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Due questioni controverse: la figura del princeps e la proprietà privata dei senator

Il testo ciceroniano del De re publica III 1 Contenuti e font

III. 5. Due questioni controverse: la figura del princeps e la proprietà privata dei senator

Un altro elemento cardine del pensiero politico di Cicerone è costituito dall’utilizzo che l’autore fa del termine princeps il quale è stato oggetto di un vasto dibattito storiografico e fonte di esegesi diverse e spesso contrastanti144. Questo termine sembra, inoltre, generare una ineludibile contraddizione all’interno della riflessione ciceroniana: la costituzione mista, infatti, considerata nel De re publica come la migliore forma di governo, di per sé esclude un monarca unico, detentore di un potere assoluto. Le due questioni, dunque, sono strettamente connesse fra loro: comprendere, infatti, il vero significato di princeps risulta fondamentale per giustificare, in un secondo momento, la sua presenza anche in una prospettiva repubblicana con costituzione mista.

Il termine princeps compare nello scritto ciceroniano allorquando l’autore individua in Scipione Emiliano il perfetto modello di reggente: questi, infatti, è considerato come l’ultimo esempio di buon governante prima che i tempi e i vizi deturpassero e cancellassero le passate virtù. Scipione è definito in vari modi e ognuno dei termini utilizzati assume uno specifico significato: gubernator, indica che Scipione è il timoniere che regola il corso degli eventi al timone della Repubblica;

rector145

e moderator, termini pressoché equivalenti, stanno a significare che egli è la

144 N

ARDUCCI, Cic. La par. e la pol. cit., p. 343.

145 Su questo termine in particolare si vedano K. M. G

IRARDET, Die Ordnung der Welt, Wiesbaden 1983 e PERELLI, Il “De re publ.” e il pens. pol. di Cic. cit., Firenze 1990, pp. 39-44.

guida della città; conservator, poi, si può tradurre con difensore e indica colui che, dopo la morte, tornerà alle sedi celesti per essere stato meritevole in vita. Tutte queste definizioni si riferiscono alla medesima tipologia di persona di cui, di volta in volta, l’autore intende mettere in luce una peculiare caratteristica. Infine, Scipione è definito princeps: l’ermeneutica di quest’ultimo, a differenza di tutti gli altri termini che posseggono una connotazione specifica, è alquanto complessa dal momento che esso si presta, di per sé, ad una molteplicità di interpretazioni le quali, inoltre, sono amplificate dalle gravi lacune che nello specifico lo scritto ciceroniano presenta.

Qual è, dunque, il reale valore semantico che Cicerone attribuisce a princeps? I molti studi critici, a tal proposito, confluiscono sostanzialmente in due opposti filoni. Una prima scuola di pensiero interpreta il termine ciceroniano in questione essenzialmente come sinonimo di monarca assoluto: Reitzenstein146

, ad esempio, sostiene che princeps indichi un uomo superiore agli altri, dotato di una bontà e di una sapienza eccezionali. Qualche altro studio, portando alle estreme conseguenze questa linea ermeneutica, individua in Pompeo colui il quale, godendo del favore del senato, è destinato a instaurare un governo monarchico al di sopra di quello repubblicano147.

Un’altra scuola di pensiero, invece, si oppone categoricamente a questa tesi assolutistica. Heinze148 e Buchner149, individuando nella Repubblica con costituzione mista la vera priorità del pensiero politico ciceroniano, sostengono che l’Arpinate con princeps intenda indicare una persona dotata di un’autorità relativa ma non assoluta rispetto agli altri cittadini.

In effetti, la quasi totalità della recente critica ha totalmente abbandonato l’ipotesi ermeneutica di Meyer e dei suoi seguaci, sposando integralmente l’esegesi opposta: l’identificazione di princeps con un monarca assoluto, infatti, escluderebbe immediatamente una repubblica con costituzione mista.

146 R. R

EITZENSTEIN, Die Idee des Prinzipat bei Cicero und Augustus, in «Nachrichten der Akademie der Wissenschaften in Gottingen», 1917, pp. 399-436 e 481-498.

147 Si veda, a tal proposito, il lavoro di E. M

EYER, Caesars Monarchie und das Prinzipat des

Pompeius, Stuttgart-Berlin 1918.

148 R. H

EINZE, Ciceros Staat als politische Tendenzschrift, in «Hermes», 1924, pp. 73-94. 149 K. B

UCHNER, Der Tyrann und sein Gegenbild in Ciceros Staat, in «Hermes», LXXX, 1952, pp. 342-371.

Nelle intenzioni di Cicerone, dunque, tale termine non sembra indicare un monarca in senso stretto quanto, piuttosto, una persona dotata di un prestigio e di un potere superiori a quelli di tutti gli altri cittadini: è proprio in questa prospettiva che Lelio definisce Scipione principem rei publicae. Cicerone, inoltre, compie un confronto tra Scipione e Pericle a proposito dell’espressione princeps civitatis: quest’ultima definizione trova perfetta corrispondenza con il protos aner di Tucidide, ossia con il primo cittadino che è tale per autorevolezza, eloquenza e capacità politiche. L’immagine di princeps, dunque, può essere figura della costituzione mista, in cui i vari organi di potere sono fra loro perfettamente equilibrati come lo sono i diversi suoni che si accordano in un’unica armonia. Questo carattere privilegiato del “primo cittadino”, comunque, esclude la preminenza del singolo e il regime personale fondato sull’arbitrio: mai, in Cicerone, il condottiero diviene tale attraverso una supremazia illegale e violenta. Il reggente, dunque, non è dotato di potere superiore ed extracostituzionale ma rientra nelle strutture repubblicane tradizionali e, come tutti, ne rispetta le leggi: la nuova Repubblica ciceroniana prevede, quindi, un princeps rispettoso degli equilibri sociali, ma fornito di un’auctoritas superiore ai poteri costituiti150. In un passo del Somnium l’Africano predice al nipote la necessità che questi, una volta rientrato in patria, assuma le vesti di dittatore in modo da ristabilire l’ordine statale: da questo si può dedurre che la dittatura sia considerata, da Cicerone, una necessità politica che si può attuare legittimamente solo in casi eccezionali (come quello in cui si trova nella circostanza Scipione). Insomma il princeps ciceroniano va considerato un’astrazione tipologica piuttosto che una figura storicamente determinata: la sua importanza deriva direttamente dall’esigenza di conservazione di un determinato equilibrio sociale in un periodo di acutissimi contrasti cui si può porre rimedio solo ricorrendo ad un regime ben saldo nella propria autorità151

.

In definitiva Scipione, pur considerando inizialmente la monarchia il migliore tra i regimi possibili, in seguito sostiene che la sua degenerazione conduce alla

150 L. C

ANFORA, Sul princeps ciceroniano, in Cicerone. Sullo Stato, Palermo 1992, pp. 9-25. 151 Si vedano a riguardo P. A. B

RUNT, La caduta della Repubblica romana, Roma–Bari 1990, pp. 162 ss.; J. L. FERRARY, The Statesman and the Law in Cicero’s Political Philosophy, in A. Laks, M. Schofield, Justice and Generosity. Studies in Hellenistic Social and Political Philosophy, Cambridge 1995, pp. 50 ss.

tirannide la quale, all’opposto, è la peggior forma di governo in assoluto: proprio questa riflessione lo induce alla conclusione di considerare la costituzione mista come la forma di governo più equilibrata. Questo specifico ruolo assegnato da Cicerone al princeps giustifica, al tempo stesso, anche la sua presenza all’interno di una Repubblica con costituzione mista.

Un’altra contraddizione a cui Cicerone pone sapientemente rimedio la si rileva nel libro III, allorquando è affrontata la questione della giustizia e delle leggi su cui uno Stato deve fondarsi: mentre, infatti, nei primi due capitoli l’autore ha potuto affrontare i temi della concordia e della giustizia da un punto di vista stoico, adesso si trova in un certo imbarazzo in quanto l’argomento lo conduce, inevitabilmente, a porsi come difensore della proprietà privata la quale è, invece, considerata negativamente dallo stoicismo. Cicerone, infatti, concepisce lo Stato come una Repubblica in cui il consilium, cioè il senato, è formato da cives optimi i quali sono locupletes, possidenti: da qui la necessità di una costituzione che tuteli l’aristocrazia e, di conseguenza, la proprietà privata dei senatori. In precedenza, l’Arpinate, in piena linea con la dottrina stoica, aveva considerato il saggio come colui che disprezzava ogni ricchezza e bene materiale, ora si trova a dover difendere la proprietà privata dei senatori: Cicerone evita di cadere in contraddizione sostenendo che tali uomini, essendo in possesso di saggezza (sapientia) e disinteresse (abstinentia), sono individui eccezionali: essi, a differenza di tutti gli altri, sono in grado di utilizzare le ricchezze per il bene comune e non certo per l’utile personale. Inoltre, pur essendo tutti gli uomini uguali, ciascuno esercita comunque il diritto su ciò che gli è toccato in sorte per antico possesso: in questo Cicerone si oppone a coloro che propongono leggi agrarie che prevedono la ridistribuzione dei beni e delle ricchezze. Ogni uomo deve conservare quello che gli appartiene perché questo gli è stato assegnato dalla natura per antico possesso: privare costui della sua proprietà, per ridistribuirla fra tutti, è iniquo in quanto va contro natura. Dopo questa parentesi, il capitolo ritorna nuovamente su topoi di ascendenza stoico–cinica quali l’autosufficienza del saggio, la sua tranquillità d’animo, il suo sguardo rivolto al cielo: se a Scipione, che coniuga assunti zenoniani con quelli di Panezio, questa multiforme e variegata visione filosofico–politica serve per giustificare sia l’imperialismo romano che l’assetto costituzionale della repubblica aristocratica, per

Cicerone essa rappresenta un provvidenziale soccorso che gli permette di risolvere la contraddizione in cui ha rischiato di scivolare152

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Mentre Zenone, infatti, ipotizza un universo in cui tutto è determinato dal

logos (il che preclude ogni libera azione da parte dell’uomo), Panezio, pur

conservando la concezione stoica per cui tutti gli uomini sono ugualmente partecipi alla natura divina, sottolinea, al tempo stesso, la diversità propria di ciascuno di rapportarsi al divino: ogni uomo, in questa prospettiva, aderisce all’ordine divino universale portando a compimento la particolare virtù di cui è stato dotato. Esistono, quindi, uomini e nazioni che per natura sono adatti a comandare e altri che, al contrario, sono atti a servire: trasponendo il medesimo principio in campo statale, ogni uomo occupa all’interno dello Stato il posto che la natura gli ha assegnato e, poiché la legge di natura è eterna ed immutabile, l’organizzazione dello Stato non può che tradursi in un permanente immobilismo sociale.