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Ambiguità del coro nella cerimonia liturgica medievale

II. L’uso del coro nella teatralità latina e il suo influsso fino alla fine del Settecento

II. 2. Ambiguità del coro nella cerimonia liturgica medievale

A partire dal VI secolo d.C., anche in conseguenza della decaduta dell’Impero Romano, si dissolvono gradualmente le forme spettacolari sin qui definite mentre gli edifici teatrali vengono abbandonati e lasciati decadere. Come è noto, in risposta ad una condanna da parte della Chiesa e all’abbandono dei luoghi istituzionali, nel corso del Medioevo si avrà invece un proliferare di nuove forme spettacolari «fuori dal teatro»152

.

Spettacolo laico e spettacolo sacro, questa diviene la precisa dicotomia: al primo, almeno fino alla prima metà dell’XI secolo, sono da ascriversi le figure dei giullari, performer declinabili in più competenze, quali l’acrobazia, la danza, la recitazione153

, al secondo i drammi liturgici. Una dicotomia, però, che presenta continue ibridazioni, come nel caso della lauda drammatica contaminata da feste pagane, durante la Festa dei Folli. Fin dal 911, ad esempio, l’imperatore Corrado I aveva concesso «tre giorni per divertirsi»154

, quindi un’unione di sacro e profano, basso e alto, mondo ctonio e mondo spirituale, che prevede la partecipazione attiva della comunità e, proprio per questo, diviene un ulteriore forma di spettacolo tra rito e teatro, nell’inquadramento della festa155

e del carnevale – a cui si appellarono in seguito i riformatori del Novecento – come espressione di una moltitudine e, soprattutto, di una possibile identificazione collettiva:

Il portatore del principio materiale e corporeo non è qui né l’essere biologico isolato, né l’individuo borghese egoista, ma il popolo; un popolo che cresce e si rinnova continuamente nella sua evoluzione. È questo il motivo per cui l’elemento corporeo è così grandioso, esagerato, infinito156.

Una festa che si struttura in modi differenti, a seconda del contesto e degli scopi sottesi.

Fin dall’Alto Medioevo, tra la fine del VI e l’inizio del VII secolo, il Concilio di Auxerre stigmatizza che «non è lecito fare in chiesa cori di laici o canti di donne né preparare banchetti», ovvero, come ribadisce il Concilio di Roma nell’anno 826, «ballare, cantare ritmi osceni, tenere e guidare danze, comportarsi come pagani»157

, quindi cori danzati e cantati inscritti nella logica

152 Talvolta erano anche ammaestratori di animali, Cfr. Luigi Allegri, Teatro e spettacolo nel Medioevo, cit., p. IX. 153 Luigi Allegri, Teatro e spettacolo nel Medioevo, cit. p. 40.

154

Paola Bignami, Storia del costume teatrale, cit., p. 43.

155 Si rimanda per un approfondimento e bibliografia essenziale alla voce Festa, redatta da Umberto Galimberti e Luigi Allegri, in Strumenti del sapere contemporaneo, II, Torino 1985, pp. 310-316.

156 Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, riso, carnevale e festa nella tradizione medioevale e rinascimentale, Einaudi, Torino, 1982, p. 24.

dell’estasi comunitaria, azioni spontanee che esulano dalla funzione teatrale, pur avendo una consapevolezza scenica para-teatrale, come ad esempio le Passioni o, in area tedesca, gli Oberammergau, che, rimasti in uso fino ai giorni nostri, tendono a costituire i contraltari suggestivi a cui appellarsi per una riteatralizzazione del teatro158, secondo le facili stigmatizzazioni di coralità come universo teatrale e come ritrovamento di uno spazio circolare di interazione.

Il nostro percorso di analisi prevede, però, come paradigma la consapevole presenza di uno strumento performativo sia da parte del pubblico che dei coreuti stessi, non in quanto «rappresentazione di sé a sé»159, ma «rappresentazione di altro da sé»160.

Un esempio rivelante per la storia del coro teatrale è rappresentato dall’evoluzione del Quem Quaeritis e della Visitatio Sepulchri, cerimonie liturgiche che, a partire dal X secolo, saranno strettamente connesse alle celebrazioni della Pasqua o del Natale. Non è certamente questa la sede nella quale tentare una definitiva risposta a ciò che concerne la problematicità dell’ambito di studi di questo specifico periodo, sempre minata dalla cosiddetta schizoide Methodik161 che tende a voler trattare l’intera produzione drammatica medievale come un unicuum onnicomprensivo secondo il «falso principio di una creazione liturgica appositamente come apparato visivo per il popolo e non come l’immanente rammentare gli accadimenti sacri durante lo svolgimento della messa»162

.

Una letteratura, quindi, da considerarsi come frutto di un processo spontaneo ed insito, immanente, nella stessa struttura dell’evento liturgico secondo tempi e modulazioni diversi non inquadrabili in un modello unico. Per dimostrare questo assunto, Drumbl riporta un esempio specifico: nel Quem Quaeritis il coro «non è il personaggio ma il celebrante di una cerimonia»163

, una cerimonia-rito, ove non si rappresenta altro da sé, ma sé a sé, mentre nel caso della Visitatio II, concernente la Visitatio sepulchri – la cui origine è situata dallo studioso nel monastero tirolese di Innichen nella seconda metà del XII secolo – rimane una traccia indelebile di una peculiare evoluzione: se nel Quem Quaeritis sin dall’inizio si presenta una ambiguità di fondo tra il ruolo storico e il ruolo ecclesiastico dei cosiddetti confessores, questa stessa ambivalenza torna anche nella Visitatio II, ma «i due ruoli non coesistono più nelle stesse persone chiamate christicolae» e 158

Durante il Medioevo si stabilizza la tendenza a rappresentare il ‘popolo’ attraverso cori cantati – talvolta costituiti da un singolo interprete declamante e canto all’unisono, altre volte tutti i partecipanti ala liturgia si univano in un unico coro cantato – come, poi, accadrà frequentemente nel Novecento – i quali talvolta, non secondo un’evoluzione lineare, possono assumere anche funzione epica.

159

Luigi Allegri, Teatro e spettacolo nel Medioevo, cit., p. 43. 160 Ibidem.

161 Definizione di H. Kuhn, Aspekte, riportata da Johann Drumbl, Quem Quaeritis. Teatro sacro dell’Alto Medioevo, Bulzoni, Roma 1981, p. 67. Durante questo periodo abbiamo, comunque, la nascita e l’istituzione dei cori liturgici mentre il luogo deputato all’interno della chiesa, ove frati ma anche laici, o voci bianche, eseguono canti corali a cappella, sarà chiamato coro.

162 «[...] falsche Grundauffassung einer liturgischen Schöpfung als Schaustellung für das Volk und nicht als immanente Vergegenwärtigung des Heilsgeschehens im gottesdienstlichen Vorgang», H. De Boor, Textgeschichte in J. Drumbl, cit., p. 72.

«sono affidati separatamente l’uno a due cantori (le ‘Marie’ e gli ‘apostoli’) e l’altro al coro»164 , il quale non resta il semplice destinatario ma diviene «per usare un termine decisamente moderno – ‘regista’ che introduce le due ‘visite’ al sepolcro, quella delle ‘Marie’ e quella degli apostoli con due antifone apposite»165, ovvero assume specifiche competenze narrative e rappresentative, simili al ruolo del meneurs de jeu166

ovvero di colui che, con in mano la bacchetta (baculus), coadiuvava la fruizione diacronica dello spettacolo. In questo caso, quindi, il coro ritorna consapevolmente – anche se come puro canto avulso da altri intenti performativi – e rappresenta un altro da sé in un rapporto privilegiato con gli astanti, ovvero una schiera formata dai fedeli chiamati a partecipare alla cerimonia rituale e al contempo attiva nella rappresentazione, esattamente come il coro greco era formato da cittadini, con la specifica funzione immersiva in una medesima scaturigine del teatro dal rito167. Il parallelismo diviene ancora più evidente se si pensa che proprio in quel periodo il teatro era divenuto estraneo e, quindi, le istanze rappresentative del ‘collettivo sapenziale’ si ripropongono spontaneamente, secondo la medesima evoluzione avvenuta nel V secolo a. C.

Al contempo, però, del teatro ‘istituzionale’ era rimasta una traccia descrittiva «contenuta nelle enciclopedie cristiane debitrici di antiche fonti demonizzanti [...] e impegnate in un’azione di filtro non neutro dei dati della cultura classica»168

, per cui, paradossalmente, se lo strumento performativo risorge spontaneamente nell’esperienza pratica, non uguale destino subisce il coro teatrale nel momento in cui irrompe come entità a sé nella riflessione sui generi drammatici e la loro messa in scena. La collisione fra l’ambito letterario e rappresentativo aveva portato a una netta suddivisione fra il gesto e la parola, anche dovuta all’evoluzione del mimus a partire dall’epoca romana, così accade che, in ambito erudito, ci si possa imbattere in descrizioni di tale natura:

Tragedie e commedie solevano essere recitate in questo modo. Il teatro era un’area semicircolare, nel cui mezzo c’era una casetta detta scena; nella casetta c’era un pulpito; sul pulpito saliva il poeta e leggeva ad alta voce il suo testo; fuori, invece, stavano gli attori, compito dei quali era riprodurre nei gesti e negli atteggiamenti del corpo ciò che il poeta veniva dicendo dal pulpito, adattandolo a ciascun personaggio169.

Eppure proprio nei testi classici e nelle poetiche antiche, oltre che nella pratica dei giullari e delle rappresentazioni medievali – le quali avranno un notevole influsso sull’identificazione tra coro e 164 Johann Drumbl, Quem Quaeritis. Teatro sacro dell’Alto Medioevo, cit., p. 234.

165

Ivi, p. 234.

166 Franco Perrelli, Storia della scenografia, cit., p. 41.

167 Mario Apollonio, non a caso, recupererà il dramma liturgico come esempio su cui fondarsi per la creazione di un teatro con funzione sociale attraverso la definizione del coro-pubblico, come vedremo più avanti. Cfr. Mario Apollonio,

Storia dottrina prassi del coro, Morcellania, Brescia 1956, pp. 59-71. 168 Luigi Allegri, Teatro e spettacolo nel Medioevo, cit., p. 271.

169 Si tratta del commento all’Hercules furens di Nicola Trevet, autore trecentesco. Il testo in latino – posto come didascalia della miniatura del codice Vaticano Urbinate 355, raffigurante, appunto, la situazione descritta dal Trevet e contenuta in E. Franceschini (a cura di ), Il commento di Nicola Trevet al Tieste di Seneca, Milano 1938 – è riportato in italiano in Luigi Allegri, Teatro e spettacolo nel Medioevo, cit., p. 270.

allegoria – era rimasta una testimonianza concreta del personaggio collettivo per eccellenza impossibile da ignorare.