• Non ci sono risultati.

Il testo ciceroniano del De re publica III 1 Contenuti e font

III. 3. Ambientazione e stile

Per quanto riguarda la cornice scenica del dialogo ciceroniano c’è da dire che lo spazio è tripartito ed è in continuo movimento: l’azione del dialogo, infatti, si svolge fra l’interno della villa, il portico e il prato, luogo, quest’ultimo, deputato al dialogo vero e proprio. Il portico non è quello degli stoici ma è il semplice luogo degli incontri, dell’attesa, dei saluti, non certo il luogo della discussione su scienza e politica. Il prato, allo stesso modo, non assume certamente il valore simbolico del giardino di Epicuro: anzi il prato soleggiato sembra addirittura opporsi agli anguli delle umbratili discussioni epicuree125. Anche il tempo, nello scritto ciceroniano, procede attraverso l’alternarsi di tre momenti che sono l’anticipazione, l’interruzione e la ripresa definitiva dell’argomento proposto. Lo stilema dell’opera è sempre lo stesso: gli ospiti, infatti, arrivano alla spicciolata e in diversi momenti per cui, ogni

125 N

qualvolta giunge un nuovo interlocutore, il discorso iniziato si interrompe, per poi continuare. La conversazione è condotta secondo i dettami di un’etichetta garbata ma rigorosa: nel rapporto tra l’Emiliano e i suoi amici domina il pieno e reciproco rispetto delle gerarchie e delle convenzioni. C’è, inoltre, da rilevare che gli interlocutori sono investiti di una funzione quasi paradigmatica: essi rappresentano simbolicamente l’ideale ascetico della virtù e del dovere politico per cui non presentano quelle caratteristiche di freschezza e di vitalità presenti, ad esempio, nel

De oratore126

. Il primo ospite ad arrivare è Tuberone il quale subito imposta la conversazione sul tema celeste del parhelio127

, ma il discorso è interrotto dall’arrivo di Furio e da quello di Rutilio Rufo. L’attenzione del narratore è rivolta immediatamente a Scipione di cui sono notate, nel tipico stile del dialogo platonico, innanzitutto le azioni quotidiane: Scipione, infatti, subito si accinge a prendere veste e calzari per uscire incontro a Lelio; poi Cicerone passa a descrivere il passeggio solitario di Scipione nel portico e, quindi, il suo accorrere incontro all’amico Lelio quando questi giunge. Questa accurata descrizione sancisce l’amicitia che lega Scipione a Lelio e che è confermata dalla forza evocativa del lessico religioso (coleret, observaret…) utilizzato da Cicerone a riguardo: per questi due personaggi pace e guerra sembrano scandire il tempo della vita ed il reciproco alternarsi dell’onore massimo. Il valore in guerra di Scipione comporta, da parte di Lelio, la venerazione come si deve ad un dio (ut deum): parallelamente l’onore della pace, da parte di Scipione, porta a considerare Lelio come un padre (in parentis loco). Il binomio deus–parens, oltre a possedere un ricco valore simbolico in ambito politico– religioso–giuridico, è complementare a quel potere scaturito dal rapporto sapientia–

prudentia. Scipione e Lelio, in quanto deus e parens, incarnano rispettivamente la ratio e la virtus del cosmo e, dunque, rappresentano le forme dell’armonia: proprio

questo rapporto tra cielo e terra, tra divino e umano è esaltato da Cicerone nella figura dell’Emiliano in una idealizzazione che toccherà il sublime nel libro VI.

126 N

ARDUCCI, Cic. La par. e la pol. cit., p. 330. 127

Fenomeno ottico che è prodotto dalla rifrazione o dalla riflessione della luce da parte di cristalli di ghiaccio sospesi nell’atmosfera. Il parhelio è fonte di numerose credenze e, nell’opera di Cicerone, è riportata l’impressione del momento che vede in esso la contemporanea presenza di un secondo sole (da ciò la definizione di parhelio come doppio sole).

Lelio, poi, torna sulla questione del parhelio e, seguendo la tendenza stoica di cui è appassionato cultore, pone in relazione il fenomeno del “doppio sole” con le due forze politiche rappresentate rispettivamente dall’Emiliano e dai seguaci dei Gracchi128

, venutesi a creare a Roma dopo il tribunato e la morte di Tiberio Gracco: per tale motivo Lelio invita a volgere lo sguardo dal cielo alla terra al fine di risolvere i problemi politici reali. Se, dunque, la cultura filosofica e quella scientifica affinano l’animo e acuiscono l’ingegno, per ristabilire l’unità statale, lacerata dalle lotte interne, niente è più utile che applicarsi allo studio pratico della scienza politica e valutare la migliore costituzione possibile. Su questa linea tracciata dal suo fraterno amico, si innesta il discorso dell’Emiliano il quale, senza avere la pretesa di opporsi alle dottrine dei Greci ma dichiarandosi insoddisfatto di quanto essi hanno scritto sulla scienza politica, parla dello Stato da cittadino romano: egli, dunque, è l’espressione di un’educazione paterna raffinata, frutto non tanto delle opere di scrittori, quanto piuttosto della lunga esperienza politica quotidiana. Ecco che si ripropone, in ambito politico, l’affermazione della pratica sulla teoria.

Il dialogo ciceroniano presenta, in modo fedele, i tratti specifici del ceto dirigente del momento, non ultimo quello della urbanitas: la scelta del codice di lingua e di comportamento dell’opera, che oscilla continuamente tra convivialità e raffinatezza, non è affatto semplice garbo esteriore, bensì fondamento di costumi e di moralità che si nutre di amore per la scienza e per la prassi politica. Per l’appunto di questi valori è pervasa la figura di Scipione a pochi giorni dalla sua morte. Si può notare, nel De re publica, la forte influenza del Fedone platonico sia sotto l’aspetto ambientale che sotto quello stilistico, tuttavia Cicerone innesta, sulla matrice platonica, temi e motivi di derivazione soprattutto stoica: mentre, ad esempio, nel

Fedone e anche nel Critone, gli amici di Socrate sono tutti a conoscenza della sua

imminente morte, Cicerone costruisce l’intreccio del dialogo in modo tale che l’Emiliano è il solo ad essere consapevole, in seguito alla predizione del suo avo, dell’oscura profezia riguardo alla propria imminente e tragica fine. Costruendo in tal modo il proprio dialogo, l’Arpinate elimina dalla scena e dagli animi dei personaggi

128 N

presenti il senso del lutto imminente in modo da concentrare l’attenzione esclusivamente sul tema politico e su quello astrale.

Un altro espediente narrativo abilmente introdotto nel De re publica è il doppio livello di conoscenza, quello di Scipione e quello dei restanti ospiti; la netta superiorità del primo rispetto ai secondi pone in risalto il personaggio di Scipione tanto da farlo apparire come eroe tragico, socratico e stoico: egli diviene così sintesi di tutti i valori della tradizione da Omero fino a Cicerone stesso e, quindi, espressione tipica della cultura romana.

L’intento che sta alla base dell’intera opera resta, dunque, il motivo politico: Cicerone, angosciato profondamente dalla situazione politica del momento che sta portando Roma verso un inevitabile tramonto, costruisce una sapiente cornice teatrale che rievoca e idealizza, quasi nostalgicamente, i sentimenti e la grandezza di quei divini personaggi, come Pompeo e Cesare, ormai lontani dalla effettiva realtà in cui l’Impero versa.

Emergono, dunque, delle analogie tra lo scritto ciceroniano e la Repubblica platonica, prima fra tutte proprio questa comune scelta dell’ambientazione dell’opera in un momento particolarmente difficile e caotico: Platone, infatti, che scrive la

Repubblica tra il 395 e il 368 a.C., colloca cronologicamente il dialogo dopo il

fallimento della spedizione in Sicilia, nell’ultima fase della guerra del Peloponneso. L’esito disastroso di questo conflitto è sentito, dal filosofo ateniese, come la causa scatenante di tutti gli aspri e sanguinosi combattimenti fra i vari Stati che aveva prodotto, a sua volta, la bramosia di poteri personali (siamo circa nel 399 a.C.). Cicerone, allo stesso modo, sceglie di ambientare la sua opera nel 129 quando Roma versa nel più totale disordine causato della degenerazione del sistema politico e dalle continue ribellioni interne. Sembra quasi che entrambi scelgano volutamente il peggior periodo storico per porvi rimedio proponendo, in contrasto con l’oscurantismo storico–politico del momento presente, un modello di perfezione statale cui far riferimento.

Altra analogia tra l’opera ciceroniana e il dialogo platonico, poi, è la presenza del non–tempo (o eternità) la cui sede è il cielo: il tempo della visione celeste si colloca oltre la storia, è qui che è indirizzato lo sguardo dell’Emiliano il quale rimane stupefatto dal perpetuo e perfetto movimento delle sfere e dall’armonia che le

governa. Mentre, però, in Platone la sfera celeste resta ideale ed inattingibile, in Cicerone la rappresentazione celeste si è manifestata ed inverata già nella gloriosa storia di Roma.

Oltre a punti di convergenza, comunque, esistono marcate differenze fra i due dialoghi, d’altra parte lo scopo di Cicerone non è quello di imitare Platone: il principale intento dell’Arpinate è, come egli stesso afferma, quello di ridare nuova linfa alle virtù, alle tradizioni e alla cultura di Roma che si sono inverate nel corso della storia. Così mentre Platone, per ambientare il proprio dialogo, sceglie la stagione primaverile al fine di dare il giusto peso alla celebrazione delle Bendidie129

e ribadire così la sacralità della festa religiosa, Cicerone trascura totalmente le feste in onore di Giove laziale, questo perché egli vuole concentrare l’attenzione dell’opera esclusivamente sul tema politico, evitando ingerenze religiose o di altro genere che avrebbero potuto distogliere il lettore dall’asse teorico portante del suo dialogo.

La differenza maggiore, comunque, che divide le due opere è il carattere ideale dell’una rispetto a quello reale dell’altra. Platone descrive una Repubblica immaginaria corrispondente all’armonia del cosmo, uno Stato che è un modello celeste: a quest’ultimo ogni organizzazione statale terrena deve tendere in una ricerca incessante ed infinita. Cicerone, invece, sostiene non un modello statale ideale quanto, piuttosto, una rifondazione dello Stato romano del recente passato: quest’ultimo non è un ideale irrealizzabile ma una perfezione che è già stata storicamente attuata e che deve essere ripristinata al più presto.