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Gli assi teorici portant

Il testo ciceroniano del De re publica III 1 Contenuti e font

III. 4. Gli assi teorici portant

Dopo questa rapida disamina del contesto storico e ambientale dello scritto ciceroniano e del suo carattere stilistico e tematico generale, passo a delineare alcuni assi teorici portanti del pensiero politico di Cicerone che sono a fondamento del suo

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Feste in onore della dea Bendis (antica divinità tracia della Luna identificantesi con la greca Artemide) che, come si deduce da un passo della Repubblica di Platone, si celebravano sul Pireo presso un tempio chiamato Bendideion. Queste feste consistevano in una processione e in una veglia notturna che poi culminava con la lampadredomia, ossia in una corsa a cavallo con fiaccole.

scritto130

. Un primo punto di una indubbia pregnanza concettuale è quello di “Res

publica res populi” che, nonostante i molti secoli trascorsi, conserva pressoché

integre la propria forza e la propria efficacia politica131

. Sostenere che “la cosa pubblica sia la cosa del popolo”, infatti, implica immediatamente la divisione tra bene pubblico (che ogni governante deve perseguire) e bene privato: questa distinzione, ereditata dalla nostra costituzione, resta un pilastro della giurisprudenza attuale. Seguendo fedelmente il metodo socratico-platonico, Scipione, su invito di Lelio, comincia il suo discorso partendo dalla definizione di res publica res populi, in modo da sgomberare subito il campo da eventuali fraintendimenti a riguardo132

. Etimologicamente publicus è estratto dalla radice di populus; il fatto che i due termini siano uniti dalla copula li rende del tutto interscambiabili come in un’equivalenza: illam rem populi, id est rem publicam133

. Da quanto detto deriva che

populus è l’essenza dello Stato e che res publica, in quanto res populi, coincide con

il sistema politico e, dunque, con la collettività, ossia con il pubblico: popolo è inteso, nello specifico, in senso organicistico ossia non come una massa confusa di persone, ma come un insieme reso coeso dal vincolo dello ius che armonizza la struttura sociale proprio attraverso la condivisione dell’utile comune. Con questa definizione volutamente tautologica tra res populi e res publica Cicerone intende insistere sull’elemento pubblico in modo da differenziarlo da quello privato il quale deve rimanere sempre subordinato al primo: ogni istituzione, in quanto la propria essenza è pubblica (cioè del populus), non può essere amministrata come se fosse un bene privato ma, al contrario, colui che governa deve avere come fine sempre il bene comune. L’organizzazione statale, quindi, deve fondarsi sul populus e, quindi, sul diritto e sul bene della collettività: lo Stato ideale, dice Cicerone, è quello romano in quanto, a differenza di quello greco, non è l’opera di singoli legislatori ma il risultato, maturato nel tempo, dell’azione collettiva del popolo, della consuetudine (usus) e dell’esperienza (vetustas) di molti.

130 Un commento che ha per oggetto i passi più significativi del De re publica è quello di E. G. ZETZEL, Cambridge 1995.

131 M. V

IROLI, Repubblicanesimo, Bari 1999, pp. VII-VIII. 132 C

ICERONE, De re publica, I, 25, 39. 133 Ibid., III, 31, 43.

Altro concetto cardine della riflessione politica ciceroniana, poi, è quello dell’universalità della legge che è trattata nel libro III: qui Lelio, di contro alle argomentazioni di Carneade134

riprese da Filo, sostiene che la legge, in piena corrispondenza con la retta ragione (che è immutabile, eterna e uguale presso tutti i popoli), deve necessariamente essere universale. Evidenti, ancora una volta, sono gli influssi stoici su questa concezione di Cicerone: il panteismo stoico, in questo frangente, prevale sul relativismo scettico per cui la ratio, essendo al tempo stesso

natura, deus e logos, consente alla legge (faccia speculare della stessa ragione) di

unificare in una sola concezione le tre possibili teorie del diritto, ossia legge di natura, legge di ragione, legge divina. Ma dove si trova questa legge universale? Cicerone risponde che essa è insita nell’uomo: quest’ultimo, infatti, reca in sé l’impronta della legge divina, suprema, universale per cui è compito dell’uomo stesso portarla alla luce, evitando che queste scintille (igniculi) divine rimangano soffocate dalla corruzione e dalle passioni. Colui, dunque, che non obbedisce a questa legge naturale fugge da se stesso e rifiuta la propria natura di uomo (questa stessa concezione è presente anche in un altro scritto ciceroniano, il De legibus): attraverso la ragione l’uomo porta alla luce ciò che il dio gli ha inserito nell’intimo, in tal modo ognuno aderisce alla norma morale che ha inscritta dentro di sé, non perseguendo altro fine che quello della norma medesima. Questa unione tra ratio, ius e natura è sancita dalle parole presenti in De re publica, III, 22, 33: “la legge è la suprema ragione, insita nella natura, che ordina all’uomo ciò che deve fare e proibisce il contrario…il diritto deve trarre origine dalla legge la quale è l’essenza della natura, la mente e la ragione del saggio…(tale legge) è suprema ed è uguale in ogni tempo in quanto è nata secoli e secoli prima che si formasse qualsiasi Stato”.

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Carneade, ispirandosi alla migliore tradizione dell’illuminismo sofistico, parte da una concezione relativistica delle credenze, dei costumi, delle istituzioni presenti nei diversi popoli: di qui procede alla negazione del diritto naturale e al riconoscimento puramente convenzionale della legge e della giustizia. Egli individua, dunque, il fondamento di ogni diritto negli esclusivi rapporti di forza ed è solito sostenere che “nessuna nazione è tanto stolta, da non preferire dominare ingiustamente piuttosto che servire nel rispetto della giustizia”. A conferma della esattezza della propria concezione Carneade porta ad esempio l’imperialismo romano che è stato causa della totale distruzione di Cartagine e di Corinto: il tentativo di giustificare l’espansionismo romano da parte di Lelio (che nello specifico, richiamandosi a Panezio, fonda la propria tesi sul diritto naturale e universale) non appare del tutto convincente. Riguardo a questa disputa si ricordano i contributi di J. GLUCKER, Carneades in

Rome: Some Unsolved Problems, in J. G. F. Powell, J. A. North, Cicero’s Republic, London 2001 e di

L’uomo, in definitiva, non può che accettare tale norma poiché la legge universale, essendo presente nella coscienza personale di ogni uomo, fa parte della coscienza comune del genere umano per cui rifiutarla significherebbe rinnegare la propria natura: ecco il motivo per cui solo la legge che rispetta la norma morale deve essere obbedita in quanto solo essa risponde al diritto naturale ed universale. Quest’ultimo, inscritto in tutti gli uomini, li indirizza per mezzo di una forza innata la quale è emanazione della retta ragione, la cui fonte è il sommo bene morale, cioè dio. Ecco, dunque, il motivo per cui tale legge non fa distinzione di razza e di condizione sociale ma, al contrario, tende ad unire in un unico Stato tutti gli uomini che desiderano rispettarla ed intimamente onorarla, prescindendo dalla speranza di premi e dal timore di pene. Nel libro IV Scipione, riprendendo questa concezione, spiega che accanto alla giustizia, di per sé insufficiente a garantire la stabilità delle leggi e assicurare la felicità di uno Stato, occorre affiancare altri valori: l’amore per la virtù, l’obbedienza della legge, il rispetto per il culto. Proprio da tutto questo deriva l’importanza dell’educazione dei giovani, le cui qualità morali devono essere tutelate dagli onesti costumi familiari, dagli esempi di rettitudine dei politici e dalla condanna di tutto ciò che contribuisce alla decadenza etica ed è strumento di corruzione.

Cicerone, dietro questa articolata costruzione metafisica, cela una finalità pragmatica: per evitare che lo Stato, a causa delle feroci lotte intestine tra le diverse parti politiche, perda quell’armonia e quella concordia interne e cada nel caos, postula una legge naturale, universale e divina che, nella sua eterna immobilità, garantisca una permanente stabilità politica.

Altro elemento fondamentale della concezione politica del De re publica è quello relativo all’anakyklosis135

, ossia l’avvicendarsi ciclico del tempo: i Greci avevano, in generale, una concezione ciclica del tempo per cui la legge di natura prevedeva, come sostiene Polibio nelle sue Storie, quattro fasi ossia nascita, crescita, morte, rinascita136

. Naturalmente l’ordine ciclico caratterizzava tutti gli aspetti umani e, dunque, anche le forme di governo: Platone indica con il ciclo non il giro incessante delle forme di governo e il loro peggioramento ma, al contrario, la crescita

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Sull’utilizzo di questo termine da parte di Polibio si veda F. W. WALBANK, A Historical

commentary on Polybius, Oxford 1957, pp. 658 ss.

136 G. S

ASSO, La teoria dell’anacyclosis, in Machiavelli e gli antichi e altri saggi I, Napoli 1987, pp. 3-65.

di uno Stato che genera nature sempre migliori; uno Stato che procede crescendo come una ruota137

. Cicerone non può naturalmente accettare questa positiva visione platonica in quanto l’andamento ciclico crea mutamenti e questi sono la causa principale dei conflitti interni: come visto, invece, nella concezione ciceroniana, solo l’immobilità di una legge eterna può garantire stabilità allo Stato. Tuttavia, nonostante questo, Cicerone individua non nella ciclicità delle forme di governo la causa della loro degenerazione quanto, piuttosto, nell’eccesso di potere (pleonexia): in questo senso sono due i casi da evitare, il primo è quello in cui la res non è distribuita equamente per cui viene a mancare l’equità (aequitas); il secondo è il caso opposto ossia quello in cui si ha troppa libertas. La degenerazione politica, infatti, può avvenire sia per l’eccesso di potere di chi governa, sia per l’eccesso opposto, ossia per l’uguaglianza assoluta ed indiscriminata: non a caso la concezione ciceroniana individua nella democrazia il peggiore regime tra i tre possibili. L’autore nel De re publica riprende la concezione ellenica di uguaglianza aritmetica e proporzionale: i Greci, infatti, erano soliti distribuire la res oltre che per “uguaglianza aritmetica”, per cui le timai erano ripartite in modo eguale per tutti, anche per “uguaglianza geometrica”, per cui la res doveva essere distribuita tra il popolo secondo precisi rapporti proporzionali valutati in base al merito, al censo, alla nobiltà di nascita, alla cultura e all’educazione; in quest’ultima prospettiva ogni cittadino aveva la propria time. Scipione individua nella costituzione mista la migliore forma di governo in quanto essa contempera, in maniera equilibrata, tutte e tre le forme primarie: tale costituzione, infatti, ripone i principi di potestas,

auctoritas e libertas rispettivamente nei poteri dei consoli, del senato, del popolo.

C’è, poi, un’altra ragione di natura generazionale per cui questa quarta forma di governo è da preferirsi rispetto alle altre: essa, essendo il risultato della saggezza empirica degli antenati, è maturata nel corso di diverso tempo e non è stata l’opera di un solo legislatore o di una sola generazione. La forma mista, quindi, si è perfezionata nel corso di parecchie età e per virtù di molti uomini degni. L’analisi

137 P

ciceroniana sulle forme di governo poggia su una molteplicità di fonti greche138 , tuttavia quella che spicca maggiormente è Polibio: quest’ultimo è scelto non tanto per l’originalità del suo pensiero quanto per l’esame storico che conduce sulla costituzione romana e sul confronto di questa con quelle elleniche139

. Lo storico greco considera Licurgo un uomo quasi divino in quanto egli, riunendo in un unico sistema misto le virtù e le peculiarità delle tre migliori forme di governo, ha potuto provvedere alla concordia dei cittadini, alla loro sicurezza e libertà: nonostante questo, comunque, Polibio riconosce la superiorità della costituzione romana la quale, attraverso la mirabile equità raggiunta per mezzo del perfetto intreccio tra consoli, senato e comizi, si è prefissa uno scopo elevato, quello di porsi come guida di molti e far convergere su di sé gli sguardi di tutti. Tuttavia, nonostante il perfetto equilibrio raggiunto, neppure la costituzione romana può sottrarsi alla legge naturale e biologica di crescita, nascita, morte, cosicché una volta raggiunto il suo culmine anch’essa, a causa dell’avidità di potere, è destinata a degenerare precipitando nella rovina e mettendo in luce il symphyton kakon, ossia il male connaturato che è il vero artefice del mutamento e, dunque, della degenerazione di ogni cosa. La concezione polibiana, come anticipato, è deterministica in quanto prevede che le forme costituzionali e il loro alterno susseguirsi siano governati da un ciclo biologico rigoroso e quasi meccanico: la monarchia degenera in tirannide; il successivo governo aristocratico si trasforma in predominio oligarchico; a quest’ultimo fa, poi, seguito un regime democratico che rapidamente precipita nell’anarchia. In una tale visione è preclusa la possibilità di qualsiasi intervento umano che possa regolare il corso degli eventi: come l’astronomo, pur essendo a conoscenza delle traiettorie dei corpi celesti, non è in grado di modificarle, allo stesso modo l’uomo politico non può far altro che prendere atto del susseguirsi dell’ordine naturale degli eventi. La concezione ciceroniana, pur accettando l’andamento ciclico, presenta una teoria meno rigida e meccanica rispetto a quella di Polibio: l’ordine dei mutamenti, infatti, è variabile per cui non vi è alcuna necessità che ad una determinata forma di governo segua l’altra, al contrario i cambiamenti sono il prodotto della storia particolare dei

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Sulla questione delle fonti greche in Cicerone si veda J. L. FERRARY, L’archeologie du

“De re publica”: Ciceron entre Polybe et Platon, in «Journal of Roman Studies», 74 (1984), pp. 97–

98.

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singoli popoli. Tale posizione di stampo aristotelico consente a Cicerone di ampliare il raggio d’azione dell’uomo di Stato il quale, in una tale prospettiva, non è più solo in grado di prevedere gli eventi ma può anche adottare i giusti correttivi atti a conservare il più a lungo possibile l’equilibrio e la stabilità dello Stato140

. Quest’ultimo, considerato da Cicerone come entità eterna, non è soggetto, come l’uomo, al ciclo biologico di nascita, crescita, morte: l’eventuale crollo dello Stato, quindi, è assimilato ad una sorta di catastrofe cosmica141

. Ecco il motivo per cui l’autore nel De re publica sostiene che le deviazioni costituzionali non avvengono per natura ma contro natura: esse, infatti, sono causate dalla disuguaglianza sociale per cui uno o pochi uomini prevalgono ingiustamente su tutti gli altri. Quello che, invece, deve primeggiare in ogni costituzione è il bene massimo che, come avviene nella visione politica aristotelica, coincide con l’utile della comunità nella sua interezza. In questa prospettiva, dunque, la concezione politica ciceroniana ha come punti di riferimento il Platone delle Leggi e Aristotele: nel suo scritto, infatti, il filosofo ateniese sostiene che monarchia, aristocrazia e democrazia non sono vere forme di governo ma “aggregati di cittadini, dove una parte comanda, un’altra serve, e ciascun aggregato prende il nome da chi esercita il dominio”142. In considerazione di questo è preferibile un governo misto regolato da leggi che garantiscano l’utile comune, il benessere dei cittadini, la sopravvivenza dello Stato: perché ciò avvenga, sostiene Platone, devono esserci norme fisse ed immutabili in quanto niente è più rovinoso per uno Stato che l’introduzione di novità e cambiamenti. Questa concezione, come visto in precedenza, è ereditata da Cicerone pressoché integralmente: ad essa, inoltre, l’Arpinate affianca un topos politico aristotelico secondo il quale anche il più virtuoso e meritevole degli uomini non è conveniente che governi su tutti gli altri. Nello specifico Aristotele si pone il problema se sia più utile essere governati dal migliore degli uomini o dalla legge e propende per la seconda: quest’ultima, infatti, è del tutto priva di emozioni e passioni che sono, invece, caratteristiche proprie dell’uomo. La legge, dunque, non è frutto

140 Sulla stabilità statale e sulla costituzione mista in Cicerone si veda L. P

ERELLI, Il “De re

publica” e il pensiero politico di Cicerone. Tra filosofia greca e ideologia aristocratica romana,

Firenze 1990. 141 C

ICERONE, De re publica, III, 34. 142 P

dell’intelletto umano quanto piuttosto dell’eterno che governa da sempre l’universo con saggezza: la legge costituisce, in questo senso, la più elevata espressione della suprema razionalità e autorità e, nella comunità politica, essa si traduce nella forza coattiva dell’imperio.

Il principale intento del De re publica resta, comunque, quello di esaminare le cause della crisi politica dei tempi e l’urgenza di definire la forma di governo che avrebbe potuto risolverla: proprio per il raggiungimento di questo obiettivo, Cicerone considera fondamentale compiere una disamina della storia precedente di Roma in modo che l’uomo politico, dalla conoscenza critica del passato e dei fatti accaduti, possa trarre proficuo insegnamento per la risoluzione dei problemi presenti. In questo, come visto, l’autore afferma di contrapporsi a Platone il quale costruisce uno Stato immaginario ed irraggiungibile invece di proporsi come fine uno Stato reale e storicamente attuabile143. All’esame storico (nel quale ad esempio si dimostra come Tarquinio il Superbo si sia progressivamente trasformato da re a padrone) che occupa il libro I e parte del II, segue la ricerca del modello di reggitore: a questo proposito Cicerone introduce metafore pitagoriche per far comprendere il perfetto parallelismo che deve instaurarsi tra Stato perfetto e perfezione celeste. Così al concentus, ossia all’accordo di voci e strumenti diversi in concerto, deve corrispondere il consensus statale, ossia la concordia tra i diversi ordini sociali, generata dallo ius che armonizza perfettamente ogni Stato. Da ciò, poi, si giunge al concetto di armonia delle sfere celesti e all’immortalità dell’anima: il reggitore, come accade nelle zone astrali, deve ricreare, attraverso l’educazione, la giusta armonia di anima e corpo, così da accordarli come uno strumento musicale (lo stesso paragone è utilizzato da Simmia nel Fedone). La ratio e lo ius naturalis, in quanto scintille del fuoco celeste presenti nell’uomo, possono riprodurre nello Stato la perfetta armonia: ma perché questa condizione possa verificarsi è necessario che ci siano i giusti rapporti proporzionali all’interno dell’unità statale. Tali topoi pitagorici hanno notevole rilevanza anche nella Repubblica platonica (allorquando, in opposizione alle passioni, si definisce l’accordo della parti dell’anima in modo tale che ciascuna compia la propria funzione agendo secondo giustizia, ossia seguendo ragione, ordine, legge), nel Timeo (a

143 C

proposito dell’universo matematico e geometrico le cui parti sono accordate dal demiurgo con perfetta armonia), nelle Leggi (in cui Platone afferma che i corpi celesti, animati dall’intelligenza, rispondono a calcoli meravigliosi ed entrano in relazione con la musica traendo da questa conveniente profitto): Cicerone riprende e rielabora splendidamente queste teorie nel Somnium, allorquando l’Africano descrive accuratamente al nipote la perfezione armonica delle sfere e i relativi intervalli di diversa durata, distinti in proporzione e secondo un preciso principio razionale.

III. 5. Due questioni controverse: la figura del princeps e la proprietà