Il testo ciceroniano del De re publica III 1 Contenuti e font
III. 2. Vita pubblica e vita contemplativa
L’elemento speculativo che emerge, nel proemio al libro I, è sicuramente l’opposizione tra la vita pubblica dei politici e quella contemplativa dei filosofi: Cicerone dapprima fa un’elencazione degli uomini illustri che hanno difeso la patria, come ad esempio Catone il Censore118
, poi giunge alla definizione di virtù considerata come il vincolo dato dalla natura che indirizza l’uomo all’amore e alla difesa della patria. Il concetto di virtù, che viene esposto in uno stile elevato in cui retorica e filosofia si sposano sapientemente, continua nel capitolo II che si apre proprio con la netta distinzione tra virtus e ars: non è sufficiente possedere la virtù in potenza se poi essa non diviene atto, anzi, sostiene Cicerone sulla scia di Aristotele, la virtus si differenzia dall’ars (qui da intendere nel suo significato greco di techne, la quale non diviene necessariamente attiva ma può anche essere posseduta come semplice conoscenza teorica) proprio perché la prima coincide, a differenza della seconda, con la sua “attuosità”. Per questo la virtus si manifesta al massimo grado nell’attività di governo che è prassi e che si oppone alla teoria filosofica. Sempre in questo capitolo, inoltre, è presente l’elencazione dei valori ideali che hanno caratterizzato il popolo romano (pietas, religio, aequitas…), questo accentua ulteriormente la divaricazione tra filosofi e legislatori: proprio dal confronto di queste due opposte categorie, la prima incarnante la filosofia greca e la seconda la sapienza giuridica romana, emerge la superiorità del diritto sulla teoresi fine a se
117 N
ARDUCCI, Cic. La par. e la pol. cit., p. 332. 118
Cicerone assimila la propria carriera politica a quella di Catone (Verrinae, II, 5, 180) il quale, però, è avversario politico di Scipione. Su questo controverso accostamento ciceroniano Catone-Scipione si vedano R. GNAUK, Die Bedeutung des Marius und Cato Maior fur Cicero, Berlin 1936; F. DELLA CORTE, Catone Censore. La vita e la fortuna, Firenze 1969.
stessa. Da tale contrapposizione derivano, poi, anche le due tipologie di vita, il bios
theoretikos e il bios praktikos119
che bene simboleggiano i due modelli di vita del tempo e le due categorie di uomini che a questi appartengono: coloro che nutrono la virtù con la prassi (definita da Cicerone usus maximus) portano a compimento nel modo più coerente la finalità della natura umana; viceversa coloro che nutrono la virtù esclusivamente in maniera teorica, sublimando il loro sé nell’otium elitario della vita contemplativa, sono uomini pavidi che, incapaci di affrontare i problemi quotidiani della vita politica, disconoscono di fatto il vincolo con la natura, allontanandosene. Cicerone presenta, poi, la dimostrazione etica e logica dell’errore che sta alla base della vita teoretica (la quale rappresenta una deviazione dalla vera virtù) con argomentazioni sottili e da grande oratore: a differenza dei filosofi che nel chiuso delle loro scuole possono esercitare un’influenza solo su pochissime persone, il legislatore, attraverso l’imperium delle leggi e la pena da esse sancita, può realizzare il buon governo per l’intera comunità. Secondo Cicerone la scuola di pensiero che maggiormente distacca l’uomo dallo Stato è quella epicurea la quale, riposando beatamente nei suoi giardinetti, allontana i propri discepoli dalla vita attiva e pratica dei tribunali120.
Giunto a questo punto Cicerone, però, si arresta e recupera, in un certo qual modo, l’importanza della filosofia e della vita teoretica: il significato di virtus non esclude, infatti, come già l’autore afferma in un altro scritto, l’aspetto contemplativo e meditativo121
. Non sono pratici solo quei pensieri che si originano dall’agire in vista dei risultati, ma anche quei pensieri che hanno in se stessi il proprio fine (cioè quelli della filosofia): agiscono nella prassi, quindi, anche coloro i cui pensieri sono ideatori e creatori delle azioni esterne. Sotto questo aspetto, dunque, la teoria rappresenta la forma più elevata di prassi: in tal modo il telos della virtù è l’atto che fa parte della propria natura, oppure l’atto che si esplica in un’azione esterna (energeia), o anche l’atto che è possesso (habitus) nel senso di teoria che muove l’azione122
.
119 Sulla vita attiva si rimanda a H. A
RENDT, Vita activa. La condizione umana, Milano 2000. 120
CICERONE, De oratore, III, 17, 63–64. 121 C
ICERONE, De finibus bonorum et malorum, V, 21, 58.
122 Riguardo a tutti questi variegati e molteplici aspetti della virtus presenti nel De re publica si veda A. GRILLI, I proemi del “De re publica” di Cicerone, Brescia 1971, pp. 39 ss.
Il proemio al libro III si apre con un elogio riservato ai buoni uomini di governo che hanno vissuto anni difficili caratterizzati da continui mutamenti ma che, grazie alla loro esperienza personale dei fatti politici, sono diventati uomini quasi divini e maestri di verità: questi ultimi, infatti, nutriti di istituzioni e leggi, hanno fondato Stati stabili e duraturi. Queste eccelse personalità rappresentano il compimento della mirabile sintesi delle due grandi virtù quali sono la prudentia, erede della phronesis greca prodotta dal diritto e tipica del mondo romano (tale virtù riguarda la conoscenza di ciò che si deve evitare e di ciò che si deve desiderare), e la
sapientia, l’equivalente della sophia greca che indica la conoscenza sia delle cose
umane che di quelle divine: proprio la sapientia consente a Cicerone di introdurre ed integrare la sfera religiosa con quella politica e con l’agire umano. Il perfetto giureconsulto, dunque, nella concezione ciceroniana, deve essere fornito di una
paideia che contenga tutte le discipline: egli deve essere al tempo stesso oratore,
giurista, storico e filosofo. Cicerone individua questo sincretismo, proprio dell’uomo politico, in una nuova disciplina, la prudentia iuris la quale, oltre a rappresentare il punto di snodo di tutti i saperi, è soprattutto custode autorevole del valore universale dei costumi e delle istituzioni in quanto li mette al riparo dai continui mutamenti e rivoluzioni che caratterizzano la storia. Le virtù che permettono all’uomo di Stato di entrare in rapporto con il divino sono interpretatio, cognitio e eloquentia iuris civilis: attraverso queste egli entra in stretto contatto con gli dèi, con la lingua dei loro segni e dei loro oracoli, di cui l’uomo di governo si pone come veridico interprete123
. In questa prospettiva Cicerone recupera l’elaborazione effettuata dalla tradizione della figura di Numa124
e le assegna una valore paradigmatico: tale figura, infatti, rappresenta la volontà di ricostruire la storia di Roma a ritroso, partendo cioè dal presente per poi progressivamente ricondurla alle originarie forme politiche, religiose e giuridiche dei leggendari primordi. Questo eclettismo dottrinale dell’uomo di Stato
123 Su questa sorta di sacralità attribuita da Cicerone all’uomo di Stato si veda F. D’I
PPOLITO,
Giuristi e sapienti in Roma arcaica, Roma-Bari 1986, p. 92.
124 Si tratta di Numa Pompilio, secondo leggendario re di Roma, che avrebbe regnato dal 715 al 673 a.C. Secondo la tradizione sarebbe stato l’artefice di molte riforme (tra cui si ricordano l’organizzazione del culto, la creazione di collegi sacerdotali, la riforma del calendario), anche se, in realtà, queste ultime sono il risultato di una lunga evoluzione culturale e religiosa. Secondo una tradizione più tarda Numa sarebbe stato consigliato nelle sua opera dalla ninfa Egeria e sarebbe stato discepolo di Pitagora, fatto improbabile considerato l’evidente divario cronologico fra i due.
e questa sua relazione con il divino sono argomenti già presenti nel proemio al libro I: la comunione di ragione e diritto, ossia la contemplazione del vero unitamente alla sua attuazione nella vita personale, nella società umana e in quella divina porta a pieno compimento la perfectio del fine umano. Questo passo fa da preludio alla suprema realizzazione della virtus quale si manifesterà nel Somnium: qui, infatti, lo
ius giungerà al suo apogeo conferendo senso all’agire dell’uomo nell’armonia del
cosmo; il diritto, nello specifico, si riapproprierà dell’antica lingua oracolare e della visione del sogno, sancendo che i buoni governanti, dopo la morte, torneranno a contemplare in eterno la virtù divina. Ecco perché l’Africano, avendo già penetrato con lo sguardo il regno divino e avendo conosciuto l’eterno, fa notare al nipote la piccolezza della terra e la fugacità delle ricchezze e della fama umana: si avverte, in questo passaggio, l’influenza che la dottrina stoica esercita su Cicerone soprattutto per quanto riguarda il disprezzo della ricchezza che, al contrario, Aristotele e Antioco valutavano positivamente in quanto reputati mezzi utili per il raggiungimento di una vita migliore, sia a livello personale che statale.