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Dal predrammatico al prediscorsivo «La musica del senso»

III. Apollonio e la prassi del coro

I. 2. Dal predrammatico al prediscorsivo «La musica del senso»

Accanto, quindi, alla volontaria creazione di un evento a metà fra rito e teatro, alla Raumerlebnis, o all’uso del coro come strumento straniante che non presuppongono una sfiducia nel linguaggio o nell’evento rappresentativo, si delinea, lentamente il terzo percorso che porta alle estreme conseguenze l’ambivalenza della vocalità, che in occidente è stata identificata come diretta espressione del Logos – J. Derrida ha, appunto, indicato come nella storia della metafisica occidentale la voce sia divenuta simbolo dell’autoconsapevolezza del Logos13 - attraverso una musicalità che rompe il linguaggio e il senso, e che si distanzia dalla coscienza per divenire esperienza:

Coscienza di aver da dire come coscienza di nulla, coscienza che non è indigente, ma soffocata del tutto. Coscienza di nulla, partendo dalla quale ogni coscienza di qualcosa può arricchirsi, prendere senso. E può

11 «Die Figuren reden dann nicht so sehr aneinander vorbei, sondern sozusagen alle in die gleiche Richtung», Hans- Thies Lehmann, Postdramatisches Theater, cit., p. 233.

12 "fonction d’appel". Georges Banu, Solitude du dos et frontalité chorale, in «Alternatives théâtrales», n. 76/77, ottobre 2003, p. 15.

sorgere ogni parola. Perché il pensiero della cosa come quello che essa è si confonde già con l’esperienza della pura parola; e questa con l’esperienza stessa14.

E, ancora:

L’essere si nasconde nel non detto del testo, ovvero nei vuoti tra le parole, nei significati sottintesi ai segni, alla struttura grammaticale. [...] l’essere nel testo è solamente una traccia, un richiamo lontano e accennato15.

Il testo deve essere, quindi dilatato, deve cogliere in se anche quei vuoti, quei legami che possono essere portati alla luce attraverso un nuova musica, in quanto la parola non non è più sufficiente. Il desiderio di ritmo, di linguaggio poetico era già presente in Rilke, come in Maeterlinck, ma, ora, ciò che in realtà accade è un ulteriore passaggio dal predrammatico al prediscorsivo. Le voci divengono respiro, urlo, si avvicinano alla vocalità infantile in cui, secondo Kristeva, rimane traccia della chora semiotica, per cui viene attuato uno:

spazio ritmico, scatenato, irriducibile a un’intelligibile traduzione verbale, musicale, anteriore al giudizio16.

Siamo lontani dal Rhabarber-Gemurmel dei Meininger, la creazione appunto di un tappeto sonoro che di l’idea di un quadro realistico, un pezzo di realtà portato sulla scena, come l’emissioni vocali di varia natura, da bisbigli a urla, in Reinhardt, ove l’impiego di questi “trucchi” – come stigmatizzati dai contemporanei – era fatto allo scopo di rendere il vissuto spettacolare simile all’estasi, un nuovo rito collettivo unificante e, soprattutto, come contorno all’azione degli eroi con i quali era ancora possibile identificarsi. Ora, questo volgersi al prediscorsivo è l’aperta denuncia della realtà circostante, la ricerca di una nuova catarsi liberatoria, del senso nascosto dietro alle cose:

Quale utopia? Quella di una musica del senso; intendo dire che nel suo stato utopico la lingua sarebbe come allargata e persino snaturata, fino a formare un immenso tessuto sonoro in cui l’apparato semantico si troverebbe irrealizzato; il significante fonico, metrico, vocale, si dispiegherebbe allora in tutta la sua sontuosità, senza che un segno abbia mai a staccarsene ( e venga a naturalizzare questo puro distendersi del gioire), ma anche – e là è il difficile – senza che il senso vena brutalmente congedato, dogmaticamente forcluso, cioè: castrato17.

14 Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino, 1990, p. 11. 15 Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino, 1990, p. 234. 16

Julia Kristeva, La rivoluzione del linguaggio poetico, Marsilio, Venezia 1979, p. 34.

Un musica del senso, quindi, che sia anche il mezzo eversivo per cogliere il vero significato, contro l’imbrigliamento della sintassi e, soprattutto, che si sollevi rispetto all’eccessiva comunicazione, al bombardamento continuo di informazioni che è, invece, simile al borbottio:

Borbottare è un messaggio due volte mancato [...] non è veramente lingua, né fuori di essa: è un rumore di linguaggio comparabile alla serie di battiti con cui un motore fa intendere che è in cattivo stato: è questo il senso del colpo avvolto, segno sonoro di un fallimento che si profila nel funzionamento dell’oggetto18.

Il messaggio che invece giunge è, ancora «un’entità musicale: il brusio»19. Una ricerca del senso che guarda alle sperimentazioni di allora in ambito musicale e non solo – John Cage – ma che coglie, insieme, il nuovo rapporto con la lingua e il significato, che richiede un terzo elemento, il suono. Un suono che si discosti dalla semplice intonazione, che sia la ricerca della nuova significazione attraverso «la voce che viene lavorata, cercando di snaturarne il senso»20

. Un primato della voce rispetto alla parola che può permettere:

una prospettiva che non solo può focalizzarsi su una forma primaria e radicale di relazione non ancora catturata dall’ordine del linguaggio, ma è soprattutto in grado di precisarla come relazione d’unicità. Nient’altro che questo è, del resto, il senso che la sfera vocalica consegna alle parole giacché la parola è appunto la sua destinazione essenziale. E si tratta ovviamente, di un senso che, tramite le parole, transita dall’ontologia alla politica21.

La voce, la sua elaborazione, è un’attività concreta nella società, presuppone un mettersi in relazione con l’altro, presuppone una materia che sia modificabile nel qui e ora e non imposta dall’alto, nella ricerca della:

affermazione nietzschiana, l’affermazione gioiosa del gioco del mondo e dell’innocenza del divenire,

l’affermazione di un mondo di segni senza errore, senza verità, senza origine, aperto ad una interpretazione attiva22.

Il ritorno all’insieme corale di voci come momento fondante di una riflessione, come il completo dispiegamento della possibilità e un muoversi libero dall’individuo al collettivo, dall’io al noi, nella

18 Ivi, p. 5. 19 Ivi, p. 6. 20 Ivi, p. 8. 21

Adriana Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli, Milano 2005, p. 23. 22 Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino, 1990, p. 375.

positività della dissoluzione delle leggi e dei sistemi attraverso cui guardiamo il mondo per ritornare ad una semiosi attiva, in fieri. Artaud nel saggio La messa in scena e la metafisica (1931), imprecava contro il sistema rigido della rappresentazione teatrale come puro dialogo:

Come è possibile che a teatro, almeno quale lo conosciamo in Europa, o meglio in Occidente, tutto ciò che è specificamente teatrale, ossia tutto ciò che non è discorso e parola, o – se si preferisce – tutto ciò che non è contenuto nel dialogo (e il dialogo stesso considerato in funzione delle sue possibilità di sonorizzazione sulla scena, e delle esigenze di tale sonorizzazione) debba rimanere in secondo piano? [...] come è possibile dunque che l’Occidente non sappia vedere il teatro sotto una prospettiva diversa da quella del teatro dialogato?23

E, poche righe dopo, spiega il sistema per ricercare un nuovo evento teatrale, che guardi a un diverso uso del linguaggio articolato:

Fare la metafisica del linguaggio articolato significa indurlo ad esprimere ciò che di solito non esprime; significa servirsene in modo nuovo, eccezionale e inusitato, significa restituirgli le sue possibilità di scuotimento fisico, significa frazionarlo e distribuirlo attivamente nello spazio, significa prendere le intonazioni in modo assolutamente concreto restituendo loro il potere originario di sconvolgere e manifestare effettivamente qualcosa, significa ribellarsi al linguaggio e alle sue fonti bassamente utilitarie, alimentari si potrebbe dire, alle sue origini di bestia braccata, significa infine considerare il linguaggio sotto forma di

Incantesimo24.

Lo «scuotimento fisico», l’abbandonarsi alla «tentazione fisica»25, presuppone proprio il distribuire il linguaggio nello spazio. Una distribuzione che può essere attuata attraverso il coro, attraverso non solo la snaturazione del collegamento delle sintassi, degli accenti, il repentino cambio di tonalità ma anche attraverso la dislocazione dei corpi che parlano all’unisono in punti differenti, o secondo un’interpunzione fra più gruppi corali, o la frammentazione di uno stesso testo fra più individui in sequenze precise.

L’eliminazione dell’unione del corpo-voce, porta ad una evidenziazione del significato sotteso, e

così, appare possibile che il coro divenga lo strumento della musica del senso, per questo insieme di voci e corpi dilatati, moltiplicati:

23 Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, cit., p. 155. 24

Ivi, p. 163. 25 Ivi, nota 1, p. 156.

Il brusio [...] implica infatti una comunità di corpi: nei rumori del piacere che «va» non si dà voce che si leva, che guida o si apparta, non si costituisce nessuna voce26.

La voce diviene collettiva, non più identificativa di un singolo di una singola identità, provocando, nel teatro, un metamorfosi estetica:

l’estetica della rappresentazione è sostituita da un’estetica della presenza, che risulta da una specifica fusione di testualità, corporeità e vocalità27

Il linguaggio dialogico, specifico della rappresentazione, diviene in realtà un monologo corale, frutto di una polifonia, mentre la dramatis persona si dissolve in insiemi corporei, appunto un corpo fatto di corpi.