici che giocano nel prato. Mentre la mamma si siede su una panchina vuota, io corro da loro per giocare. Ecco, allora, che una signora, amica di mamma, che talvolta è stata a casa nostra e nella cui bella abitazione siamo andati spesso, improvvisamente si alza da una panchina vicina, chiama suo figlio e si allontana senza neppure salutare mia madre. Seguono il suo esempio altre signore che, chiamati i loro figli, se ne vanno. Io rimango solo. Allora, anche mamma, facendo finta di niente, mi chiama, poi si alza dalla panchina e ci porta a fare un lungo giro per i viali. Non capisco subito il significato di questo episodio perché i miei genitori fanno di tutto per non farmi vivere il dramma della discriminazione. Tuttavia, in pochi giorni, lo collego con i rapidi cambiamenti che stanno interessando la nostra vita. Per molto tempo, il Parco Massari non sarà più la meta delle nostre passeggiate.

Quando mamma vuole portarci fuori, ora andiamo al Montagnone, l’altro spazio verde della città. Vi sono alcune panchine e, dall’alto delle mura, si può vedere la pianura circostante, ma certamente nulla a che vedere con l’amatissimo Parco Massari.54

Le ripercussioni e le relative reazioni alle leggi razziali sono, senza dubbio, gli aspetti riguardanti l’infanzia ebraica italiana fino ad ora meglio indagati dagli studiosi. Ricerche come quelle di Sara Valentina di Palma, e soprattutto i saggi compresi nel volume curato da Bruno Maida, e da Carmela Covato e Simonetta Ulivieri, hanno rilevato il senso di rottura con quel mondo di cui, fino al giorno prima, i bambini si erano sentiti parte integrante55. Come ha notato Annalisa Pinter, «le famiglie, nel ricordo di

tutti, cercarono di mantenere al loro interno una parvenza di normalità. […] In generale non si parlava di fronte a loro delle discriminazioni; pertanto molti bambini, specialmente quelli che già da prima frequentavano le scuole e l’ambiente ebraico, e non avevano pertanto dovuto cambiare sensibilmente le proprie abitudini e le proprie relazioni, ricevettero un impatto meno traumatico»56:

Tuttavia, anche per coloro che potevano essere maggiormente “pilotati” dai genitori, fu inevitabile accorgersi da un certo momento in avanti che comportamenti e sentimenti erano mutati.

«Nel 1938», ha scritto Donatella Levi, i bambini ebrei «con l’empatia e la sensibilità tipica dell’infanzia, sentirono tutto il non detto: la paura dei

54 C. M. Finzi, Il giorno che cambiò la mia vita, cit., p. 28.

55 Mi riferisco naturalmente a S. V. Di Palma, Bambini e adolescenti nella Shoah, cit., (in particolare le pp. 62-68), B. Maida, 1938. I bambini e le leggi razziali in Italia, cit., e C. Covato, S. Ulivieri,

Itinerari nella storia dell’infanzia. Bambine e bambini, modelli pedagogici e stili educativi, Unicopli,

Milano 2001, (in particolare il saggio di Annalisa Pinter, I bambini e le persecuzioni antiebraiche:

ricordi ed immagini, pp. 298-313).

genitori di non riuscire a proteggere i propri figli, il timore per la loro sopravvivenza. Tutto ciò poteva essere mascherato da facile ottimismo o da racconti di umori esterni passeggeri, ma tutti si trovavano a fare i conti di giorno in giorno con qualcosa che diventava sempre più evidente e sempre più pericoloso. L’antisemitismo italiano dopo essere stato strisciante e forse non facilmente decodificabile diventava aperto e di massa. L’appartenenza al popolo italiano veniva messa in discussione, i bambini erano all’improvviso figli di traditori e non vi potevano essere spiegazioni efficaci per ciò che stava accadendo»57. L’irrimediabile lacerazione con il passato

rese indelebili nei bambini perseguitati, nati antecedentemente all’anno in cui si consumò il primo atto della tragedia ebraica italiana, i ricordi di quel periodo.

2.1.2 Non studiare più

È il 3 settembre 1938, e io, un bimbetto felice di otto anni, cammino verso il centro di Folgaria con 30 centesimi in tasca. La sera prima è arrivato il babbo, e oggi ho l’incarico di andare a comprare il “Corriere Padano”, il giornale di Ferrara. Non lo trovo perché nei paesi di villeggiatura, passato agosto, arrivano più le testate delle singole città, ma solo i quotidiani nazionali. Così compro il “Corriere della Sera” e mi accingo a tornare a casa. Strada facendo, apro il giornale e noto un grande titolo che occupa tutta la pagina. Ormai sono grande e, purtroppo, so leggere: INSEGNANTI E STUDENTI EBREI esclusi dalle scuole governative e pareggiata. Capisco subito che la cosa riguarda anche me: a ottobre dovrei frequentare la quarta elementare presso la scuola pubblica Umberto I di Ferrara. Cosa significano queste parole? Non potrò più andare a scuola? Perché? Certo, sono ebreo, ma che differenza c’è fra me e gli altri bambini? E se anche ci fosse una differenza, perché non dovrei più andare a scuola? A dire il vero, non sono mai stato uno scolaro brillante né ho mai avuto un amore particolare per la scuola, ma veramente non mi sarà più permesso andarci?58

L’esclusione dalla scuola fu accolta dai bambini ebrei in modi diversi. Come ha evidenziato Bruno Maida «probabilmente la prima e la più logica reazione»59 può essere stata una sensazione di stupore associata ad un moto

di allegria perché ci si immaginò che le vacanze sarebbero continuate all’infinito, perché non ci sarebbero stati più compiti da fare, perché per brevi istanti balenò l’idea di trascorrere tutto il tempo liberi di giocare60.

57 D. Levi, La psicoanalisi italiana e il trauma dei sopravvissuti, cit., p. 97. 58 C. M. Finzi, Il giorno che cambiò la mia vita, cit., pp. 26-27.

59 B. Maida, Con occhi di bambini, cit., p. 25.

60 Per esempio Virginia Gattegno ammette: «Devo fare una grave confessione: odiavo la scuola per motivi vari, quindi il primo impatto è stato quasi di sollievo. Dopo, naturalmente, mi son resa conto dell’insulto che mi era stato fatto». M. Pezzetti, Il libro della Shoah italiana, cit., p. 40; oppure secondo quanto creduto da Sergio Minerbi: «Io stesso», dichiarò Minerbi in occasione

Alcuni vissero il momento senza pena: convinti che fossero decisioni dei genitori, non si posero neppure il problema del perché essi avevano preso una tale risoluzione talmente erano abituati ad accettarle senza troppo discutere. Racconta Ferruccio Neerman:

Certo, ad un certo momento i miei mi hanno detto: «Tu non puoi andare a scuola». Non ho neanche chiesto perché, quello che diceva il papà era Vangelo, e mi hanno mandato a scuola privata… era una cosa diciamo quasi naturale, mio padre naturalmente cercava di ovattare il tutto, tutta la faccenda, anche per non renderci partecipi di eventi che erano molto più grandi di noi. Quindi gestiva lui tutto e noi non facevamo altro che obbedire insomma.61

Per Ferruccio le difficoltà e le sofferenze derivate dalla persecuzione razziale si faranno sentire qualche tempo dopo, quando sarà mandato a studiare lontano da casa e dagli affetti famigliari, in un collegio, luogo che egli immaginava terribile e fatto apposta per punire i bambini disubbidienti62. Per altri al contrario, l’esclusione da scuola - spesso

del convegno alla Camera dei deputati nel 1988, «avrei dovuto essere ammesso alla prima ginnasio della scuola Giulio Cesare a Roma, ma ne fui escluso. A dire il vero non fui eccessivamente rattristato dall’improvviso prolungamento delle vacanze estive, ma avevo solo nove anni». S. I. Minerbi, Le leggi razziali ed i singoli ebrei, in La legislazione antiebraica in Italia e in

Europa, cit., p. 37. Lia Levi invece colse la notizia data dai genitori con velata indifferenza:

«“Senti” mi dice mia mamma con la faccia dei momenti importanti, “quest’anno non potrai tornare alla tua scuola”. Tutto qui? E a me che importa di quei muri grigi e arcigni? Ma è meglio dire qualcosa, se no ci restano male. “Perché non posso più andare alla mia scuola?” “Perché Mussolini non vuole più che i bambini ebrei vadano in classe con gli altri”. “Ah sì?”. Davvero poco interessante, ma è meglio continuare a comportarsi come loro si aspettano. “E allora dove andrò”?. “C’è la scuola ebraica dove c’è già tua cugina”. “Ah, va bene”. E me ne torno a giocare. Rimpianto per quella che devo lasciare … nemmeno un po’». L. Levi, Una

bambina e basta, Edizioni e/o, Roma 2007 (1a ed. 1997) pp. 6-7.

61 Intervista a Ferruccio Neerman, Verona, 19 febbraio 2009.

62 «Nel 1942 pensavo al collegio come ad una specie di casa di pena per minori. Quando i bambini combinavano qualche marachella, la frase ricorrente che si sentivano ripetere era: “Guarda che ti mando in collegio”. L’espressione suonava come minaccia di punizione grave e il collegio, nella mia fantasia, stava a metà tra il carcere duro e il ripudio da parte della famiglia. […] Una sera di fine estate del 1942 venni ammesso alla tavola degli adulti: evidentemente in pentola bolliva qualcosa di grosso. […]. Olga ed io saremmo dovuti andarcene da Venezia ed essere alloggiati in collegio […] La decisione era già presa, ma non doveva essere interpretata come un atto punitivo, dal momento che era finalizzata ad evitare eventuali pericoli […]. Papà e mamma non avevano insomma nulla da rimproverarci […] Vallo a spiegare ad un ragazzino di 13 anni sempre vissuto in una famiglia unita e affettuosa, dipendente emotivamente da essa ed abituato ad un mondo dove regnavano la massima armonia ed il reciproco rispetto! E poi, il collegio, quel luogo sospeso a metà tra il carcere minorile e l’inferno… perché? Cosa avevo fatto di tanto grave per meritare una punizione così severa? Quali colpe dovevo espiare? Forse i miei cari non mi volevano più bene, nonostante mi assicurassero del contrario? Mi sentivo tradito. Questo e cento altri interrogativi mi angosciarono per giorni, avrei voluto scomparire dalla faccia della terra, non essere mai nato, avrei desiderato essere picchiato a sangue o essere

annunciata faccia a faccia da insegnanti senza alcun riguardo - fu da subito percepita come un affronto difficile da decifrare:

Un mattino di ottobre [la maestra] salì in cattedra e ci fece un lungo discorso di cui compresi abbastanza poco. Ci raccontò che esistevano razze diverse, alcune buone, altre meno; che l’Italia aveva conquistato l’Impero, ma che molte forze oscure insidiavano il glorioso cammino del Paese; che tra i nemici della patria ve ne erano alcuni in mezzo a noi, gli ebrei, che andavano isolati. Insistette due o tre volte sul concetto di «nemici della patria». Poi, prese il registro, chiamò il mio nome e disse: «Bassi, esci dalla classe!». […] Mi ritrovai nel grande cortile assolato della Diaz, solo, e scoppiai a piangere. […] Mentre piangevo silenziosamente, cercando di capire perché ero nemico dell’Italia, mi si avvicinò il Direttore… mi accarezzò la testa, mi disse di aspettare tranquillo i miei genitori e aggiunse: «Vedrai, verranno tempi migliori!». […] Gli sono ancora grato per quella carezza. Questo episodio segnò per me l’inizio delle leggi razziali.63

Sebbene sia ipotizzabile, che, nel complesso giovani e giovanissimi abbiano reagito in maniera variegata alla perentoria esclusione dagli istituti scolastici, è verosimile ritenere che la loro psiche fosse turbata da una dose notevole di confusione e di dubbio64. Taluni, ad esempio, soffrirono il

distacco dai vecchi compagni con cui avevano instaurato forti amicizie65,

altri si videro all’improvviso ingiustamente depauperati del loro futuro. Lo spettro di non poter frequentare la scuola paventò i bambini in tal modo che essi temettero di veder svaniti i sogni e speranze già costruiti nella propria immaginazione. Essi avevano appreso dall’educazione famigliare che, per emergere nel mondo adulto e superarne al meglio le difficoltà, era fondamentale avere una buona istruzione: quali certezze e quali glorie avrebbe riservato una vita così privata della possibilità di studiare? L’angoscioso l’interrogativo adombrò i pensieri di Nedo Fiano:

E mi domandavo: «Ma cosa farò nella vita io se non posso andare a scuola?». Naturalmente ero terrorizzato all’idea che mi mancasse questa grande risorsa: vedevo un domani senza lettura, un domani impresentabile. Per andare da casa mia alla scuola, passavo ogni giorno davanti alla Biblioteca Nazionale, e la consideravo come l’Olimpo per i sapienti e per il sapere. E quindi sognavo il giorno in cui mi avrebbero

catturato dai fascisti, qualunque cosa, ma il collegio no». F. Neerman, Infanzia rubata, cit., pp. 27-28.

63 R. Bassi, Scaramucce sul lago Ladoga, cit., p. 35-36. 64 B. Maida, Con occhi di bambini, cit., p.27.

65 Come provato da Silvia Di Veroli il giorno dell’esclusione dalla scuola: «Io sono andata per andare a scuola e non mi hanno voluto. Ci ho pianto tanto quella mattina, tanto, perché avevo tutte le compagne cattoliche, ci volevamo bene. Poi la maestra ci voleva anche bene… piangeva, e piangevamo noi bambini. La vita allora è cambiata dal giorno alla notte». M. Pezzetti, Il libro

consentito di entrare, ma non si realizzò, perché lì fuori misero un bel cartello con scritto in giallo oro: «Vietato l’ingresso agli ebrei»66.

Le conclusioni meditate da Piero Terracina, una volta cacciato da scuola, si avvicinano molto a quelle di Fiano: il colpo inferto però generò in lui un’identica ferita:

Per me fu un trauma terribile, perché noi eravamo quattro figli, e studiavamo tutti. Mamma da noi pretendeva tanto, diceva sempre: «Ragazzi, datevi da fare, studiate, perché se non studiate la vita diventa difficile». Per noi era una specie di ritornello. Quando mi vidi fuori da scuola pensai tante cose… pensai soprattutto che se non potevo studiare la vita sarebbe stata, come diceva mamma, difficile. Pensavo già di dover svolgere i mestieri più umili...67

«I genitori», come ricordano Michel Tousignant e Esther Ehrensaft, «cercano di inculcare ai loro figli, con successo variabile, un bagaglio di valori morali che li guidino nella vita»; i bambini giungono a «sviluppare un certo sentimento di coerenza e a riconoscere ciò che è buono e naturale da ciò che è bizzarro o inaccettabile»68 e, di conseguenza, è su questo che

plasmano il loro modo di intendere e di comportarsi. Comprensibilmente, avendo introiettato il valore dello studio, l’espulsione da scuola andava a creare negli esclusi un forte scompenso, una contraddizione sostanziale, poiché, di fatto, il fascismo ne decretava solo per loro l’inutilità.

L’espulsione dalle scuole si rivela uno degli aspetti più drammatici della legislazione razziale, ma sarà proprio a partire da qui, dal «primo abuso», che i giovani ebrei svilupperanno una personale forma di resilienza all’emarginazione subita. In questo senso, un merito particolare deve essere riconosciuto alle scuole ebraiche, le quali costruirono intorno ai bambini un clima nuovo dove ritrovare risorse utili per rinsaldare la speranza di credere ancora in ciò che sembrava essere stato irrimediabilmente calpestato.

2.1.3 Le scuole ebraiche

Uscito dalla classe in lacrime Piero Terracina, dovette ritornare a casa. Lì lo attendeva sua madre…

66 Ivi, cit., p. 39.

67 P. Terracina, La vita oltre un numero, in L. Frassinetti, L. Tagliacozzo, Anni Spezzati. Storie e

destini nell’Italia della Shoah, Giunti, Firenze 2009, p. 11; si veda anche M. Pezzetti, Il libro della Shoah italiana, cit., pp. 30.

68 M. Tousignant, E. Ehrensaft, La resilienza tramite la ricostruzione del senso: l’esperienza dei traumi

individuali e collettivi, in B. Cyrulnik, E. Malaguti (a cura di), Costruire la resilienza. La riorganizzazione positiva della vita e la creazione di legami significativi, Erickson, Gardolo (TN) 2007,

…Tornai a casa, la scuola stava a due passi e ci andavo da solo. Dissi a mamma «Mi hanno cacciato perché sono ebreo». «Non te la prendere» - disse - «Vedrai che adesso un’altra scuola la troviamo. Stai tranquillo». E poi andai alla scuola ebraica. Finii la quinta elementare e poi andai alle medie. Era una scuola completamente diversa da quella che avevo frequentato e c’erano insegnanti particolari: erano stati tutti mandati via dalle scuole e dalle università e c’era la possibilità di formare un corpo insegnante veramente valido. E poi c’era un preside straordinario: si chiamava Nicola Cimmino, era un giovane preside napoletano, non ebreo, mandato dal Ministero. Era un uomo di grande umanità, che ci incitava a studiare: «Ragazzi datevi da fare. Le leggi razziali vogliono far credere che gli ebrei sono una razza inferiore, non è vero, e voi lo dovete dimostrare». Erano parole che segnavano, sono sicuro che in quella scuola ognuno di noi di noi ha dato il massimo.69

L’atteggiamento immediatamente comprensivo della mamma di Piero e, in seguito, il supporto degli insegnanti incontrati alla scuola ebraica di Roma, fornirono a Terracina gli appigli necessari attraverso i quali dare avvio ad un processo di reazione positiva al trauma subito70. Secondo la tesi

di Tousignant e Ehrensaft «difficilmente un bambino può diventare resiliente senza l’appoggio simbolico dei genitori o di altre persone che lo prendono in custodia»71: i genitori dunque - ma nel nostro caso anche le

istituzioni ebraiche - divennero indispensabili affinché questo processo avesse luogo. Come è stato messo in risalto da Cristina Bonino circa il caso torinese, i ragazzi che furono mandati alla scuola ebraica accolsero positivamente questa opportunità e la sfruttarono a fondo «non solo perché significava in concreto la possibilità di continuare gli studi, ma anche perché rappresentava una sorte di rivincita nei confronti del fascismo e di tutti coloro che dopo il 1938, lungi dal dimostrare comprensione e solidarietà, avevano voltato le spalle agli ebrei»72. Tuttavia, ha puntualizzato Michele

Sarfatti, nonostante la grande importanza e il profitto che ne ricavarono gli allievi, anche a dispetto di quello che può sembrare dalla maggioranza delle testimonianze di chi ci passò, si deve ritenere che «in termini complessivi la persecuzione fascista» abbassò «il livello educativo degli ebrei della penisola»73: ciò si verificò soprattutto nelle comunità israelitiche del centro

Italia dove fu maggiore la quantità di giovani che esaurito l’obbligo

69 P. Terracina, La vita oltre un numero, cit., pp. 11-12.

70 Terracina ricorda, infatti, come nella scuola ebraica di Roma insegnanti e alunni formavano un gruppo affiatato e ciò andava a stimolare la voglia di studiare e di competere in bravura con gli altri compagni: «Direi», ha ammesso Terracina, «che studiavo addirittura più volentieri di quanto non fosse nella scuola pubblica». Cfr. M. Pezzetti, Il libro della Shoah italiana, pp. 41-42. 71 M. Tousignant, E. Ehrensaft, La resilienza tramite la ricostruzione del senso, p.182.

72 C. Bonino, La scuola ebraica di Torino, cit., p. 76. 73 M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista, cit., p. 241.

scolastico, dovettero abbandonare definitivamente gli studi74 ed iniziare a

lavorare affinché anch’essi contribuissero al mantenimento delle famiglie cadute in difficoltà economiche in seguito ai licenziamenti decretati dai provvedimenti razziali.75

Nelle scuole ebraiche i bambini costruirono amicizie che - superata la Shoah - rimarranno durature nel tempo. Lina Ventura Jaffè ha ricordato di aver portato il figlio nella scuola ebraica di Milano prima del previsto, quando il piccolo «non aveva ancora sei anni», e lui ci andò «tutto felice, perché non poteva nemmeno giocare con i bambini in strada»76. Spesso oltre

al silenzioso allontanamento degli amici, i bambini ebrei dovettero soffrire episodi di violenta discriminazione anche da parte dei loro coetanei non ebrei. Il padre di Franca Tedeschi Portaleone, ad esempio, dovette recarsi ogni pomeriggio a prelevare dalla scuola i figli per evitare che altri bambini del quartiere dove vivevano potessero fare loro del male77. Come

sottolineato da Bruno Maida, «per i giovani e i bambini la segregazione, l’esclusione» non passarono «attraverso una legge, attraverso un editto pubblicato o un titolo di giornale bensì attraverso i rapporti interpersonali, l’incomprensione e l’umiliazione di un’intimità amicale che si dilegua senza risposta nel migliore dei casi, con il rifiuto espresso con le parole vuote ed enormi degli adulti»78:

Poi mi chiedevo anche se piccola, ma perché? Cosa vuol dire essere ebrea? Perché devono dire queste cose brutte, non capivo, ma me lo chiedevo come mai.79

D’altro canto, se la vita “fuori” poteva riservare spiacevoli sorprese, il clima che si produsse dentro la scuola ebraica si dimostrò invece in un certo senso confortante per i bambini accomunati dalla stessa disgraziata sorte,

74 In particolare nella comunità romana dove l’istruzione dei giovani «per lo più «provenienti da famiglie di piccoli commercianti, agenti di commercio e venditori ambulanti appartenenti a ceti tra i quali l’istruzione secondaria superiore (ed ad maiora quella universitaria) era ancora un’eccezione più che la regola». E. F. Sabatello, Le conseguenze sociali ed economiche delle