Pupi Avati è nato a Bologna il 3 novembre 1938. Dopo aver frequentato la facoltà di Scienze politiche s’impiega in una ditta di surgelati e nel tempo libero coltiva la passione del jazz come musicista dilettante e il sogno del cinema per il quale poi abban-donerà la musica, ma mai completamente. Il successo infatti arriva con lo sceneggiato televisivo Jazz Band (1978). Da quel momento è un susseguirsi di titoli indimenticabili, per la tv e soprattutto per il cinema, da Gita scolastica (1983) a Regalo di Natale (1986), da Il testimone dello sposo (1997) a Il cuore altrove (2003) e La seconda notte di nozze (2005) e fino al recente Il papà di Giovanna (2008). L’intervista è stata realizzata nel febbraio 2006.
Pupi Avati. Innanzi tutto perché Pupi: è un nome, un soprannome, un vezzeggiativo?
«Il mio nome è Giuseppe ma sono sempre stato chia-mato Pupi. Mia madre aveva conosciuto un violinista austriaco che si chiamava Joseph ma veniva chiamato Pupi, le piaceva quel diminutivo e così da sempre mi ha chiamato Pupi. Sono sempre stato Pupi, per tutti, anche se fino a quindici, sedici anni mi vergognavo terribilmente di questo nick name».
Ci troviamo nell’appartamento del regista a Roma, in un salotto-studio in penombra dove da un luogo che pare irrintracciabile arriva un sottofondo mozartiano.
Maestro, qual è il luogo dei suoi ricordi di infanzia?
«La casa dove sono nato e dove ho vissuto per molti anni, in via San Vitale 51, proprio nel cuore di Bologna. Durante la guerra in casa erano tutti convinti che se avessero bombar-dato le due torri sarebbero crollate sopra casa nostra».
Lei è nato nel 1938: cosa ricorda della guerra?
«Molte cose, anche se sono cose diverse da quelle che può ricordare un adulto. Sono a volte dei flash, ma ricordo tutto il periodo bellico con molta nettezza. Tutte le fasi. Nel
’43 sfollammo a Sasso Marconi e dopo l’8 settembre mio padre e mio nonno furono costretti a nascondersi per sfug-gire ai rastrellamenti tedeschi. Ma io non provavo paura,
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per me era una grande avventura. Era come vivere in un film anche se allora probabilmente neppure sapevo cosa fosse un film. I grandi uscivano sull’aia di sera e guarda-vano disperati verso Bologna dove cadeguarda-vano le bombe una dietro l’altra, per me invece erano bellissimi fuochi d’arti-ficio. E prima ancora, quando eravamo ancora a Bologna, ricordo le sirene d’allarme antiaereo e noi che correvamo a rifugiarci in cantina. Fu proprio mentre eravamo nel rifugio che morì zia Teta, era malata da tempo. Fu il primo morto che vidi. Finito l’allarme la riportammo in casa e da allora zia Teta è diventata l’archetipo della morte e del suo cerimoniale, la liturgia dell’esposizione in salotto, le can-dele, i cuscini di raso, la finestra aperta. E poi quel fazzo-letto intorno al viso per tenerle ferma la mandibola.
Ricordo che i miei fecero anche venire il barbiere perché negli ultimi tempi a zia Teta erano cresciuti dei pelacci sul viso e il barbiere doveva tagliarli».
Non ci saranno solo ricordi tristi in via San Vitale.
«No, in quella stessa casa ho conosciuto anche la vita, quando nacque mio fratello Antonio. Io avevo otto anni. Le nascite allora erano molto scenografiche: grande movi-mento di lenzuola, di pentole di acqua bollente, di donne che andavano e venivano, l’ostetrica, le zie, la nonna».
Qualche ‘comparsa’ della sua infanzia?
«Il sarto sordomuto che lavorava nel cortile sotto il nostro appartamento. Era un comunista anti-americano sfegatato, ma quando finalmente arrivarono gli Alleati corse in strada e si mise a baciare un carro armato che pas-sava di lì. Lo baciava come fosse una reliquia. Non tentava di comunicare con i soldati, baciava il carro armato, i cin-goli… aveva sperato che a liberarlo venissero i russi ma a quel punto andava bene chiunque. Ah, poi c’era la casa di
tolleranza che vedevamo da una finestra sul retro della nostra casa. Aveva la porta chiodata e la tenutaria posse-deva due cani. Vedevo anche le prostitute che entravano e uscivano. E ricordo quando dopo la liberazione vennero rapate e portate fuori ed esposte al pubblico ludibrio. Pian-gevano, gridavano. Ma della liberazione ricordo anche la grande gioia che si impossessò di tutti. Ogni sera in ogni cortile si ballava. Con la radio o magari c’era qualcuno con la fisarmonica, talvolta addirittura l’orchestrina: e tutti ballavano, a tutte le età. C’erano poche e fievoli lampadine e la gente ballava col cappotto, ma ballava».
Passiamo ai ‘protagonisti’ della sua infanzia, i fami-liari: in casa sua si parlava di politica?
«I miei non erano stati né fascisti né anti-fascisti, come la maggior parte degli italiani si erano adattati alla situa-zione. Però c’era una diversità di origini, di classe, che accendeva molte discussioni. Mia madre era figlia di un operaio e di una contadina e il nonno era stato un sociali-sta molto legato a Matteotti. Mio padre invece apparteneva all’alta borghesia, da quel lato erano monarchici e quindi ricordo la domenica quando i due rami della famiglia si riunivano a pranzo e c’erano discussioni molto accese:
eravamo in pieno doncamillismo».
Come si sono conosciuti suo padre e sua madre?
«Il nonno Avati era un noto antiquario di Bologna. Mio padre, Angelo, era il figlio scioperato, molto bello, molto affascinante, elegante. La mamma era la dattilografa del nonno e come da copione si innamorò del bel rampollo e si mise in testa di conquistarlo. Successe che a metà degli anni Trenta il nonno fallì (giocava ai cavalli) e poco dopo morì, quindi la famiglia si trovò in difficoltà. Mio padre aveva sempre fatto la bella vita, non aveva mai seguito i
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negozi paterni e si trovò a dover mantenere se stesso, sua madre e due sorelle nubili. Forse non ce l’avrebbe fatta se non fosse stato per Ines, la giovane dattilografa che lo scosse: gli stava addosso perché si desse da fare, lo esor-tava. Insomma, la mamma restituì papà alla vita attiva. E lui seppe apprezzare l’energia e l’entusiasmo di quella ragazza e ricambiò il suo amore. Si sposarono e la sorte fu benigna perché in pochi anni papà, oltre a riavviare l’atti-vità antiquaria, riuscì a mettere insieme una delle più importanti collezioni italiane di pittori dell’Ottocento».
Ma quella gioia non durò a lungo.
«No. Nel 1950 mio padre morì in un incidente d’auto. Io avevo 12 anni. Con lui c’era anche la suocera e quindi mia madre perse nello stesso giorno la mamma e il marito.
Noi li aspettavamo a Rimini dove eravamo in vacanza.
Era il 10 agosto e l’incidente accadde a Santarcangelo di Romagna: la stessa data e lo stesso luogo dove fu ucciso il padre di Giovanni Pascoli. La cosa incredibile è che mia madre fin da piccola si metteva a piangere se sentiva certe poesie del Pascoli dedicate al padre – o cavallina, cavallina storna o una rondine tornava al suo nido – e noi per questo la prendevamo in giro, ridevamo di lei, e invece evidente-mente era una sorta di presagio».
E voi come veniste a sapere della disgrazia?
«Mia sorella quell’estate prendeva lezioni di latino e l’insegnante che veniva a casa quel giorno era strano, tur-bato. Era il fratello del comandante della polizia stradale e già sapeva… Ma non disse niente. Noi invece, vedendo che papà non arrivava, pensavamo che non ce l’avesse fatta a partire – non c’era telefono in quella casa – e che sarebbe arrivato il giorno dopo. Nella notte però la mamma sentì qualcuno camminare sulla ghiaia del
giar-dino, avanti e indietro. Allora si affacciò alla finestra: era un amico di mio padre venuto a dare la notizia, ma non aveva il coraggio di suonare al nostro campanello. Ricordo l’urlo di mia madre, mi sembrò che d’improvviso tutte le luci della casa si accendessero con quell’urlo».
Come andò avanti la vostra vita?
«Dopo la morte di papà la mamma, che aveva solo 36 anni, decise di dedicarsi completamente ai suoi tre figli, sebbene molti le consigliassero di ‘rifarsi una vita’ o di
‘darci un papà’. Lei non ne voleva sapere, era molto reli-giosa e pensava che risposandosi ci avrebbe tolto qual-cosa. La ricordo come una donna piacente, molto forte, molto energica, strategica, acuta, perspicace. Ma era come se si sentisse in colpa perché non avevamo il papà e allora faceva di tutto per non farci mancare niente: non poteva accettare che la nostra vita potesse essere diversa da prima. E allora per mantenere il solito tenore… ogni set-timana staccavamo un quadro da quella collezione dei pittori dell’Ottocento a cui ho accennato e la mamma lo vendeva, credo con profitto, tuttavia la collezione con gli anni si è esaurita. Ma in questo sopravvivere alla grande, si è creata una complicità tra noi figli e nostra madre, che ci ha accompagnato fino a quando non se n’è andata, nel 1999. In questo senso siamo stati premiati dall’essere orfani di padre».
La mancanza di suo padre ha dunque permesso che si sviluppasse un legame speciale tra voi figli e vostra madre, tra lei e la sua mamma.
«È stata la figura centrale della mia esistenza e fino all’ultimo mi è stata di stimolo e di incoraggiamento. Al tempo in cui ero giovane la mentalità familiare era carat-terizzata da cautela, dalla ricerca della rassicurazione
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verso l’identità professionale – il lavoro fisso, lo stipendio – in realtà si trattava di una gabbia, di un ergastolo. E infatti noi non abbiamo mai avuto questo genere di sollecitazione, mai. Mia madre non si è mai posta il problema, né l’ha posto a me, non si è preoccupata di cosa avrei fatto ‘da grande’. Ha lasciato che trovassi il mio talento dandomi piena libertà. E grazie al cinema sono riuscito a dimostrare a mia madre che l’investimento non era sbagliato. Non ho difficoltà a dire che avevo un innamoramento per mia madre: è la donna che ho amato di più, per quanto ami moltissimo mia figlia e mia moglie. Mia madre mi ha por-tato per mano per sessanta anni e ancora oggi quando devo prendere delle decisioni faccio riferimento a quello che mi avrebbe detto mia madre. Mi ha insegnato che c’è sempre una strada che è quella giusta».
Non ha avuto molto tempo per conoscere suo padre:
di lui che ricordo ha?
«Nei suoi confronti ho sempre sofferto di un complesso di inferiorità e a questo è dovuta tutta la mia timidezza:
risale a quegli anni. Mi sentivo inadeguato, non ero alla sua altezza, lui era troppo straordinariamente affascinante e io ero convinto di non piacergli, neppure esteticamente. Tra i suoi valori c’era l’aspetto fisico, c’era il lessico, il porta-mento, insomma l’esteriorità. Lui avrebbe sognato – penso – di vedere nel suo primogenito un erede di quello che era lui: bello, grande seduttore. Mia madre era gelosissima di lui perché lui piaceva e gli piaceva piacere. Io avvertivo il suo sguardo critico, non convinto, su di me, e allora la mia goffaggine si accentuava ancora di più. Alla fine in sua presenza risultavo peggiore di quello che ero. È stato un rapporto con molti problemi e tra noi non si è stabilita nes-suna confidenza».
E oggi?
«Mi piacerebbe vedere mio padre tra la gente. Guardo spesso in mezzo alla folla nella speranza di intravedere il suo viso. Mi piacerebbe potergli dire: papà, ho fatto questo».
Molti di questi ricordi li abbiamo ‘visti’ o percepiti nei suoi film. L’infanzia, per il suo cinema, è una fonte importante da cui attingere.
«Fondamentale. Non direi che la fonte sono i ricordi di me bambino, piuttosto la fonte è il bambino che ho tenuto in vita. Ho fatto di tutto perché non sparisse… a volte il bambino attraversa la strada e sparisce in un vicolo e tu ti accorgi che non c’è più quando ormai è tardi. Io l’ho inse-guito ogni volta e l’ho riportato a casa e me lo tengo stretto, attaccato, perché l’infanzia e la prima adolescenza sono le età più prossime al grande immaginario da cui crescendo ci allontaniamo. Nel ragazzino, nel fanciullino – e siamo di nuovo a Pascoli – c’è la parte più libera di noi, quella più autentica e anche quella più vicina al mistero della vita, al luogo da cui proveniamo. Spesso quando mi vedo allo specchio penso che quello non sono io o forse sono io tra-vestito da vecchio».