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Il desiderio di ‘popolo’: Victor Hugo, Meininger, l’opera lirica

III. Ottocento: la metamorfosi del coro

III. 3. Il desiderio di ‘popolo’: Victor Hugo, Meininger, l’opera lirica

Hegel avvicinò il coro al popolo, come terreno indistinto che fa da contrasto allo stagliarsi in primo piano dei protagonisti, degli individui:

il coro in effetti esiste come la coscienza sostanziale, superiore, che distoglie dai falsi conflitti e prepara la soluzione. Esso non è tuttavia un personaggio semplicemente esteriore e inoperoso come gli spettatori [...] è invece la sostanza reale della vita e dell’azione eticamente eroica, è, di fronte ai singoli eroi, il popolo quale terreno fecondo da cui gli individui, quali fiori e piante tese in alto, nascono dal loro proprio e dall’esistenza di esso sono condizionati331.

Il coro-popolo come exemplum etico, secondo la visione oraziana, che male si rapporta con la tragedia romantica, intesa come dramma storico:

per la tragedia romantica il coro non si mostra adatto, [...] non può trovare il suo giusto posto quando si tratta di passioni, fini e caratteri particolari o quando l’intrigo ha da dispiegarsi liberamente332.

Victor Hugo, nella sua Prefazione al Cromwell (1827), si inserì nella querelle tra chi difendeva la forma tradizionale drammaturgica e chi guardava al dramma come genere letterario adatto per l’epoca moderna, propugnandone una riforma attraverso l’eliminazione della divisione dei generi e delle tre unità aristoteliche:

la poesia ha tre età, ciascuna delle quali corrisponde a un’epoca della società: l’ode, l’epopea, il dramma. I tempi primitivi sono lirici, i tempi antichi sono epici, i tempi moderni sono drammatici. L’ode canta l’eternità, l’epopea solennizza la storia, il dramma dipinge la vita. Il carattere della prima poesia è l’ingenuità, il carattere della seconda è la semplicità, il carattere della terza, la verità333.

330 Hellmut Flashar, Inszenierung der Antike, cit., p. 102. 331 Georg Wilhelm Friedrich Hegel, cit., Tomo II, p. 1353. 332

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, cit., Tomo II, p. 1355. Corsivi nostri. 333 Victor Hugo, Sul grottesco, Edizioni Angelo Guerini, Milano 1990, p. 60.

Sempre secondo Hugo, il Cristianesimo portò alla rigida divisione tra corpo ed anima e, improvvisamente, l’umanità divenne consapevole della compresenza del bello e del brutto, dell’alto e del basso, del sublime e del grottesco, quest’ultimo:

ha un ruolo immenso. È ovunque; da una parte crea il deforme e l’orribile; dall’altra il comico e il buffo. Attribuisce alla religione mille superstizioni originali; alla poesia mille immaginazioni pittoresche334.

La verità è solo nella consapevolezza dell’indivisibilità di grottesco e sublime e l’unica forma in grado di armonizzare questi contrari è il dramma, il cui più grande rappresentante è Shakespeare. Un ritorno alla commistione dei generi che, attraverso l’appello al grottesco, richiese una invasione della scena da parte dell’universale come insieme di infiniti particolari, appunto un ritorno del ‘popolo’ inteso come elemento pittoresco lontano dall’esperienza spettacolare medievale innestando lo stesso concetto di Bachtin riguardo al grottesco romantico335, ovvero di un’assenza di fiducia nei confronti della collettività e della sua corporeità, come cartina di tornasole delle azioni individuali:

come in Shakespeare, la folla doveva avere il ruolo di attore, di coro e di forza elementare336.

Il Romanticismo riscoprì un rapporto nuovo con la storia, con la ricerca filologica e una conseguente originale nuova dinamica tra scena e scenografia che non poteva più limitarsi a trompe-l'oeil, ma avere tridimensionalità materica:

Il palcoscenico tende a diventare sempre più volume, anziché semplice superficie, puro schermo contro cui si staglia l’agire pittorico337.

Uno spazio tridimensionale sempre più invaso da un numero elevato di figuranti che, come nel caso dei Meiniger, non solo costituivano un quadro vivente ma anche un tappeto sonoro, ottenuto attraverso il cosiddetto «Rhabarber-Gemurmel», ovvero mormorio unito al termine rabarbaro per indicare, quasi in maniera onomatopeica, il rumore scaturito dalla particolare sonorità della erre tedesca. Una serie di bisbigli e mormori che ricreavano dando quell’effetto di Lebendigkeit strenuamente voluto, ma:

334 Ivi, p. 51.

335 Bachtin, infatti, distingue il «grottesco romantico» dal «realismo grottesco» per cui, a differenza della tradizione medioevale e rinascimentale dove si viveva il grottesco tramite la comunione con il popolo grazie ai riti carnevaleschi, il grottesco romantico si presenta come un “grottesco da camera”, in quanto è avvenuto uno spostamento dall’universale all’individuale. Cfr. Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, riso, carnevale e festa nella tradizione

medioevale e rinascimentale, cit., p. 24 e p. 45. 336

George Steiner, La morte della tragedia, Garzanti, Milano 1999, p. 139. 337 Roberto Alonge, Il teatro dei registi, Laterza, Bari 2006, p. 40.

Questi inserimenti devono naturalmente essere montati in diverse sequenze e non devono mai essere eseguiti uniformemente all’unisono338.

Una effetto di realtà, di vita quotidiana lontano dal parlato all’unisono del coro; la scena reale, quotidiana, mal si concilia con uno strumento d’arte. Con i Meininger si materializzò un prodromo della regia, un ruolo demiurgico teso verso:

una tessitura d’insieme che riproduceva la dimensione corale, popolare della storia [...] all’assolo si sostituiva il concerto, la sinfonia, il contrappunto corale339.

Una modulazione dell’apparato scenico e coreografico che parte dal concetto di quello stesso contrappunto introdotto Mendelssohn nella suddivisione della strofe e dell’antistrofe fra i differenti coreuti, per cui non vi è la ricerca dell’uniformità, della massa compatta di individui l’uno uguale all’altro, ma un passaggio alla ‘regia’ di Ensemble ovvero alla orchestrazione di una massa di singoli atteggiamenti peculiari e variopinti. La confusione fra popolo e coro è il frutto di una impossibilità di relazione con uno strumento performativo fortemente dinamico ed attivo. Se nel Novecento si tornerà al coro per indicare una massa indistinta che agente allo stesso medesimo ritmo possa creare un’esperienza cerimoniale, di ritorno alle origini, mentre nel caso di Meininger era ancora viva la lezione romantica del desiderio di popolo inteso come scenografia vivente, come sostrato universale, come Teathrum Mundi, alla maniera dei quadri di Bruegel, un brulichio di individui ognuno diverso dall’altro, ognuno in posa diversa, appunto per dare un ritmo della composizione inteso nel senso figurativo, spesso statico, quanto di più lontano dal ritmo ricercato per mezzo del movimento.

Uguale destino subisce il coro nell’opera lirica, il cui compito è appunto la creazione di un contrappunto sonoro agli interventi dei solisti, oltre alla creazione di coreografie spaziali che si uniscano a canti all’unisono eseguiti dall’intero schieramento come da alcuni singoli gruppi, andando a collocarsi sullo sfondo senza avere una relazione esclusiva con il pubblico, mentre la tendenza alla magnificenza perseguita attraverso la scenografia e la costumistica, spesso induce – anche oggi – alla confezione di costumi non uniformi ma con una evidente ricercatezza nel particolare. Ciò dipende anche da una particolare natura del repertorio lirico italiano –che a partire da questo secolo avrà poi enorme diffusione fino ai giorni nostri – che si può riassumere nelle seguenti caratteristiche:

338 «Diese Einfügungen müssen natürlich in verschieden Fassungen gehalten sein und dürfen nicht gleichzetig in Uniform vorgetragen». Herzog Georg von Meiningen in Max Grube, Geschichte der Meininger, Deutsche Verlags- Anstalt, Stuttgart 1926, p. 57.

l’assetto poetico, metricamente organizzato, del testo drammatico (l’opera italiana ignora, o poco ci manca, le forme miste di prosa recitata e versi cantati); il prevalente realismo degli assetti drammatici; [...] l’individuazione del personaggio nella sua voce (nella gerarchia estetica dell’opera italiana il canto solistico, anche nella fattispecie del concerto a più voci, preponderà su tutti gli altri fattori dello spettacolo musical- teatrale)340.

Per cui, preme ribadire, il coro teatrale deve essere ritenuto uno strumento performativo a sé, assolutamente da distinguersi dalla regia d’ensemble o dalla regia corale, nel teatro di prosa come in quello lirico, le quali hanno avuto e hanno, comunque, il merito di aver dato un notevole impulso alle metodiche di dislocazione e azione nello spazio di un numero elevato di figuranti.