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Interregno: dall’8 settembre al 1° dicembre

3.1 Bambini in fuga

Francia, giugno 1940. La famiglia Bedarida espatriata per continuare l’attività commerciale impossibile da proseguire a Livorno dopo le leggi razziali, di fronte alla travolgente avanzata tedesca, nelle settimane seguenti lasciò Parigi e si rifugiò, prima in Normandia, poi nel sud della Francia. Sul treno che li doveva condurre lontano dalla capitale transalpina Anna, Gabriele e Davide ebbero il loro primo incontro ravvicinato con un soldato del Terzo Reich:

Eravamo in treno e scappavamo da Parigi, per una strada che correva più o meno parallela alla ferrovia e a un certo momento si cominciano a vedere mezzi tedeschi, con i tedeschi armati e con gli elmetti, e mia sorella che ha quattro anni più di me, quindi allora avrà avuto 6, 7 anni, disse “MAMAM REGARDE LES BOCHES!”, “I TEDESCHI!” come da noi si dice crucchi, e allora noi tutti terrorizzati a far silenzio nello scompartimento, a far “SSSSS!!!!!!!!”. Poi ad un certo punto il treno si ferma e salgono dei militari tedeschi che guardano i documenti a tutti, entrano nello scompartimento e vedono mio padre e mia madre e tre bambini che eravamo noi, io mio fratello e mia sorella, e allora mio padre spiega che eravamo i suoi figli, lui (il tedesco) prende i passaporti, li guarda e poi dice, battendogli la mano sulla spalla, in italiano: “Famiglia allora!” e se ne va.25

Eh Sì... e tutti impauriti mi tapparono la bocca! Ci fu questa fuga nel ’40 mentre arrivavano i tedeschi, proprio con l’ultimo treno, o forse uno degli ultimi treni. E poi non so se mio fratello ha raccontato di quando quell’ufficiale tedesco è entrato nel nostro scompartimento e ha chiesto chi eravamo e mio padre, senza dire altro, ha detto «Italiani», allora questo gli ha battuto la mano sulla spalla e ha detto «Famiglia!». E’ stato

23 Ivi, b. 7 fasc. Torino, Situazione politica nelle provincie 1943-1944: «R. Prefettura di Torino,

L’ispettore di P.S. di Zona (1^ Zona), Torino 1° gennaio 1944». Circa le disposizioni di esenzione,

che talora portarono a un braccio di ferro con i tedeschi sulla competenza della sorte degli ebrei si veda M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista cit., pp. 279-279.

24 Giusto per fare un esempio: il 17 agosto 1944, ventuno ultrasettantenni vennero prelevati dai tedeschi dalla Casa di ricovero di Venezia e poi deportati nei campi di sterminio, senza che fossero sollevati ricorsi da parte delle autorità italiane. R. Segre (a cura di), Gli ebrei a Venezia

1938-1945. Una comunità tra persecuzione e rinascita, Comunità Ebraica di Venezia, Venezia 2001,

p. 160.

uno bello spavento, perché se avesse visto i documenti venivano fuori i nomi, soprattutto quello della madre di mio padre, Ottolenghi, che è un tipico nome ebraico, e invece è finita così con questo che ha esclamato “famiglia!” ed è passato oltre.26

L’esercito vittorioso che i fratelli Bedarida avevano conosciuto in terra francese, aveva nel frattempo subito dure sconfitte su più fronti. Tuttavia, nel settembre 1943, davanti agli occhi degli italiani si materializzarono truppe tedesche ancora ben efficienti e combattive: il rombare dei motori dei mezzi bellici accompagnato dall’aspetto minaccioso di armi e uomini era un avvertimento che Hitler non avrebbe ceduto il Paese dell’ex alleato senza una strenua resistenza.

Il 9 settembre 1943 il fragore proveniente da veicoli militari in transito lungo una vicina strada fu udito dai settanta «ragazzi di Villa Emma», il gruppo di giovanissimi ebrei dai 6 ai 18 anni, sfuggiti dalle persecuzioni in Germania e in Jugoslavia per intraprendere l’Aaliyah (l’emigrazione in Palestina), ospitati sin dal luglio 1942, dopo varie vicissitudini, dalla Delasem in una grande villa disabitata nella cittadina modenese di Nonantola. L’arrivo a Nonantola dei soldati tedeschi spaventò i ragazzi e fece piangere i bambini più piccoli, ma quel giorno la paura colse tutti gli ospiti di Villa Emma, compresi gli adulti responsabili della cura dei ragazzi27. Si è già rilevato come gli ebrei stranieri internati temessero più di

26 Intervista ad Anna Bedarida Perugia, Roma, 16 novembre 2007.

27 Josef Iding, uno dei primi tre attivisti sionisti a cui nel 1941 a Zagabria era stato dato il compito di accompagnare i ragazzi nel loro viaggio verso la terra d’Israele, era a conoscenza, dalle conversazioni con l’avvocato Valobra, delle conseguenze a cui sarebbero andati incontro se fossero stati catturati dei nazisti. Cercando di non dare nell’occhio e senza perdere tempo, i ragazzi furono distribuiti nel seminario, dalle suore ospedaliere e presso alcune famiglie locali con le quali avevano stretto rapporti di amicizia durante la loro permanenza a Villa Emma. Non era pensabile di rimanere nascosti troppo a lungo a Nonantola; Iding, nonostante non sapesse quando sarebbero cominciati gli arresti e le deportazioni degli ebrei, immaginava che qualora i nazisti fossero venuti alla ricerca dei ragazzi, trovando vuota la villa, non avrebbero certo terminato lì le ricerche e avrebbero rivolto sicuramente le loro indagini nei dintorni. I rifugi dove erano stati sistemati ragazzi e accompagnatori erano dunque solo provvisori ma, per ora, era fondamentale tenere i ragazzi il più lontano possibile da sguardi indiscreti in attesa di una soluzione migliore. «I ragazzi di Villa Emma» rappresentano un caso sui generis. Essi infatti erano stati accolti come rifugiati e non sottostavano, come il resto degli ebrei stranieri presenti nel Regno, ai provvedimenti restrittivi della libertà personale stabiliti dal governo fascista sin dalle prime ore dall’entrata in guerra dell’Italia, nel giugno 1940. Come ha rilevato Klaus Voigt, il fatto che nei documenti comunali e della Questura di Modena i bambini e i giovani del gruppo non risultassero quali “internati civili di guerra”, si dimostrò probabilmente «un vantaggio incalcolabile» poiché nelle prime settimane di occupazione i comandi militari tedeschi richiesero spesso alle questure gli schedari degli stranieri che sapevano essere internati nelle varie provincie. Sebbene la pretesa obbedisse innanzitutto a questioni di sicurezza militare (mantenere gli internati nei luoghi di domicilio coatto evitava che «cittadini di potenze nemiche e in età di combattere, sfuggissero al controllo e, magari, prendessero le armi») il passo che portava queste informazioni anche alla conoscenza della

tutti i tedeschi perciò, non appena videro comparire le uniformi della Wermacht nei paesi in cui risiedevano forzatamente, la maggior parte di essi decisero di far perdere le proprie tracce28. Ciò non valse invece per la

maggior parte degli ebrei italiani. Mentre l’apparizione a Nonantola dei soldati con la croce uncinata ridestò all’istante negli abitanti di Villa Emma il terrore della cattura, la maggior parte degli ebrei italiani non percepì d’essere di fronte ad un rischio così grande e imminente: molti, infatti, pur aspettandosi il peggio, attesero di capire il corso degli eventi prima di prendere la decisione di fuggire. Non era facile riuscire a reagire velocemente al sopraggiunto pericolo: molte erano le variabili che potevano influenzare qualsiasi intraprendenza, dalla scarsità di mezzi e ricchezze (denaro, valori, conoscenze fidate…), «dalla mancanza di spirito di iniziativa, dalla presenza di famigliari malati o anziani, ecc.»29. Quando si

cerca di analizzare le scelte prese dagli ebrei durante il periodo della persecuzione, tutti questi presupposti devono sempre essere tenuti presenti. In Italia, dopo l’8 settembre 1943, la popolazione ebraica fu abbandonata al proprio destino e dovette contare unicamente sulle proprie forze per sopravvivere: fra tutti gli italiani «a seguito della politica di separazione attuata nel precedente quinquennio», gli ebrei erano «i più deboli e più i indifesi»30.

3.1.2 I tedeschi

Fra gli ex bambini nascosti, la scrittrice Lia Levi, è probabilmente colei che nel suo libro autobiografico, Una bambina e basta, con maggior efficacia è riuscita a riprodurre l’improvviso senso di inquietudine che dalle persone adulte non mancò di propagarsi e manifestarsi anche nell’animo dei bambini ebrei.

Lia, un giorno di settembre, tornò a casa felice. Era stata mandata con la sorella a fare la fila davanti alle bancarelle di un mercato romano ed era riuscita ad acquistare frutta e verdura a volontà come mai le era capitato da quando, a causa della guerra, era entrato in vigore il razionamento alimentare. Così, raggiante per l’inaspettata conquista, la bambina si rivolse al genitore mostrando l’abbondante spesa, ma la madre, per tutta risposta,

polizia tedesca preposta alla cattura degli ebrei era assai breve. Cfr. K. Voigt, Villa Emma cit., pp. 188-206.

28 «La mattina del 9 [settembre], dal nord, giunsero a Roana [in provincia di Vicenza] i primi soldati italiani sbandati dicendo che, ormai, i tedeschi erano al passo Vezzena. E il 10 non si vide più nessun ebreo girare per il paese; tutti i cinquanta - sessanta internati si erano dissolti in un baleno - taluni abbandonando le loro umili, povere cose - perché, come ricordano ancora adesso a Canove, “il terrore appariva sui loro visi appena sentivano nominare i tedeschi durante qualsiasi discorso”». G. Mayda, Ebrei sotto Salò: la persecuzione antisemita 1943-1945, Feltrinelli, Milano 1978, p. 64.

29 M. Sarfatti, La Shoah in Italia cit., p. 115. 30 Ibidem.

ebbe nei suoi confronti un atteggiamento distaccato che la sorprese profondamente:

«Mamma, guarda! Guarda!». Perché la mamma ci lancia un’occhiata distratta? Non ci ha capito? Non ci è stata a sentire? Fa di peggio: il suo vago gesto verso di noi è così assente e maldestro che tutta la nostra spesa cade per terra.

«Sono entrati i tedeschi a Roma» ci dice la mamma e non ci guarda più. E intanto sul pavimento di casa rotolano lucide melanzane striate di viola, zucchine polverose, cipolle, melette grinzose. Rotolano tutte e restano per terra dove nessuno le raccoglie.31

I bambini, cogliendo la paura che filtrava dai discorsi e dai comportamenti degli adulti, videro gli occupanti con sguardo assai preoccupato. Cesare Moisè Finzi testimone dell’entrata a Ferrara delle colonne motorizzate tedesche ricorda ciò che provò osservando lo scorrere dei veicoli militari attraverso la città un paio di giorni dopo l’armistizio badogliano:

L’11 settembre, improvvisamente sentiamo un gran sferragliare di mezzi, ed ecco comparire un’intera colonna di giganteschi carri armati che lasciano sull’asfalto enormi solchi. Sono i famosi “tigre” a cui la stampa fascista ha dato, a suo tempo, grande rilievo. Passano alternati ad altri mezzi, pure blindati, ma su ruote normali: le autoblindo. È una parata di potenza militare che a noi mette una grande paura.32

Se la visione delle file di camion, di autoblindo, di motociclette sidecar, di carri armati e soldati era qualcosa di impressionante e pauroso, ciò nonostante, mezzi e uomini militari non mancavano di suscitare anche una forte curiosità. Emanuele Pacifici, ad esempio, assistendo allo schieramento delle forze tedesche nel centro di Torino, più che impaurito fu affascinato dalle armi e dall’equipaggiamento dei militari teutonici. Egli, durante uno dei primi giorni di occupazione, in cammino da solo per Piazza Castello, trovandosi vicino ad alcuni soldati, senza troppo pensarci su, domandò a uno di questi di poter dare uno sguardo attraverso il binocolo che gli pendeva dal collo: il soldato lo lasciò fare e la cosa - sebbene poi al ritorno in collegio divenne fonte di un grande, quanto inaspettato, rimprovero - in quel momento riempì il bambino di contentezza33. I due fratellini Luzzatto,

Giunio e Lucio, rispettivamente di otto e sette anni, sfollati a Camaiore con i genitori e la sorella, prima di nascondersi sulle montagne della Garfagnana,

31 L. Levi, Una bambina e basta, cit., pp. 47-49.

32 C. M. Finzi, Il giorno che cambiò la mia vita, cit., p. 93.

33 «Al mio rientro in collegio riferii con grande entusiasmo ai compagni e alla direttrice quanto era successo. Fu il finimondo! Come primo provvedimento mi fu proibito di uscire, anche se accompagnato; subito dopo fu deciso di vietare l’uscita a tutti quanti». E. Pacifici, Non ti voltare, cit., pp. 44-45.

addirittura riuscirono a prendersi gioco di alcuni tedeschi che ignari della perfetta conoscenza dei due fratelli della lingua tedesca - ai quali però era stata vietata di parlare -, inutilmente avevano cercato di avere da loro delle informazioni: «Ecco ricordo benissimo», racconta Giunio Luzzatto, «che questo per noi era un gioco divertentissimo, cioè il fatto di sentire parlare i tedeschi, di capire tutto! Era un po' come i bambini a teatro che fanno volentieri la scena, e per noi fare la scena di non capire niente era divertente; e ricordo benissimo il momento in cui due tedeschi avevano bisogno di un'informazione e loro cercavano di aiutarsi un po' con le mani come si fa per farsi dire qualcosa da qualcuno di cui non si conosce la lingua, e noi che naturalmente dicevano "Non ho capito, non ho capito...". Ad un certo momento si sono messi a parlare tra di loro, dicendo "Mah c'è tanta gente che

dice che i bambini italiani sono intelligenti ma questi qui sono proprio cretini che non capiscono niente!". E ricordo benissimo quando ci faceva piacere capire

che questi fra loro dicevano che noi eravamo proprio scemi, e invece…».34

D’altra parte, l’immagine dell’efficienza e dell’autorità tedesca faceva da contrasto con quella dell’ormai ex esercito Regio; così sicuri apparivano i militari della Wermacht, così mal ridotti erano i soldati italiani. Anche agli osservatori meno esperti non sfuggiva che, in quei giorni di settembre, quello a cui essi stavano assistendo era la mesta fine dell’esercito delle ‘otto milioni di baionette’35. A riguardo David Schiffer ha tenuto presente il

34 Spiega Luzzatto: «I primi pochi giorni che eravamo rimasti in quel paese di fondovalle, Camaiore, prima di andarci a nascondere, quando eravamo cioè ancora visibili, la grande casa dove eravamo sfollati, che era una casa dove avevamo preso in affitto un piano, in questa casa abbiamo avuto un'esperienza abbastanza divertente, diciamo caratteristica. C'è stato un breve periodo, diciamo poche settimane, fino a che i miei non hanno deciso di andare più nascosti sui monti, in quelle settimane lì, siccome era una grande casa, in parte è stata occupata da un ufficio delle truppe di occupazione tedesche. E lì avevamo questa situazione che mia madre sapeva il tedesco come lingua madre, perché sua mamma era austriaca. Mia mamma da bambina con sua madre parlava tedesco e anche noi da bambini ci avevano insegnato il tedesco perché mia mamma con noi parlava prevalentemente tedesco perché aveva avuto l'idea che in fondo questo bambini possono già nascere con una competenza di una seconda lingua senza fatica e quindi noi in casa quasi sempre con mia madre parlavamo tedesco. Accade che si viene a sapere che questo ufficio ha bisogno di interpreti: mia mamma era terrorizzata dall'idea di essere scritturata come interprete dei tedeschi. Quindi a tutti quelli che conosceva, al nostro padrone di casa, ecc. ha raccomandato di dire a nessuno che lei sapeva il tedesco, e a noi bambini ha detto "Da adesso in poi il tedesco è vietato, anzi, se qualcuno vi parla in tedesco voi dovete

far finta di non capire!"». Intervista a Giunio Luzzatto, Genova, 13 novembre 2008.

35 Davide Schiffer descrive così le scene drammatiche che, a quindici anni, gli si pongono davanti a Cuneo nei giorni dell’armistizio: «In città c’era il caos: soldati che abbandonavano le caserme e lasciavano la città verso tutte le direzioni, depositi militari abbandonati venivano saccheggiate dalla popolazione, bidoni di benzina venivano fatti rotolare dai depositi militari a quelli privati. La confusione era indescrivibile. Nel giro di un paio di giorni a tutto ciò si aggiunse l’arrivo a Cuneo di una fiumana di militari di tutti i corpi e specialità: erano i soldati della 4ª Armata di stanza in Provenza che rientravano alla spicciolata, senza più ufficiali, con ogni mezzo, su camionette, in moto a piedi.[…]. Ricordo un artigliere che su una moto Alce, in dotazione all’esercito, si fermò davanti a casa nostra; era un mostro di fango e di polvere sulla

rapido arresto e la deportazione dal Cuneese dei militari italiani sbandati: «su carri armati, autoblinde, autocarri, motociclette», narra Schiffer, i soldati germanici «in colonna raggiunsero la città e ne presero possesso. Su un’auto scoperta c’era il comandante, impettito, con lo sguardo all’infinito e il classico berretto con la visiera nera. Immediatamente i tedeschi bloccarono il ponte nuovo che portava fuori città e fermarono tutti i soldati che fuggivano. Li ammassavano nella caserma che si trovava sul Lungo Stura, li caricavano sui carri bestiame e li portavano in Germania»36. Franca Polacco,

da parte sua, ha mantenuto vivo il ricordo dei cadetti dell’accademia navale di Venezia trasportati dai tedeschi su grosse barche lungo il Canal Grande37,

mentre Marianne Spier, la nipote di otto anni di Angelo Donati - uno dei diplomatici che si prodigò per il soccorso degli ebrei rifugiati nella Francia meridionale - si rese conto del disfacimento dell’esercito italiano quando osservò il fuggi fuggi improvvisato dei militari dalle caserme prospicienti alle finestre dell’abitazione fiorentina dove era ospitata38.

Di fronte all’evidenza della graduale presa di potere nazista, qualcuno cominciò a temere gravi conseguenze: «Papà ha paura e dice che dobbiamo prepararci a brutte cose, ma non sa neanche lui cosa si debba fare», ha scritto Corrado Israel De Benedetti, ricordando le reazioni avute dal genitore nelle ore successive all’armistizio39.

A casa di Ferruccio Neerman con la notizia della liberazione di Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso s’interruppe bruscamente quella che da un po’ di tempo era divenuta una consuetudine: festeggiare con una torta ogni sconfitta delle armate dell’Asse40.

faccia, aveva le mani nere per la miscela di sudore e gomma dei comandi al manubrio che non mollava da ore. Cercava la strada più breve per Cremona, senza passare per Torino e veniva da oltre Marsiglia. […] I meridionali facevano molta pena perché non potevano sperare di raggiungere casa, eppure molti di loro avevano solo questo pensiero fisso in testa e comunque fuggivano. Ho parlato con molti soldati e tutti dicevano la stessa cosa. Si erano trovati senza ufficiali superiori e senza ordini; pur con un potenziale bellico non avevano avuto altra scelta che il rientro in patria. Triste immagine era veramente quella della gioventù allo sbando». D. Schiffer, Non c’è ritorno a casa… cit., p. 74.

36 Ivi, p. 75.

37 «Nel '43 ad un certo punto dopo l'8 settembre - avevamo la casa in Canal Grande - e mi ricordo che abbiamo visto passare i barconi con tutti i cadetti dell'accademia navale. Li hanno portati via i tedeschi come fossero militari». Intervista a Franca Polacco, Venezia, 24 maggio 2010.

38 «In Italia si verificò un gigantesco caos, un fantastico disordine che si tradusse nella fuga dei soldati italiani a fronte dell’avanzata tedesca. Le finestre della casa di Firenze erano affacciate su una delle caserme cittadine e, il giorno dopo, assistemmo al disastro: i soldati uscivano correndo dalla caserma, strappavano dalle loro uniformi i gradi e le spalline, gettavano vie le armi in dotazione, si svestivano delle divise e disertavano». O. Tarcali, Ritorno a Erfurt, Racconto

di una giovinezza interrotta (1935-1945), L’Hartman Italia, Torino 2004, p. 84 (ed. orig., 2001).

39 C. I. De Benedetti, Anni di rabbia e di speranze, cit., p. 47.

40 «Il 12 settembre venne trasmessa alla radio la notizia della liberazione di Mussolini dalla prigionia del Gran Sasso. A casa tirava aria di disfatta. Eravamo tutti in attesa degli eventi ma,

Molti bambini furono coinvolti dall’incertezza e dalla tensione che divennero palpabili dentro le mura di casa. Per loro questo è un momento di notevole confusione, poiché si affacciarono nuove domande a cui nemmeno gli adulti potevano rispondere:

È mamma a stare più in pensiero. Manlio vive questi eventi in uno stato di agitazione mista a una incoscienza naturale per un bambino. Io sono frastornato: obbiettivamente, non capisco niente. Siamo in pace o siamo in guerra? Siamo occupati dai tedeschi o comandano ancora gli italiani?41

3.1.3 L’oro di Roma

Almeno in un primo momento, i tedeschi stavano mantenendo un comportamento non dichiaratamente ostile, tanto che addirittura non mancò chi si convinse che, anche con i tedeschi, la persecuzione antisemita non sarebbe più di tanto degenerata42.

Poi, dopo i primi incerti giorni di occupazione, nelle settimane seguenti, accaddero avvenimenti che fecero precipitare la situazione degli ebrei nella penisola. A Roma, la pretesa dei tedeschi di cinquanta chili d’oro in cambio della propria salvaguardia furono per la comunità ebraica locale i momenti dell’inganno finale43. Forse pure per questo, gli ebrei capitolini che vissero la

da quello che potevo capire, le cose si stavano mettendo male. Altro che torta! La prossima, se