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Autoreferenzialità – frontalità – multietnicità

II. La messa in scena dell’antico nel secondo Novecento

II. 2. Autoreferenzialità – frontalità – multietnicità

La messa in scena tragica non guarda solo al recupero del rito ma anche ad una modernizzazione del tema, che produce, dal punto di vista del coro, una serie di soluzioni anche molto contrastanti fra loro. Si pensi ai lavori di Peter Stein e di Klaus Michael Grüber114 quali Antikenproject I e Antikenproject II, quest’ultimo messo in scena al Berlin Schaubühne nel 1980 e replicato nel 1994. Stein recupera lo spazio del teatro antico con orchestra e altare, e una skene con il frontale del palazzo e la porta. Nella riproposizione dell’Agamennone utilizza un coro composto da 12 uomini, vestiti con abiti scuri e cappelli neri, che sembrano uscire dalla nostra quotidianità, con in mano il komboloi, seduti su tavoli che appartengono al nostro presente. Anche il linguaggio è modernizzato: Il secondo stasimo dell’Agamennone dedicato a Troia è parlato, il coro è seduto su sedie disposte a cerchio in mezzo all’orchestra, e parla tra sé attraverso mormorii recitati all’unisono, ad una persona sola o ad una parte del gruppo; tra le strofe e le antistrofe un componente del coro si posiziona al centro del cerchio, si rivolge ai presenti che, o non lo ascoltano o ridono o recuperano una sola delle sue parole e la ripetono in maniera cantilenante.

Il Theatre du Soleil nasce nel 1964, anch’esso è un collettivo, il coro, danzante, musicante, recitante, ne diviene il fulcro di ogni rappresentazione, presentandosi con costumi colorati recuperati dal teatro indiano e balinese e con i volti truccati (Ifigenia in Aulide). Una dilatazione 112 René Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 2000, p. 76.

113 Ivi, p. 281. 114

Vedi Hellmut Flashar, Inszenierung der Antike: das griechische Drama auf der Bühne der Neuzeit 1585-1990, C.H. Beck, München 1991.

verso l’ensamble multietnico, simile a quello presente nel teatro di Eugenio Barba, l’unico parlante è il coefore, la disposizione è frontale e i protagonisti vengono talvolta inglobati dalle azioni del collettivo. Evidente come anche nella Medea o ne Appunti per un’Orestiade africana (1968-69), ci sia una ricerca volta verso un’arcaicità etnica, un concetto di coro come popolo, una comunità frutto dell’unione di stilemi e tradizioni interculturali. Una contrapposizione di intenti, quindi, fra Stein e Minouchkine che guarda a due diverse tendenze dell’epoca contemporanea, da una parte un’osmosi culturale tendente al meticcio, dall’altra al pessimismo della perdita di comunicazione, del vero ascolto, luce chiara contro chiaroscurale, frontalità contro autoreferenzialità.

A metà degli anni Ottanfa, nella triologia di Atrides, La Mnouchkine aveva portato in scena un coro danzante, e musicale, colorato.

Un nuovo conflitto tra matriarcato e patriarcato115 lo ritroviamo nello spettacolo Die Mütter di Einar Schleef, portato in scena al Frankfurt Schauspielhaus nel 1986. Il testo è il frutto dell’unione di Supplici di Eschilo e Sette contro Tebe di Euripide, lo spettacolo aveva una durata di quattro ore e rimarrà l’unica sua produzione legata alle tragedie greche. Madre è una parola chiave, che fa pensare a Dioniso, alla ricerca del femmineo, al mondo ctonio. Per la prima volta Schleef sperimenta proprio quella forma teatrale che diverrà, poi, il fulcro della sua ricerca estetica: il coro. Come diretta conseguenza della sua formazione di scenografo – è stato allievo di Karl von Appen116 - creò un unico spazio, togliendo tutte le poltrone eccetto che per le ultime tre file (per gli anziani e i disabili), e al loro posto inserì una pedana posta al centro della platea che collegava il palcoscenico principale con un altro palcoscenico più piccolo alla fine della sala. Il pubblico era collocato ai lati della pedana su delle gradinate, con scalini molto bassi ed ampi; lo spettacolo era costituito da tre cori femminili che agivano su tutto lo spazio a disposizione e anche tra il pubblico. I membri di ciascun coro erano vestiti allo stesso modo e con una modulazione su tre colori (bianco, nero e rosso), ed si muovevano e parlavano, cantavano, sospiravano, urlavano, all’unisono117

. Nonostante ciò:

il coro non si trasformava mai in un collettivo armonioso, la tensione, invece, andava intensificandosi118.

Il coro finale dello spettacolo era costituito dal terzo e quarto canto de I sette contro Tebe, e presenta la chiara ricerca di Schleef di recuperare la stessa qualità del coro greco che, attraverso il 115 Cfr. Helen Foley, Bad Women: Gender Politics in Late Twentieth-Century Performance and Revision of Greek Tragedy, in Edith Hall, Fiona Macintosch, Amanda Wrigley (a cura di), Dionysus Since 69. Greek Tragedy at the Dawn of the Third Millenium, cit., pp. 77-111.

116 Karl von Appen (1900-1981), scenografo, divenuto famoso per la sua attività al Berliner Ensemble.

117 Erika Fischer Lichte in Edith Hall, Fiona Macintosh, Amanda Wrigley, Dionysus Since 69-Greek tragedy at the Dawn of the Third Millennium, cit., p. 355.

ritmo della voce e dei movimenti e la sua possibilità di modificare lo spazio con la continua metamorfosi della disposizione spaziale, era in grado di produrre una allegoria degli accadimenti. I cori creano un vero e proprio spazio sonoro attraverso la scansione dei versi e il battere dei piedi sul palcoscenico, nel passaggio repentino da basso ad alto, da sospirato ad urlato:

L’immediata sottolineatura delle singole parole attraverso le tonalità più alte interrompe la linearità del flusso del discorso è si oppone – anche nelle canzoni parlate ripetute alla fine – a ogni tipo di omogeinizzazione della struttura melodica119.

Sempre nel 1986, il 17 giugno, nell’antico stadio di Delphi, durante l’Internacional Meeting of Ancient Greek Drama”. ecco il riconoscimento mondiale del regista Theodoros Terzopoulus – fortemente influenzato da Heiner Müller e Bertolt Brecht – di cui fu allievo e con il quale iniziò la sua attività nel 1977, con lo spettacolo le Baccanti., messo in scena con la compagnia da lui fondata, Attis, in onore di Cibele; la prima tragedia greca da lui messa in scena. In questa, tre attori, e quattro attrici seminudi, vestiti di sottane bianche o di abiti fatti di stracci e uncinetto, si muovono come in estasi unendo ai movimenti nello spazio, suoni gutturali, sospiri, come a ricreare un vero e proprio rito; nello spazio dell’orchestra coperto di sabbia, con la parte dei corpi superiori dipinti di bianco: il coro, con la corifea, seduta al centro:

La sua bocca è spalancata, inspira ed espira rumorosamente come gli altri personaggi. La parte alta del corpo è eretta. Alternativamente alza entrambi le braccia all’altezza delle spalle e rimanendo in questa posizione, forma un angolo retto tra il suo braccio e avambraccio come fra l’avambraccio e la mano. Il respiro ritmico e a volume alto è occasionalmente punteggiato da un colpo di tamburo120.

Dopo tale esperienza, in modo programmatico, Terzopoulus si dedicherà solo alla messa in scena di tragedie greche utilizzando alcuni tratti peculiari come la ripetizione di oggetti nello spazio, l’utilizzo di abiti di eguale forgia e colore, caratteristiche che ritroviamo identici nei rifacimenti delle tragedie greche di Muller volte anch’esse alla ricerca di un coro greco oggi:

119 «Die unvermittelte Hervorhebung einzelner Wörter durch die Tonhöhe unterbricht die Linearität des Redeflusses und wirkt – gerade auch in dem ansonsten leiernhaften Sprechgesang am Ende – jedweder Homogenisierung, zumal der melodischen, entgegen». Miriam Dreysse Passos de Carvalho, Szene vor dem Palast. Die Theatralisierung des Chors im

Theater Einar Schleefs, Peter Lang Verlag, Frankfurt am Main 1999, p. 121.

120 «Her mouth wide open, she breaths loudly in and out like other figures. Her upper body is erect. She alternately lifts both arms sideways to shoulder height and whilst doing so, she form a right angle between her upper and lower arm as well as her lower arm and hand. The loud rhythmic breathing is occasionally punctuated by a drumbeat»Erika Fischer- Lichte, Transformations – Theatre and ritual in the Bacchae, Journey with D,p. 104.

Il coro è una massa emancipata [...] è la radice del teatro.[...[ Indipendentemente dal comparire in un dramma antico o moderno, il coro ha la capacità di mettere in luce un eroe, ma anche di lasciarlo nuovamente scomparire, di lasciarlo nuovamente inghiottire. Questo ha qualcosa di spaventoso121.

Alla fine degli anni Settanta assistiamo alla messa in scena dell’Antigone di Holderlin da parte di Christoph Nel, allo Schauspiel di Francoforte, come suggello della riflessione sugli eventi terroristici dellka RAF. I canti del coro vengono drasticamente ridotti, ne rimarranno due, – rimane il famoso canto “Ungehuer ist viel. Doch nichts/Ungeheuerer, als der Mensch” – in collaborazione con il dramaturg Urs Troller i cori vengono letti da un’unica attrice, Claire Kaiser, illuminata a malapena da una lampada da ufficio con il paralume di colore verde, posta a terra e intorno a lei un gruppo di sei persone, un vero e proprio «Anti-Chor»122, che avrà il merito di influenzare gran parte della scena degli anni Ottanta e Novanta:

una sgangherata brigata di ubriachi: sei figure nevrotiche e demenziali (quasi alla Bernhard) – il turista tedesco in pantaloncini corti, camicia hawaiana e immancabile cappello veneziano con nastro, i due clown, la spogliarellista biondo platino, abito scintillante e mantellina trasparente, il rockettaro fasciato in pelle e il funzionario in smoking – che degradano il sacro culto di Dioniso [...] alla degenerata misura neocapitalistica del Carnevale di Colonia123.

Un gruppo che, come un elemento di disturbo, si aggira per la scena schiamazzando e cantando, dissacrando più volte la messa in scena, dalla vestizione di Antigone prima del suo rifugiarsi nella caverna, con un abito giallo squillante da discoteca, all’inglobamento di Creonte nel gruppo a fine spettacolo, con il preciso scopo di rappresentare lo svuotamento di senso della contemporaneità:

[Christoph] Nel vuole mostrare la quotidiana uccisione dei sentimenti, l’indifferenza già diffusa dallo Zeitgeist a petto dei problemi del tempo che si stanno facendo sempre più grossi124.

121 «Der Chor ist eine emanzipierte Masse. [...] ist die Wurzel des Theaters. [...]Unabhängig davon, ob er einem antiken oder einem modernen Stück erscheint, hat der Chor die Fähigkeit, einen Helden hervorzubringen, aber auch die, ihn wieder verschwinden zu lassen, ihn wieder zu verschlingen. Das hat schon etwas Erschreckendes». Frank M. Raddatz,

Der Chor ist eine emanzipierte Masse. Ein Gespräch mit dem griechischen Regisseur Theodoros Terzopoulos, in

«Theater der Zeit», n. 4, April 2006, p. 26.

122 Detlev Baur, Der Chor im Theater del 20. Jahrhunderts, cit., p. 167. 123

Claudio Longhi, Antigone o Della Germania. Per una “storia” delle “rappresentazioni” di Antigone in area tedesca

del secondo Novecento, in Roberto Alonge (a cura di), Antigone, volti di un enigma. Da Sofocle alle Brigate Rosse, cit,

p. 317.

124 S. Diehl, Kreon in der Karnevalgesellschaft, in «Frankfurter Allegemeine Zeitung», 6 novembre 1978 e R. De Monticelli, Divide il teatro delle due Germanie l’Antigone di Francoforte, in «Corriere della Sera», 1 maggio 1979, in Claudio Longhi, Antigone o Della Germania, cit., p. 318.

Appunto un anti-coro, che guarda alla coesione come ad una vacua bestialità, un non-senso infinito. Una completa disgregazione della società. Il coro muore come entità e diviene pura rappresentazione di un gruppo corale; una tendenza alla dissoluzione del coro in senso straniante e grottesco, come portatore di frammenti di realtà che uccidono il fare scenico, per renderlo ancora più autentico125.