• Non ci sono risultati.

rane, felci, ghiande, serpenti”

Nel documento comunicazione, giornalismo, mass-media (pagine 97-107)

Dacia Maraini è nata a Fiesole (Firenze) il 13 novembre 1936.

L’esordio nel mondo della scrittura narrativa avviene quando a 21 anni fonda con altri giovani la rivista “Tempo di letteratura”. Nel 1962 pubblica il primo romanzo, “La vacanza”. Si susseguono negli anni romanzi, testi teatrali e raccolte di poesie. Ricordiamo Isolina, La lunga vita di Marianna Ucrìa, Bagheria, Voci, Colomba, Il treno dell’ultima notte. Tra i suoi libri è qui doveroso ricordare E tu chi eri?, una raccolta di interviste a personaggi celebri sui ricordi di infanzia uscito nel 1973. L’intervista che segue risale al dicembre 2005.

Per sapere dell’infanzia di Dacia Maraini si deve innanzi tutto leggere i suoi libri: «Il primo sapore che ho cono-sciuto, e di cui conservo la memoria, è il sapore del viaggio.

Un gusto di bagagli appena aperti: naftalina, lucido da scarpe e quel profumo che impregnava i vestiti di mia madre in cui affondavo la faccia con delizia».

Così scrive, ad esempio, in La nave per Kobe nel com-mento ai diari giapponesi di sua madre Topazia Alliata. Era il 1938. Il padre, Fosco Maraini, etnologo, scrittore, grande viaggiatore, stava portando la piccola Dacia e la moglie in Giappone dove si recava con una borsa di studio per ricer-che sul popolo degli Hainu.

La naftalina e lo spigo evocano i suoi ricordi d’in-fanzia: funzionano come il sapore della madeleine per Proust. Ma il primo ricordo integro, completo di foto-grammi, è, immagino, di alcuni anni dopo.

«Beh, certo – risponde la scrittrice che è appena torna-ta a casa, a Roma, dopo un viaggio di lavoro a Istorna-tanbul – quando partimmo per il Giappone io avevo appena un anno e mezzo, non ero ancora in grado di memorizzare quello che stavo vivendo. La prima immagine che ho di me in quel periodo è a Sapporo. La neve. Neve ovunque. Mi rivedo mentre vado all’asilo e vedo mia madre che spinge la slitta su cui io sto seduta».

100

Come ricorda sua madre all’epoca della sua infanzia?

«Una donna molto bella, forte, decisa ma anche capace di grandi dolcezze. Si dedicava moltissimo a noi anche se né lei né mio padre erano genitori propensi a viziare i figli».

Oggi che rapporto ha con sua madre?

«La vedo spesso, appena è possibile vado a trovarla, pran-ziamo o ceniamo insieme. Siamo sempre andate d’accordo».

Tornando al Giappone, di suo padre cosa ricorda?

«Era spesso assente per i suoi studi e quindi stare con lui era sempre una gioia. È sempre stato molto sportivo e molto avventuroso. Mi vengono in mente soprattutto le gite che facevamo, sul fiume, nei boschi. Poi sci, pesca sportiva… solo nelle scalate non l’ho seguito perché soffro di vertigini, per il resto ho sempre cercato di stargli vicina, volevo che fosse fiero di me».

Nel 1939 nacque sua sorella Yuki e nel ’42 l’altra sorella, Toni. È stata gelosa delle sue sorelle?

«No, erano le mie compagne di giochi, stavamo sempre insieme, facevamo progetti per il futuro. In un paese stra-niero – e come era allora il Giappone, molto diverso dal-l’Europa – noi tre eravamo un importante punto di riferi-mento l’una per l’altra».

In un suo libro recente, Ho sognato una stazione, lei ricorda sua sorella Yuki:

«Mi capita spesso di sognare mia sorella che se n’è an-data anni fa. Mi chiedo, risvegliandomi, quale sia questo luogo da cui sembrano guardarci i morti; questo luogo in cui i nostri cari defunti appaiono più vivi di noi; questo luogo in cui le epoche della vita si confondono con tanta facilità e tanto struggimento».

Suo padre si è spento a 91 anni, nel 2004. Che cosa le manca di lui?

«Negli ultimi anni lo vedevo poco perché lui abitava a Firenze e anche quando lo vedevo lui parlava poco di sé. È sempre stato molto schivo e silenzioso. Eppure mi manca la sua presenza, mi mancano le sue parole, il suo sorriso. La morte chiude la bocca, impone il silenzio e questo silenzio è pesante da sopportare».

E con sua sorella Toni?

«Ci vediamo spesso. Con la sua famiglia, i suoi figli che amo moltissimo. Mi sono stati tutti molto vicini nel periodo in cui sono stata immobilizzata per un problema al ginoc-chio. Vengono spesso qui da me, io cucino per loro».

Lei ama cucinare e ama parlare del cibo nei suoi libri. Anche questo ha a che fare con i ricordi d’infan-zia, in particolare con la fame patita nel campo di con-centramento giapponese in cui fu rinchiusa con la sua famiglia nel 1943?

«Entrambi i miei genitori rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò e quindi fummo internati a Nagoya, per fortuna tutti assieme. Però la fame era disperata: io e le mie sorelle divoravamo qualsiasi cosa passasse a tiro: rane, felci, ghiande, serpenti. Chi non ha provato veramente la fame non può capire cosa significhi il cibo per qualcuno che ne è privato: diventa perfino un feticcio. La mia fervida immaginazione sul cibo viene da lì, come viene da quella pri-vazione la mia abitudine a non buttare via niente che sia commestibile. La fame è un ricordo che non si cancella».

In Ho sognato una stazione, sempre riferendosi al campo di Nagoya, scrive:

«… eravamo abituati a mangiare solo due cucchiai di riso bollito al giorno, ogni tanto una rapa. Eravamo talmente denutriti che i tessuti avevano perso elasticità. Se premevo forte sulla pelle, gambe o braccia, rimaneva un buco».

E non c’era soltanto la fame. In La nave per Kobe racconta:

«La sporcizia, i parassiti, sono cose che umiliano il corpo e lo rendono avido e selvaggio. Ricordo ancora l’avvili-mento per quei vermi che gonfiavano la pancia e venivano fuori dal sedere al posto delle feci che non c’erano perché non avevamo niente da espellere. E rammento la mortifi-cazione per quelle pulci che saltavano nel letto la mattina, grasse del nostro sangue».

Però è stato proprio lì, in quella situazione dram-matica, che la futura scrittrice Dacia Maraini ha impa-rato ad amare le storie, i racconti, quelli che vi faceva vostra madre probabilmente per distrarvi.

«Sognare, viaggiare con la mente, inventare storie era l’unica possibilità di sottrarsi alla terribile esperienza che stavamo vivendo».

Anche il suo amore per il teatro è nato negli anni della giovinezza?

«Quello risale a quando avevo dieci-dodici anni. Nel ’46 eravamo tornati in Italia, in Sicilia. Ma Yuki e io dopo pochi mesi fummo mandate in collegio alla Santissima Annunziata al Poggio a Firenze. Ed è lì che organizza-vamo recite, scriveorganizza-vamo soggetti».

In collegio a Firenze lei e sua sorella Yuki siete rimaste tre anni. Come ricorda quel periodo?

«Come in tutti i collegi c’erano regole severe che irreg-gimentavano la nostra vita. Ma c’erano anche dei momenti in cui si faceva teatro, in cui si giocava tutti insieme, in cui si mangiava in cui si rideva. Alcune amicizie fatte in col-legio resistono ancora. E poi il posto era bellissimo: è la villa del Gran Duca di Toscana, ha saloni affrescati, giar-dini e terrazze magnifiche. Certo, almeno inizialmente ho

102

sofferto di nostalgia, mi mancava mia madre, però mi sono adeguata, adattata. Ricordo che mi divertivo gio-cando a ‘Impero’, una specie di palla prigioniera, in cui ero diventata bravissima».

Sua madre appartiene all’illustre e blasonata fami-glia siciliana degli Alliata di Salaparuta. Suo padre, mezzo fiorentino e mezzo inglese, era figlio di una poe-tessa e di uno scultore. Aristocrazia di sangue e di spi-rito a cui però non corrispondeva una grande ricchezza economica, anzi lei ha scritto che nel dopoguerra, quando dal Giappone siete tornati in Sicilia, eravate molto poveri.

Tuttavia lei e sua sorella foste mandate in un colle-gio presticolle-gioso ma anche riservato ai ‘ricchi’ come è appunto l’Educandato di Poggio Imperiale a Firenze.

«I miei facevano sforzi immensi per pagare la retta e anzi spesso non ci riuscivano, pagavano in ritardo. Io andavo con le scarpe risuolate, avevo un cappotto fatto col mantello di lana pettinata di mio nonno. Desideravo un orologio da polso come le mie compagne di classe e ogni giorno scrivevo a mia madre perché me ne mandasse uno. Ma non c’erano soldi in famiglia. Alla fine, per Natale, mia madre mi mandò una vecchia piccola sveglia piatta e quadrata con due cin-ghiette nuove che dovevano servire per allacciarmela al polso!

Naturalmente non l’ho mai messa, mi vergognavo, però la tenevo sotto il cuscino e di notte mi dava sicurezza».

Dopo il collegio è tornata da sua madre in Sicilia, a Palermo, dove ha frequentato le scuole superiori e dove è rimasta fino ai 18 anni, quando ha deciso di raggiun-gere suo padre a Roma. In Ho sognato una stazione di quell’epoca racconta una gita scolastica a Napoli:

«Ricordo un battello di prima mattina, un ridere di nulla, un ammassarsi eccitato sul ponte. […] Ricordo lun-ghe camminate in fila per due lungo le strade contorte del vecchio centro di Napoli. E le finestre alte e le terrazze ariose del Palazzo Reale, e poi la merenda in un giardino spelacchiato, fra carte unte e odore di mortadella. C’erano alcune ragazze che volevano andare a ballare nel pome-riggio, saltando a pie’ pari il museo di Capodimonte. Altre volevano vedere i negozi. Quante discussioni con un’inse-gnante paziente e gentile che si ostinava a dirigerci verso i musei! […] La giornata è finita in un lampo eppure mi è sembrata lunghissima. È allora che ho imparato quanto la durata dipenda dalla prospettiva. Mentre ci si muove, se si riempiono le giornate di eventi inattesi, luoghi sconosciuti e incontri inaspettati, il tempo ci appare correre più pre-cipitoso ma in prospettiva esso si mostra molto più lungo e pieno».

Ha scritto anche: “Avrei voluto chiamarmi Maria, essere bruna con gli occhi neri, avere due genitori tran-quilli, un padre che uscisse ogni mattina per andare al lavoro e una madre grassa e rassicurante”. Perché?

«Questo accadeva quando ero più piccola. I bambini, si sa, sono conformisti, vogliono essere uguali agli altri. Nella mia famiglia invece era tutto diverso, a cominciare dai nomi, tutti stravaganti: Fosco, Topazia, Dacia, Yuki. E poi eravamo poveri. Mio padre era sempre in viaggio. Ad un certo punto poi i miei genitori si sono separati… In alcuni momenti persino l’essere bionda come una pannocchia era una ‘diversità’ che mi faceva sentire a disagio».

Poi, un po’ come con il tempo, in prospettiva ha ca-pito che quelle esperienze speciali vissute nell’infanzia

104

erano una ricchezza. Come sintetizzerebbe ciò che ha imparato dai suoi genitori?

«Le caratteristiche che ricordo di loro con maggiore ammirazione sono il coraggio, la lealtà, la determinazione.

Non so se sono riuscita a emularli. La migliore educa-zione viene dall’esempio. E loro mi hanno dato un bell’e-sempio di coerenza con le proprie idee e di fedeltà ai pro-pri ideali».

Nel documento comunicazione, giornalismo, mass-media (pagine 97-107)