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L’eclettismo filosofico di Cicerone

Il testo ciceroniano del De re publica III 1 Contenuti e font

III. 6. L’eclettismo filosofico di Cicerone

Emerge, dunque, in modo inequivocabile il carattere eclettico che anima la speculazione ciceroniana, eclettismo che trae origine dal particolare periodo storico- politico in cui Cicerone vive. Un ruolo essenziale nella formazione speculativa ciceroniana lo gioca, comunque, la più antica scuola ateniese di filosofia fondata da Platone, l’Accademia. Quest’ultima inizialmente era capeggiata da Filone di Larissa (seguace dello scetticismo di Clitomaco e Carneade) il quale ebbe come miglior allievo Antioco di Ascalona che per lungo tempo condivise la posizione scettica del maestro. Nel corso del tempo, però, Antioco si staccò progressivamente dall’impostazione filosofica di Filone e tentò di superarla proponendo un ritorno all’antico dogmatismo platonico. La speculazione filoniana, infatti, muove dalla distinzione tra evidenza e percezione: il fatto che le cose raggiungano l’evidenza allorquando sono presenti nella mente, non significa che esse siano di per sé percepite; non essendoci, quindi, un segno distintivo della percezione, il vero ed il

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falso possono rientrare esclusivamente nella sfera della probabilità. Pur negando la possibilità per i sensi e la ragione di raggiungere un sapere rigoroso, Filone, comunque, riconosce all’uomo la capacità di conseguire un soddisfacente grado di certezza attraverso la ricerca di ipotesi più probabili di altre. I discorsi sufficientemente probabili, in questa prospettiva, consentono la formulazione di una teoria etica compiuta: in tal modo la concezione filoniana, superando l’estremismo scettico che si fondava sulla totale sospensione dell’assenso, dà vita ad una forma di scetticismo più conciliante ed eclettica. In opposizione al probabilismo scettico del maestro, Antioco propone un eclettismo di prevalente impostazione stoica: egli sostiene che in assenza di una certezza assoluta non è possibile stabilire la probabilità. Il fatto che una cosa sia più probabile di un’altra, infatti, presuppone all’origine necessariamente un criterio di verità.

Di tale diatriba interna all’Accademia Cicerone non è solamente fedele cronista ma anche attivo partecipante, in quanto dapprima allievo di Filone e poi di Antioco. La posizione filosofica ciceroniana risente delle speculazioni di ambedue i suoi maestri e questo la rende particolarmente complessa in quanto oscillante continuamente tra le tesi filoniane e quelle antiochee: da un iniziale adesione allo scetticismo di Filone, evidente nelle prime opere retoriche, Cicerone successivamente si avvicina in modo deciso ad Antioco, come si evince dalle opere degli anni cinquanta quali appunto la Repubblica e le Leggi; infine ritorna, negli ultimi due anni della sua produzione filosofica, alle posizioni filoniane. Senza voler ricorrere a categorie definite, si può in linea di massima affermare che Cicerone da un lato conservi uno scetticismo probabilista di matrice filoniana in ambito gnoseologico, dall’altro si appelli al contributo dei maggiori filosofi, tra cui naturalmente Antioco, per sostenere l’universalità dei principi in campo etico e l’esistenza degli dèi e dell’anima (sebbene non dimostrabili razionalmente). Tuttavia l’Arpinate non appare mai né totalmente scettico, né supinamente antiocheo, ma in ogni sua opera è sempre presente qualche tratto originale finalizzato a tradurre le varie dottrine filosofiche in un sapere socialmente utile e concreto. La vicinanza alle posizioni accademiche, inoltre, giustifica anche la presenza dei molti topoi pitagorici e neopitagorici.

Da Platone, poi, Cicerone riprende il modello del filosofo che non trascura mai di pensare alla comunità dei cittadini: per il romano, impegnato nella vita politica, il vantaggio della filosofia platonica su ogni altra competitrice, su questo punto, sembra netto. L’Arpinate da Aristotele riprende la capacità di argomentare sia a favore sia contro una tesi (utramque partem). Cicerone, inoltre, tenta di attenuare l’arcaico mos maiorum, fatto proprio dalla dottrina stoica, rivisitandolo e presentandolo in una forma meno rigorosa al fine di renderlo proponibile nella realtà a lui contemporanea. Lo sforzo dichiarato di Scipione è, al tempo stesso, quello di superare sia l’astrattezza con la quale Platone ha edificato a tavolino la sua città ideale, sia l’empirismo di stampo peripatetico che si è limitato a raccogliere ed analizzare le costituzioni delle diverse città senza tuttavia procedere alla costruzione di modelli della loro evoluzione e delle loro trasformazioni153

. E’ in tal modo che Cicerone elabora un compiuto sincretismo dottrinale che, come visto, sfocia in un eclettismo estremamente ricco e variegato: la grandezza dell’Arpinate risiede appunto in questo, ossia nella sua capacità di veicolare, in ambito latino, i contenuti acquisiti dalla filosofia greca, ordinandoli secondo un disegno ragionato, esaustivo e sistematico.

Il punto di approdo di questo complesso progetto ciceroniano è rappresentato dalla mistica escatologica e contemplativa del Somnium154 il quale, sotto l’influsso di suggestioni pitagoriche e platoniche, offre la soluzione definitiva del dilemma prospettato in apertura del dialogo, cioè se sia migliore e più desiderabile la conoscenza della natura o quella delle attività umane. Inizialmente Scipione sembra farsi sostenitore della propensione socratica a mettere da parte i fenomeni celesti (come quello del “doppio sole”) e a concentrare l’interesse sull’uomo; successivamente, però, Scipione stesso riconosce, sulla base delle indicazioni fornitegli dal nonno adottivo nel libro VI, che è l’intero universo la vera patria dell’uomo: dinanzi all’immensità e alla grandezza del cosmo ogni elemento terreno diviene trascurabile e insignificante. Questa continua insistenza sulla precarietà delle cose mondane ha come preciso scopo quello di svuotare l’animo del politico da ogni

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ARDUCCI, Cic. La par. e la pol. cit., p. 336.

154 Due commenti importanti al Somnium Scipionis sono quelli di P. B

OYANCE’, Firenze 1966 e quello di F. STOK, Venezia 1993.

ambizione e brama personale, in questo modo l’attività politica diviene un servizio esclusivamente finalizzato al raggiungimento dell’utile comune: l’abnegazione dell’uomo di Stato, in questa prospettiva, raggiunge un grado di eticità quasi ascetica. Il forte senso morale che anima gli scritti ciceroniani di questo periodo raggiunge un grado di importanza, in ambito politico, elevatissimo: nel De re pubblica una questione ricorrente, ad esempio, è quella dell’esaltazione del rigore dei costumi romani che è contrapposta alla dissolutezza di quelli greci155

. Addirittura, nel libro IV, è presente un’aspra critica all’antica commedia ateniese la quale demanderebbe, secondo Cicerone, il giudizio sulla moralità dei cittadini al capriccio dei poeti piuttosto che ai magistrati. Anche nell’altro scritto ciceroniano di questo periodo, il

De legibus, il principio a fondamento della giustizia sociale è individuato nella

pubblica moralità derivante, in questo caso, dalla religione156

: Cicerone rivisita e riattualizza in chiave razionalistica gli arcaici dettami religiosi, prevedendo anche la pena capitale per chi non obbedisce alle prescrizioni sacre.

Questa stessa dimensione etica, che pervade sia la concezione politica del De

re publica che quella del De legibus, è riscontrabile in ogni altro ambito di ricerca

ciceroniano: ecco perché l’Arpinate, non potendo accantonare la filosofia, continua ad oscillare e a ricercare una sintesi tra quest’ultima e la politica, tra la vita teoretica e quella pratica.

Il contributo di Cicerone alla filosofia, in definitiva, non risiede tanto nella sua originalità speculativa, quanto nella qualità di contenuti ed informazioni che egli ci ha lasciato in eredità per la conoscenza della filosofia ellenistica. D’altra parte il principale scopo ciceroniano, in ambito filosofico, è quello di illustrare ai propri concittadini il dibattito svoltosi tra le diverse scuole ellenistiche: questo rende inevitabile che le sue opere filosofiche siano ricche di resoconti ed opinioni. Il maggiore vanto, in questo senso, che lo stesso Cicerone si attribuisce è quello di aver fornito un ripensamento delle varie correnti speculative ellenistiche: questo ha permesso alla cultura romana di colmare il divario culturale, in campo filosofico, con

155 Sulla critica dei costumi nel De re publica si rimanda a P. D

ESIDERI, Modello greco e modello romano di educazione secondo Cicerone, in «Poikilma. Studi in onore di M. R. Cataudella»,

La Spezia 2001.

156 Sulla legislazione in ambito religioso si veda F. F

ONTANELLA, La I orazione ‘de lege

agraria’: Cicerone e il senato di fronte alla riforma di P. Servilio Rullo (63 a.C.), in «Athenaeum»,

quella greca. Sicuramente il sapere filosofico non assume, nella visione ciceroniana, un carattere professionale in quanto esso resta uno degli elementi che contribuiscono alla salvaguardia dello Stato: d’altra parte la filosofia, che nasce per Cicerone dalle ceneri dell’eloquenza che la dittatura di Cesare aveva soffocato, rappresenta soprattutto un conforto e un modo di continuare la sua battaglia per il rinnovamento della futura res publica157

.

157 Sulla natura dell’impegno filosofico di Cicerone si veda G. C

AMBIANO, Cicerone e la

necessità della filosofia, in E. Narducci, Interpretare Cicerone. Percorsi della critica contemporanea,

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APITOLO

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