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1943-1945 Bambini nascost

4.4 Una normale anormalità

Ogni bambino osservava il mondo secondo le capacità interpretative concesse dall’età e dall’esperienza acquisita; perciò, qualcuno dal suo particolare punto di vista, non avendo conosciuto altro se non la persecuzione, poté trovare nell’anormale realtà nel quale era immerso, una buona dose di normalità.

Giovanni Levi, ad esempio, apparteneva a una famiglia ebraica molto rispettosa delle tradizioni ma non religiosa, per cui non gli era mai capitato ad esempio di frequentare la sinagoga. Durante la sua permanenza nel piccolo paese di Torrazzo egli doveva sembrare cattolico e per questo si ritrovò a frequentare con la famiglia la chiesa del paese. Levi però non riconduce a questo nessun imbarazzo ne tantomeno alcun trauma, perché, per la sua esperienza, credette che l’andare a messa fosse una naturale caratteristica di un luogo come quello: «Io avevo quattro anni», racconta Levi, «siccome dovevamo andare a messa perché bisognava far finta di essere cattolici, si andava ogni tanto e io invece ogni domenica dicevo “Andiamo a messa?”. A me piaceva molto. Non so se ora si usa ancora, che c’è un bastone con in fondo un sacchetto per raccogliere le offerte, per me mettere le monete in quella cosa lì era il momento della messa che mi divertiva di più. La mia famiglia ebraica era poco ebraica, nel senso che era fortemente legata all’ebraismo, ma non religiosa, non andavamo in Sinagoga, non avevo un’infanzia di sinagoga. Quindi arrivato in quel paese pensavo fosse uso e costume di quel paese andare a messa. Non è che mi hanno detto “Sei cattolico” e mi hanno battezzato, ma l’andare a messa era un uso del paese che era del tutto diverso da Ivrea - dove si andava ai giardini pubblici ed era una città -. Invece quello era un paese di 150 abitanti pieno di case di legno…».

Afferma Umberto di Gioacchino, che da piccolissimo fu portato dai famigliari nella campagna toscana:

Io non è che dovessi sentirmi un sopravvissuto, anche perché ti dirò, io in effetti, quei ricordi che ho della campagna per me non sono incubi; per me era una villeggiatura, cioè io non mi rendevo conto…77

L’incoscienza infantile rimase un fattore determinante nella percezione dei fatti esterni, nelle reazioni emotive dei bambini e chiave della elaborazione della memoria individuale. Racconta Zargani: «Mio fratello aveva un anno in meno di me e lo ha preservato di molte sofferenze perché non era molto

conscio di ciò che stava capitando, lui ha avuto la fortuna di non essere conscio, lui era convinto, per esempio, che noi eravamo stati messi in collegio per castigo, non aveva capito»78.

Da bambina Anna Bedarida ritiene di non aver mai riflettuto sulla possibilità di non poter riabbracciare un giorno tutta la sua famiglia. Probabilmente essere circondata dall’affetto delle suore nel convento dove era nascosta, oltre a non aver coscienza che per gli ebrei perseguitati essere catturati dai nazi-fascisti significava la certezza di essere uccisi, evitarono ad Anna di sentire ancor più acuta la pena della separazione dai suoi cari79.

Bisogna porre attenzione su quest’ultima considerazione perché, come rileva Debórah Dwork, è da qui che si deve cominciare a valutare storicamente le vicende dei bambini ebrei nascosti: «I giovani nascosti non avevano nessuna idea della tragedia da cui erano stati tanto fortunati da salvarsi, non ne avevano esperienza. Temevano i campi di deportazione e concentramento, vivevano nel terrore di essere denunciati, ma gli orrori della “sistemazione” erano voci più che realtà. Inoltre, tragedie e deprivazioni sono sempre assolute, non comparative. Chi può gioire al funerale di un genitore per il fatto che non sono morti entrambi? Chi rimase nascosto, come chiunque altro, visse secondo i parametri della propria

esperienza, che era sufficientemente dura. Il giusto paragone non è con quelli

che soffrirono più di loro, ma con quelli che soffrirono meno, non con la vita all’interno del sistema di sterminio, ma con la vita come avrebbe dovuto essere,

in “tempi normali”»80.

4.5 Separazioni

Davide Bedarida che nel dopoguerra intraprenderà la carriera medica di psichiatra, prendendo spunto dalla sua esperienza personale, ha avuto modo di precisare riguardo l’allontanamento dai genitori:

Il momento del distacco in qualche modo non riesco a ricordarmelo, mentre mi ricordo benissimo quando ci siamo ritrovati. Ma il momento del distacco non me lo ricordo non so perché, o perché d’altra parte, essendo psichiatra, mi rendo conto che certi ricordi vengono in qualche

78 ACS, SHF, c. n. 42345, Aldo Zargani.

79 Alla domanda se avesse mai pensato alla possibilità di non poter più rivedere i genitori, Anna Bedarida Perugia ha raccontato: «Io non l’ho mai pensato, non so perché. Al di là della disperazione di questo paese dove, di questo posto devo dire, c’era anche l’amore di queste suore soprattutto della Madre Superiora... […] Però forse per qualcosa di fondamentalmente ottimista del mio carattere non ho mai pensato di morire, la disperazione penso di non averla mai sentita. Poi, ringraziando Iddio, non si sapeva niente dei campi, si sapeva di questa ricerca dei tedeschi e di questa caccia all’uomo, però dei campi di concentramento fino a dopo la guerra non abbiamo saputo, non so se mio padre e mia madre sapevano, ma non ce ne hanno mai parlato». Intervista a Anna Bedarida Perugia, Roma, 16 novembre 2007.

modo rimossi o forse perché la cosa non ha inciso lì per lì perché non mi rendevo conto di quello che ci sarebbe stato dopo.81

Secondo quanto afferma Aldo Zargani il dolore più intenso di tutta la sua vita, anche dopo la persecuzione, risale a quando temette che entrambi i genitori fossero finiti nelle mani dei loro persecutori per causa sua: «Il primo dicembre sul giornale… “Tutti gli ebrei in campo di concentramento”. Noi avevamo avuto l’arresto della zia Lina della zia Rosetta e di Pucci. Mio padre capì che non eravamo più in grado di sopravvivere se non si trovava un aiuto molto più consistente. Il primo dicembre ci portò all’arcivescovado di Torino e lì ci lasciò […]. La giornata del primo dicembre, io ho 65 anni82,

la giornata del primo dicembre, io ne ho già visti di tutti i colori, ho avuto dolori, dispiaceri..., ma la giornata del primo dicembre in quel periodo cupo, è di gran lunga la peggior giornata della mia vita, perché io non volevo andare in collegio ma volevo stare con i miei genitori. Sono andato all’Arcivescovado e sono stato deprivato dei miei genitori; i miei genitori mi hanno detto che avrebbero comprato delle scarpe e dei pantaloni, arrivarono in ritardo, credevo che li avessero catturati! Quindi io quando non li ho visti arrivare ho cominciato a piangere»83.

Zargani aveva intuito che il padre e la madre avrebbero potuto fare la stessa fine della cugina e delle zie, qualche tempo prima arrestate dalle SS e non più rilasciate. Egli provò in quegli istanti un dolore disperato proprio come quello dei bambini che non «sanno darsi ragione»84, da sentirsi

anch’egli responsabile del mancato ritorno dei genitori: tanto gli pareva essere costato il desiderio di possedere dei pantaloncini alla «zuava»85.

81 Il commiato dai genitori è un evento foriero di ricordi spiacevoli per la mente dei bambini; in alcuni casi perciò l’inconscio può aver agito innescando meccanismi di rimozione tanto che di quel momento è impossibile a distanza di anni ritrovarne qualche traccia nella propria memoria. Intervista a Davide Bedarida, Livorno, 29 ottobre 2007.

82 Questa intervista è stata realizzata nel 1998.

83 «Finalmente i miei genitori sono tornati ho smesso di piangere. E mi hanno messo a dormire a me e mio fratello, me lo ricordo anche ora come una specie di sogno, nel dormitorio delle suore, con i letti bianchi con i lettoni altissimi, pieni di cuscinoni bianchi e alla mattina molto presto siamo stati mandati in collegio». ACS, SHF, c. n. 42345, Aldo Zargani.

84 Scrive Zargani sul suo libro: «Il mio non era il pianto di un bambino, a dieci anni non si piange così, quello era il lugubre lamento di una persona con la vita spezzata, perché sa di aver perduto le persone più amate. Ho provato lo stesso dolore quando prima il papà e poi la mamma mi hanno lasciato per l’ultima volta e per sempre, dopo la guerra. Ma all’Arcivescovado il male che sentivo era milioni di volte più lacerante, perché i bambini non si sanno dare ragione, e inoltre quella era la prima volta che morivano i miei genitori». A. Zargani, Per violino solo, cit., p. 41.

85 Prima di separarsi dai loro figli i genitori di Aldo Zargani vollero esaudire un qualsiasi loro desiderio: «Ore 17 del primo dicembre 1943. Conservo nella mente due volti: uno maschile con le orecchie, l’altro femminile con i capelli, due volti visti dal basso chini a sorridere, amare, sorridere e chiedere: “Che cosa vuoi che ti portiamo?”. Io, per mia sventura, a quei due volti amati lassù, in alto, contro il cielo, chiesi gli stivaletti neri e i pantaloni alla zuava. Si trattava di due indumenti desiderati da me ma osteggiati dal papà […]. Ma nel momento dell’addio

La minaccia di arresto costrinse i nuclei famigliari a dividersi. Questa fu una scelta dolorosa e, come ha ricordato Hulda Cassuto, carica di interrogativi che avrebbero avuto una risposta solo se alla fine i propri figli fossero usciti indenni dalla sciagura della guerra e della persecuzione:

Non ho parlato qui dei numerosi insuccessi, delle difficoltà del distacco, dei dubbi che non mi davano pace: è giusto, è logico consegnare i bambini a persone estranee, persone che fino a ieri non conoscevo. E oggi sono responsabili dei nostri bambini? Non ho parlato delle lacrime dei piccoli al momento del distacco, dei loro occhi sbigottiti. Perché? Mamma, zia, perché ci allontani da te?86

«Di fatto», ha scritto Debórah Dwork, «Innanzi tutto i giovani furono salvati dai genitori. Il gesto di separarsi da un bambino, di rinunciare al proprio figlio o figlia, riconoscere che non si è più in grado di difendere e proteggere quel piccolo essere cui si è data la vita fu il primo ed essenziale anello della catena di salvataggio. Era un paradosso: per salvare un figlio si doveva ammettere la propria incapacità ad aiutarlo»87. Secondo la storica

americana l’affidamento della propria prole ad altri, «quell’iniziale atto di abdicazione» che compirono i genitori non deve sminuire gli sforzi compiuti dai salvatori il cui comportamento è stato senz’altro straordinario e le loro «azioni meravigliose», «tuttavia, sarebbe scorretto affermare che solo a queste persone per quanto ammirevoli, giuste, generose e disponibili siano indubbiamente state, i giovani debbano la vita. Furono i genitori a compiere il primo e più straziante passo»88.

L’allontanamento dei figli dai genitori è dunque una conseguenza diretta della rinuncia di padri e madri a salvaguardare l’esistenza dei figli avendo maturato la consapevolezza dell’impossibilità di opporsi personalmente alla minaccia nazifascista. Le considerazioni di Dwork contrastano nettamente la tesi sostenuta dal belga Lucien Steinberg in una sua opera nei primi anni

straziante potevo tutto, e i miei genitori corsero ciecamente, in quel disastro di città, a cercare gli oggetti del mio desiderio. Roberto che, poverino non fu neppure interpellato, si allineò prontamente alle mie richieste». Ivi, p. 39-40.

86 H. Cassuto, E ne parlerai ai tuoi figli… cit., p. 139. Il nipote, David Cassuto, ricorda le conseguenze traumatiche che ebbe questa separazione per lui incomprensibile: «Ricordo anche le mie grida isteriche di bambino di cinque anni quando al cinema un soldato tedesco mi fece un complimento e una carezza sui capelli. La famiglia Colzi, quella che mi ospitava, si sentì perduta a causa della mia reazione di terrore. Da allora dovetti restare solo a casa la sera quando gli altri uscivano: guardavo dal mio letto il buio del corridoio senza poter dormire. E quando alla fine mi addormentavo, sognavo mia madre. Ma non la sognavo dolce. Nella mia fantasia era terribile, feroce, mi voleva uccidere. Perché i nostri genitori ci avevano abbandonato? Che cosa avevo fatto di male?». Citato in F. Nirestein, «Scampato ai nazisti, dal ’45

in Israele, oggi a capo della comunità italiana», 2 giugno 1993. http://www.fiammanirenstein.com/articoli.asp?Categoria=1&Id=18.

87 D. Dwork, Nascere con la stella cit., p. 88. 88 Ivi, p. 89.

’70, in cui si afferma come la decisione di separarsi dai figli sarebbe stata determinata invece da un particolare «istinto di preservazione collettiva» contro la volontà nazista di estinguere l’ebraismo. Da parte nostra non possiamo che accogliere tuttavia il pensiero della storica statunitense: anche le famiglie ebraiche italiane durante la persecuzione lottarono innanzi tutto per la propria sopravvivenza e non per un qualche senso di preservazione di gruppo. Semmai questo aspetto venne alla ribalta nell’immediato dopoguerra, quando, di fronte alla conoscenza dello sterminio, coloro che restavano si adoperarono per dimostrare che in Italia l’ebraismo non era morto. Confrontata con il caso italiano, la tesi dello studioso belga che presupporrebbe la presenza di un sentimento sovrannazionale più che nazionale, troverebbe ancor meno credito poiché in Italia, almeno fino alle leggi razziali - ma anche per tutta la durata della guerra - la minoranza israelita, al di là di tutto, accanto a quello religioso-culturale ebraico, il senso di appartenenza alla Patria natale (naturalmente avendo epurato da questo gli aspetti fatti propri dal fascismo), era sempre rimasto molto forte.

Si è avuto modo di evidenziare anche nel capitolo precedente in occasione dell’analisi della repentina fuga successiva all’otto settembre ’43, quanto la sola minaccia di dividersi dal nucleo famigliare costituisse per i piccoli ebrei braccati una paura reale. Senza il papà e la mamma il mondo sembrava «non avere più senso»89, ma parecchi bambini non poterono evitare la

dipartita dalla famiglia, in luoghi e tra gente estranea non sempre però disponibile a schierarsi senza remore a fianco degli ebrei perseguitati90.

Magari ospitati in case altrui sotto le mentite spoglie di giovanissimi parenti sfollati dalle città bombardate, i bambini tanto conseguirono un giovamento dalle famiglie che gli accolsero con affetto filiale quanto, in senso opposto, provarono grossi disagi ad adattarsi tra sconosciuti «i quali li hanno voluti per ragioni estranee alla solidarietà e alla umana compassione»91. Spesso, la gravità della situazione imponeva di contare solo

sulla disponibilità di qualcuno intenzionato ad accogliere i figli senza denunciarli, piuttosto che l’esigenza di inserirli in ambienti dove ritrovare la tranquillità e la stabilità necessaria per crescere sereni.92

89 Intervista a Anna Bedarida Perugia, Roma, 16 novembre 2007.

90 Come accadde a Hulda Cassuto quando all’indomani dell’arresto del fratello rabbino di Firenze, Nathan Cassuto, sotto la min di nuove retate nazifasciste, si ritrovò insieme al marito Saul Campagnano a lasciare il convento dove si trovava con i suoi bambini e a cercare un nuovo nascondiglio: «Prima notte di peregrinazioni, ancora una notte e ancora un’altra sempre presso estranei, persone che quasi non ci rivolgevano la parola, che temevano ogni rumore da parte dei bambini: “i vicini parleranno, il pericolo non è solo per voi…”». H. Cassuto, E ne

parlerai ai tuoi figli… in Scritti in memoria di Nathan Cassuto, Hedem- Yad Leyakkirenu,

Gerusalemme 1986, p. 120.

91 S. V. Di Palma, Bambini e adolescenti nella Shoah, cit., p.120. 92 D. Dwork. Nascere con la stella, cit., p. 106

La privazione dei genitori fu nondimeno una sensazione difficile da sopportare anche per chi fu accolto amorevolmente e con tutte le debite cure. Se Vittorio Levis, dopo una sgridata, una volta scappò arrabbiato nei campi intorno alla fattoria di Quarto d’Altino dove era stato nascosto, alla ricerca della mamma93, Ariel Paggi fu colto da una profonda nostalgia,

quando, durante le peregrinazioni nei dintorni di Pitigliano, ad un certo punto si divise provvisoriamente dalla famiglia. Lontano da essa, Ariel per alcuni giorni non fece altro che cercare con lo sguardo il podere dove erano nascosti i suoi cari piangendo «a dirotto gridando “babbo, babbo”»94.

Come Paggi, Fulvia Levi si ritrovò a vagare con la famiglia tra il Veneto e la Lombardia, dopo aver inutilmente tentato di raggiungere più volte la Svizzera. Quasi rassegnati sul loro destino, a Venezia i Levi decisero che a quel punto dovevano almeno preservare loro figlia. Trovata una signora ospitale decisero quindi di dividersi da Fulvia: «Papà e mamma giunsero ad una conclusione molto amara ce molto triste, quella di separarci, erano convinti che il pericolo maggiore lo correvano loro due, più vecchi, più maturi, e io come bambina potevo passare come nipote della signora Negrini, l’affittacamere, che si era gentilmente offerta di tenermi, perciò con un dolore che non posso dire, papà mi disse che dovevo fare la brava, dovevo fare la grande, mi riportò dalla signora Negrini e mi lasciò. Sono rimasta da sola e la signora era una signora molto carina, gentile, pulitissima al punto che io, per renderla contenta, pulivo sotto il letto al lume di una candela in modo da essere lodata per l’accuratezza con la quale tenevo le stanze, cercavo di farmi ben volere il più possibile. Lei pretendeva che la chiamassi “nonna”, ma questa parola non mi riusciva facile, credo di averla detta solo qualche rara volta, se no non dicevo niente non mettevo nessun nome davanti»95.

Molti bambini non mancarono di impegnarsi con tutte le forze per farsi accettare al meglio dalle famiglie adottive. Tuttavia ciò aveva un suo particolare costo psicologico, perché, come accadde a Fulvia Levi, alle volte il senso di gratitudine poteva sfociare in un obbligo morale divergente dal proprio intimo sentire. Indotti ad un modus vivendi determinato dalle circostanze e da volontà altrui, alcuni bambini nascosti si ritrovarono a fare i conti con un snervante conflitto interiore, dal quale si sottraevano solo i più piccoli che, anzi, separati dai genitori in tenera età, cominciarono a riconoscere nei protettori acquisiti le reali figure paterne e materne. Ad esempio, il figlio di appena due anni di Hulda Cassuto, Reuven (Ruben), fu nascosto su suggerimento del pastore valdese Tullio Vynai, dalla madre presso due coniugi cristiani di Firenze, Amato e Letizia Billour. Questi

93 Intervista a Vittorio Levis, Venezia, 6 dicembre 2007.

94 «Sentivo la mancanza della sua sicurezza e tante altre cose che non so descrivere. Udivo i commenti dei miei ospiti: “che strano piange, chiedendo del babbo: di solito i ragazzini chiedono della mamma”». A. Paggi, Un bambino nella tempesta, cit., p. 63-64.

ultimi non avevano figli e, come ricorda anche Liliana Picciotto, accolsero il bambino con amore fino alla liberazione della città nell’agosto 1944. Per diverso tempo fu impossibile per Hulda avvicinarsi al bambino tanto che il piccolo cominciò a chiamare i genitori putativi «babbo» e «mamma»: «Hulda, disperata, per settimane non riuscì a vedere suo figlio. Poi fu stabilito che lo avrebbe incontrato in luoghi pubblici e, più avanti, i Billour stessi sarebbero andati a trovarla nel suo rifugio portando Reuven»96.

In procinto di essere accolto in un convento fiorentino, Emanuele Pacifici non si lasciò andare alla disperazione quando venne separato dalla mamma. Egli non poteva però sapere che da quel momento in poi non l’avrebbe più rivista: la madre di Pacifici, Wanda Abenaim, verrà arrestata nella notte tra il 26 e il 27 novembre 1943 durante una retata all’interno del convento del Carmine a Firenze in cui era nascosta. Anche lei, come il marito Riccardo, finirà deportata e uccisa nei campi di sterminio nazisti:

Quando lo zio venne a prendere me e Raffaele, la mamma ci accompagnò fino al portone; si raccomandò a me in particolare di fare il bravo e di obbedire a chi si sarebbe preso cura di noi; poi una carezza,