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L’infanzia ebraica nell’Italia prima delle leggi razzial

1.2 L’ebraismo dei bambin

È tra le mura casalinghe che i bambini vengono educati ai precetti e alle tradizioni dell’ebraismo, secondo il grado di osservanza religiosa delle famiglie, ma anche a prescindere da questo59.

57 C. M. Finzi, Il giorno che cambiò la mia vita, Topipittori, Milano 2009, p. 12.

58 Aldo e Roberto Zargani al Valentino giocavano con tutti i bambini, molti dei quali sono rimasti loro amici; sebbene allora con alcuni di essi si giocava insieme senza conoscersi per nome, molto tempo dopo, ad Aldo è capitato di essere ugualmente riconosciuto e salutato con affetto da uno di quegli sconosciuti compagni che evidentemente non aveva mai dimenticato le giornate trascorse da bambino a giocare al parco del Valentino: «E mi successe proprio una cosa di una stranezza incredibile. Una decina di anni fa: io camminavo per Corso Vittorio proprio nel viale che porta al Valentino, ero con mia moglie, e ad un certo punto da un negozio è uscito tutto rosso per l’entusiasmo un omaccione della mia età che mi ha abbracciato e baciato gridandomi: “ALDO, ALDO! Quanti anni che ti volevo rivedere! Non ti ricordi al Valentino come giocavamo?!” era uno dei bambini del Valentino, cinquantanni dopo». Intervista ad Aldo

Zargani, Roma, 5 maggio 2009.

59 Come spiega ad esempio Lamberto Perugia: «Sono sempre stato educato sia pure diciamo “laicamente”, alla religione ebraica a cui mio padre era strettamente legato pur ripeto non in senso strettamente religioso». Intervista Lamberto Perugia, Roma, 8 maggio 2009.

Nel caso di figlio maschio60 per l’ebraismo la cerimonia del Berìt Milà,

segna l’ingresso nella comunità del neonato, a perenne testimonianza, in quanto sigillo sulla carne, del “patto dell’alleanza di Abramo con Dio”. La circoncisione, «pietra di paragone dell’appartenenza a Israele», è «una delle istituzioni più sentite dell’ebraismo»61: durante la dissimulazione

dell’identità a cui saranno costretti molti bambini ebrei, comprenderanno anche da soli che rivelare questo particolare del proprio corpo potrebbe avere pericolose conseguenze.

In genere la consapevolezza della propria appartenenza ebraica cresceva nei primi anni dell’infanzia attraverso il rispetto in famiglia, come negli asili nido di ispirazione israelita, dei riti e delle feste religiose. Nel caso della famiglia di Emanuele Pacifici, ogni giorno, di prima mattina, i bambini ricevevano sulla testa dalle mani dei padri la berachà, la benedizione «che scende attraverso le generazioni del popolo eletto»62. Sebbene fosse ancora

abbastanza piccolo Emanuele Pacifici ha mantenuto negli anni il ricordo di quando, «forse l’unica volta», il padre rabbino si dimenticò di dare la benedizione a lui e alla sorellina: «Prima di andare al Tempio e poi al Collegio rabbinico», ha scritto Pacifici, «davanti alla porta di ingresso della nostra casa, poneva le sue mani sulla testa mia e di Miriam e ci dava la

berachà. Per noi due questo era diventato un momento talmente importante

e sentito che quando un giorno, forse l’unica volta, papà se ne dimenticò, i nostri singhiozzi furono tali che la mamma dovette mandare una donna a rincorrere per la strada papà che ci dette poi la berachà rituale con evidente

60 La scrittrice Rosetta Loy, ha ricordato in un suo libro questa cerimonia che “intravide” per la prima volta quando era bambina e, da cattolica, non comprese: «Se vedo indietro nel tempo e penso a come la parola “ebreo” è entrata nella mia vita, mi vedo seduta su una seggiolina azzurra nella camera dei bambini.[…] Posso guardare nell’appartamento al di là della strada dove dai vetri aperti le tende dondolano all’aria. In quella casa c’è una festa, si vedono le persone andare e venire. In quella casa da poco è nato un bambino, quella festa è per lui. “Un battesimo?” chiedo. No, mi dice la donna che è seduta accanto a me su un’altra seggiolina dove il suo corpo rimane avvolto come una palla, certo che no, ripete: lei è Annemarie, la mia Fräulein. Sono ebrei aggiunge accennando con il mento al di là della finestra, loro i bambini non li battezzano, li circoncidono. Ha detto “beschneiden” con una smorfia di disgusto. La parola è incomprensibile ma contiene quello “schneiden” che conosco bene. Cosa? Mormoro. Vedo il sangue, un mare di sangue che bagna il port-enfant. La spiegazione è vaga ma agghiacciante, Annemarie accenna a qualcosa sul corpo che non capisco mentre il suo sguardo scruta severo attraverso i vetri… “Vielleicht mit der Schere, ja, das weiß ich nicht…”. Al di là di quelle finestre vedo passare bambine con i fiocchi in testa simili al mio, signore con perle al collo e i corpi fasciati da morbidi vestiti di maglia come quelli della mamma. “Sind Juden” lei ripete; e lo sguardo dei suoi begli occhi color cielo si fissa severo su una cameriera che va in giro con un vassoio. Forse nascosto tra le tazze del tè c’è il pezzetto tagliato via a quel neonato. Un ditino, un lembo di pelle». R. Loy, La parola ebreo, Einaudi, Torino 2002, pp. 3-4, (1a ed. 1997).

61 Cfr., E. Gugenheim, L’ebraismo nella vita quotidiana, Giuntina, Firenze 1994, pp. 147-148. (Ed. orig. 1978).

commozione»63. Emanuele descrive il padre, Riccardo Pacifici come un

attento studioso, sempre impegnato a servire al meglio la sua comunità alla quale egli dedicava gran parte del suo tempo: «Io ero molto orgoglioso di mio padre che, lo confesso, un po’ di soggezione la incuteva anche a me. Il suo lavoro non gli permetteva di accompagnarmi ai giardini come facevano gli altri padri e prima di ogni festività o avvenimento importante si chiudeva nel suo studio per preparare i discorsi o approfondire i testi sacri ed era assolutamente impossibile disturbarlo»64. La benedizione del mattino

era dunque uno dei pochi attimi della giornata in cui le attenzioni del padre erano completamente riservate a lui: ecco che, forse per questo, il giorno in cui non ebbe la berachà, il piccolo Emanuele ne sentì la mancanza tanto da ricordarsene per sempre: «anche se quel giorno avevo solo cinque anni, lo ricordo come se fosse successo ieri»65. Com’è nella consuetudine della

religione ebraica, durante le cerimonie al Tempio al momento della berachà le donne e le bambine che assistevano alle funzioni nei matronei, scendevano nella parte riservata agli uomini per ricevere da loro la benedizione; per Lina Navarro questa «era la cosa più bella»66.

Comune abitudine per i bambini ebrei è recitare coprendosi con una mano gli occhi lo Shemà Israel, “Ascolta Israele”, la prima e l’ultima preghiera del giorno. Fra le preghiere rituali lo Shemà rappresenta la professione di fede, proprio perché si impara fin da piccoli e la si recita due volte al giorno con profonda devozione, dal momento che con essa ci si rivolge direttamente a Dio («Ascolta Israele, il Signore nostro Dio, il Signore è uno…»). Appartenente ad una famiglia non osservante, Olga Neerman, di questa preghiera imparerà solo le prime sei parole, bastevoli tuttavia, secondo la nonna, a contenere «tutta la sapienza del mondo»67. Quando

negli ultimi anni di guerra si ritroveranno alla sera, sotto le coperte, prima di dormire, nel buio delle camere di qualche collegio o convento, i bambini ebrei bisbiglieranno tra loro, di seguito alle preghiere cattoliche, proprio lo Shemà.

Ulteriori momenti di particolare importanza, che a distanza di anni si ricorda vivamente, sono le rituali celebrazioni del Sabato e le varie feste del calendario ebraico. Nella cultura ebraica, al tramonto del venerdì inizia liturgicamente il Sabato, il giorno di riposo, «santo e venerabile»68; per le

famiglie più osservanti questa è una circostanza di ritrovo e di riunione:

63 E. Pacifici, «Non ti voltare», cit, p. 13. 64 Ivi, p. 16.

65 Ivi, p. 13.

66 «Noi dall’alto si veniva giù dove c’erano tutti gli uomini e si prendeva la berachah dai nostri padri, dai fratelli». M. Pezzetti, Il libro della Shoah italiana, cit., p. 18.

67 O. Neerman, Ebrei per caso, cit., p. 24.

Al calar del sole, la sera del venerdì entrava il sabato, sacro a noi ebrei. Prima di cena nostro padre pronunciava la benedizione del vino. Il servizio da tavola, bello e lussuoso, era il segno del pasto del giorno festivo, particolarmente curato, anche perché presso la nonna risiedevano due domestiche, una delle quali con il ruolo di cuoca. La mattina seguente, solo noi maschi, andavamo alla sinagoga, dove passavamo tutta la mattina. Al ritorno, spesso trovavamo a casa il resto della famiglia, in abiti da festa, compresa mia sorella maggiore, cattolica come mia madre e nata da un precedente matrimonio della mamma. Il momento del pranzo vedeva tutti riuniti nella convivialità della festa. A sera, dopo qualche ora di giochi in famiglia, le donne tornavano a casa, noi invece restavamo fino alla domenica pomeriggio, quando papà ci riaccompagnava a casa. Questa schema si ripeteva durante le principali feste ebraiche alcune delle quali, come la Pasqua e la feste delle capanne, duravano una settimana o poco più. 69

«Il catechismo dell’ebreo è il suo calendario»; secondo Ernest Gugenheim, «senza dubbio in nessun’altra collettività il ritmo della vita è determinato come per il popolo ebraico dalla scansione dell’anno, dalle sue divisioni, dalle festività»70. Oltre alle celebrazioni del sabato ebraico, nelle

ricorrenze solenni, quali Kippur, Pesach, Rosh-Hashanà, ecc. i bambini venivano portati al Tempio dove magari, pur non capendone molto, si ritrovavano rapiti dalla complessa liturgia71 mentre l’ambiente della

sinagoga diventava, come racconta Aldo Zargani, una bella occasione di incontro per tutta la comunità.

Per Uberto Tedeschi, uno dei ricordi più pregnanti delle festività ebraiche è legato al Seder, la preparazione della cena pasquale per le sue enormi tavolate imbandite72; a Rirì Fiano, invece, nella memoria sono

rimasti i ricordi felici dei Kippur che visse a Napoli quando, eccezionalmente per questa ricorrenza, dopo essere uscita dal tempio, veniva portata dai genitori ad un vicino bar a bere un cappuccino («cosa per me insolita e attesa per tanto tempo, che vivevo come una grande festa»)73.

Prima delle leggi razziali, molti bambini di famiglie poco osservanti non erano del tutto coscienti della propria identità ebraica. Questa

69 M. Maestro, Ballata di tempi lontani, cit., p. 11.

70 E. Gugenheim, L’ebraismo nella vita quotidiana, cit., p. 63.

71 Della sua prima visita nella “Scola” di rito spagnolo di Venezia, Olga Neerman ricorda gli «scalini alti e stretti», gli uomini con la talled «e un minuscolo copricato, ma soprattutto i miei molteplici tentativi di alzarmi in punta dei piedi per vedere oltre la balaustra del matroneo. Limpido invece è il ritorno alla mente del fruscio della gonna di taffetas rosso di nonna Stea, il tocco leggero della sua mano sul mio capo ed il brivido che mi pervase tutta quando, nel silenzio, si alzò il suono cantilenante di una voce maschile». O. Neerman, Ebrei per caso, cit., pp. 22-23.

72 ACS, SHF, c. n. 41851, Umberto Tedeschi.

73 Intervista a Rina (Rirì) Lattes Fiano realizzata da S. V. Di Palma il 27 settembre 2000. Cfr, S. V. Di Palma, Bambini e adolescenti nella Shoah, cit., p. 211.

consapevolezza crebbe in Ferruccio Neerman soprattutto in conseguenza al confronto con gli altri amici cattolici, in particolare nel momento in cui essi, facendo la Prima Comunione, ricevettero doni tali da attirare fortemente la sua curiosità74; la sua famiglia pur essendone iscritta, non aveva rapporti

diretti con la Comunità ebraica di Venezia e così Ferruccio, che non era mai stato in Sinagoga75, di ebraico conosceva solo l’antico cimitero del Lido dove

ogni tanto la mamma lo portava a visitare la tomba della nonna. Olga, sorella di qualche anno più grande di Ferruccio, osservando attentamente certe abitudini alimentari, crebbe quasi con l’idea che per riconoscere un ebreo bastasse constatare se fosse solito, o no, mangiare le stesse caratteristiche pietanze che si preparavano in famiglia in corrispondenza delle festività ebraiche76.

Anche per coloro che, appartenenti ad una famiglia “mista”77, vennero

invece educati alla religione cattolica, l’ebraismo poteva svelarsi in primo

74 «Di essere ebreo lo sapevo fin dall’infanzia. Non ne avevo però consapevolezza, dal momento che non avevo mai frequentato la comunità ebraica, né il Talmud Torà e in famiglia non si festeggiava alcuna ricorrenza religiosa, né ebraica né cristiana. Da bambino, quando non mi era ancora consentito uscire solo, qualche volta ero stato accompagnato dalla mamma al cimitero ebraico del Lido a visitare la tomba della nonna, ma ci andavo senza emozione, anzi con parecchia ritrosia […] e quando, prima di entrare, la mamma mi copriva la testa con un fazzoletto annodato ai quattro angoli in modo da ricavarne una specie di copricapo, mi sentivo in qualche modo ridicolo e quasi offeso nella mia dignità di piccolo uomo. Maggior consapevolezza della mia “diversità” l’ebbi quando i miei coetanei fecero la Prima Comunione. Prima di allora non avevo mai posto attenzione al fatto che la domenica loro andassero a Messa ed io no, e della particolare circostanza cui ho accennato non ricordo qualcosa che mi abbia colpito più del fatto che ricevessero regali, anche vistosi, e in generale, per un ragazzino quale ero io, molto appetibili». F. Neerman, Infanzia rubata, cit., pp. 14-15.

75 Intervista a Ferruccio Neerman, Verona, 19 febbraio 2009.

76 «Mio fratello», scrive Olga Neerman, «ha sempre affermato che in famiglia non seguivamo alcuna religione. Beh, questo punto è un po’ complicato da chiarire, perché noi, come molti altri ebrei, ci ritenevamo tali anche se non eravamo praticanti. Inoltre il nostro ebraismo aveva un’impronta insolita, del tutto personale. Era di tipo… culinario. Vi faccio un esempio: zia Tina, prima della Pasqua ebraica, era solita preparare un gran “polpeton de dindio” (di tacchino) per tutta la famiglia, ma poiché nessuno frequentava la Comunità, come si sapesse quando cadevano certe festività, per me, è sempre rimasto un mistero. […] Quanto mi piaceva osservare la zia mentre in cucina, disponeva sul tavolo di marmo la polpa del tacchino tagliuzzata, la farina di pane azzimo, le uova sode e la grande carota con cui riempiva la pelle del gallinaccio! Mi ritenevo un elemento assolutamente indispensabile quando zia Tina mi diceva: - Pupa mia passime el sal – (passami il sale) e orgogliosamente pensavo:- Come farebbe la zia se non ci fossi io a porgerle il sale? Una fase dell’operazione che mi affascinava particolarmente era la cucitura del polpettone […] Credo che se allora qualcuno mi avesse chiesto chi fosse un ebreo avrei risposto con estrema convinzione: -Chi mangia il “polpetton de dindio”-». O. Neerman, Ebrei per caso, cit., pp. 40-41.

77 Durante gli anni Trenta, «i matrimoni “religiosamente misti” (cioè tra due persone che si coniugavano mantenendo le proprie diverse appartenenze religiose)», ebbero un’ascesa costante: dal 29% del totale di matrimoni misti registrati nel 1930-1931, si passò nel biennio 1932-1934 al 31%, fino a superare la quota del 33% tra il 1935 e il 1937. Cfr. M. Sarfatti, Gli ebrei

luogo come una cosa singolare e piuttosto stravagante date le consuetudini di qualche parente ossequioso delle tradizioni del popolo di Israele78.

Come si avrà modo di osservare in seguito, saranno soprattutto i bambini nascosti presso gli istituti cattolici, appartenenti a famiglie osservanti, che dovranno occultare e rinunciare con grande sofferenza a tutto ciò che dell’ebraismo avevano imparato e che era divenuto parte integrante del vivere quotidiano.