II. La regia di massa
II. 2. Max Reinhardt: dalla Tragedia al “Teatro dei Cinquemila”
Reinhardt recuperò notevoli impulsi dalla partecipazione agli spettacoli della «Der Akademische Verein für Kunst und Litteratur» e, nel 1901, nasce la collaborazione con Hofmannsthal98
allo scopo di portare in scena una riscrittura dell’Elettra. Il 30 ottobre 1903 al Kleines Theater fu rappresentata Elektra. Tragödie ineinem Akt frei nach Sophokles (Elettra. Tragedia in un atto liberamente tratta da Sofocle), poi una Medea di Grillparzer nel 1904, un’Antigone nella traduzione di Karl Vollmoeller sempre al Kleines Theater nel 1906. Il repertorio classico99 era fortemente intrecciato anche all’utilizzo di altri testi, ma è ovvio come sia stato proprio questo interesse per tali riscritture ad indurre ad un uso particolare dello strumento performativo coro. Prima di tutto, già dal 1902, si imponeva l’esigenza di un nuovo spazio teatrale
un Festspielhaus [...] a forma di anfiteatro, senza sipario, senza quinte, forse addirittura senza scene, e in mezzo, incentrando tutto unicamente sull’efficacia della personalità, sulla parola, l’attore, mescolato al pubblico, e il pubblico stesso, divenuto popolo, trascinato dentro, divenuto esso stesso parte dell’azione, parte del testo100.
Il pubblico come popolo, che diviene protagonista della scena. Questo è il primo scopo di Reinhardt e ogni sua soluzione sia dal punto di vista della messa in scena che della creazione dello spazio mira appunto a rendere la massa che assiste protagonista.
Ad esempio, nella messa in scena del testo di Hoffmannstahl, Edipo e la Sfinge, al Deutsches Theater nel 1906 – in uno spazio tradizionale – Reinhardt usa per la prima volta una vera e propria regia di massa, dove il coro viene portato a quasi 150 elementi, quasi un ‘popolo’, dislocato sulla scena o ad invadere la platea. Il parlato era musicale e sinfonico (Sprechgesang): voci singole, declamazioni ritmiche all’unisono, urla, suddivisioni in più toni (soprano, alto, tenore e basso), accompagnati da timpani e violoncelli mentre, talvolta, Reinhardt lasciava che il coro declamasse fuori scena o producesse un semplice tappeto sonoro a ricreare la cosiddetta Sprechmusik, utilizzata anche nella messa in scena del 1909101 della Die Braut von Messina. Un’atmosfera sonora che dilatasse lo spazio chiuso, con il preciso scopo di immergere il pubblico in uno spazio acustico. Nel
97 Cit. in Franca Angelini, Teatro e spettacolo del primo Novecento, Laterza, Bari 1997, p. 232. 98 In questa sede non verrà trattata la collaborazione come librettista con Richard Strauss (1864-1949). 99 Dopo il 1920 non porterà più in scena drammi greci.
100
Max Reinhardt, Il teatro che ho in mente, in Mara Fazio, Lo specchio il gioco l’estasi, cit., p. 158. 101 Nello stesso anno Fuchs chiese a Reinhardt di collaborare al primo Volksfestspiele di Monaco.
1908, Lisistrata al Kammerspiele (in una libera riscrittura di Leo Greiner con un prologo composto da Hofmannsthal) aggiunge anche la pantomima, cioè figure anonime mute che creavano coreografie su interventi acustici, o, sempre nello stesso anno, Dia Räuber (I masnadieri) di Schiller giunge alla vero e proprio “urlo estatico all’unisono”102.
Nel 1910 ecco la celebre messa in scena del König Ödipus103
(Edipo re) nella traduzione e riscrittura di Hofmannstahl, all’interno dell’arena del Circo Schumann, prima a Monaco e poi a Berlino. Il testo presentava la pura dissoluzione del coro ad un unico interlucore, una scelta autorale che lasciò un vasto raggio d’azione a Reinhardt nel passaggio alla rappresentazione scenica. Accanto ad un coro di 27 uomini, che agisce all’inizio presso l’altare, collocato sui gradoni più bassi, inserì una massa di 500 persone, suddivise in tre differenti schieramenti sui due lati della scena e in fondo all’arena, lungo il divisorio della platea. All’inizio l’intero spazio è al buio, poi quando si illumina improvvisamente la scena principale – rappresentante l’ingresso davanti al palazzo – e appare Edipo, accompagnati da un contrappunto ritmico di percussioni (timpani, gong) e organo tutti insieme ripetono all’unisono la supplica:
Edipo, Edipo, re, aiutaci, re? Aiutaci Edipo, re Edipo104.
In questo modo il pubblico è subito indotto ad identificarsi con la massa. Durante lo spettacolo la luce era concentrata sul palcoscenico principale, il coro era illuminato da una luce blu pallida, la massa era in chiaroscuro, trattata secondo una rigida simmetria e alternanza di movimento e statica, tesa a ricreare appunto una Sprechmusik fatta di suoni di varia natura che ricreassero un sostrato sacrale accentuato dalla scelta dell’orario – lo spettacolo iniziava a notte fonda per finire alle prime luci dell’alba e dall’uso di odori. Nella Orestiade, messa in scena la prima volta nel 1911 e 1912 a Monaco e Berlino – senza le Eumenidi – e poi nel 1919 a Berlino presso il Großes Schauspielhaus, nella rielaborazione di Vollmoeller105
. In questo caso, nelle Eumenidi il coro fu eliminato e sostituito con il popolo di argivi, oltre mille comparse, vestiti militarmente con gli elmetti dell’esercito tedesco a ricordare il conflitto appena trascorso. Ciò dipende dalla concezione teatrale di Reinhardt, senza intenti morali ed educativi, ma come luogo di festa, l’unione fra il pubblico e gli accadimenti attraverso il ‘popolo’ che suddiviso in cori e semicori, si muoveva secondo movimenti ondulati, ritornelli, urli e appelli. Nel Dantons Tod (La morte di Danton) di Georg Bücner del 1916, 102 «ekstatischen Unisonoschrei», Julius Bab, Reinhardts Chorregie in «Die Schaubühne», V. Jahrgange, n. 24/25, Berlin 1909, p. 671.
103 Lo spettacolo andò in tuorneè europea ove, talvolta venivano usati attori locali o anche dilettanti per interpretare il coro. Gilbert Murray tradusse il testo dello spettacolo in occasione della rappresentazione a Londra.
104 «Oedipus, Oedipus, König, hilf uns, König! Hilf uns Oedipus, König Oedipus». Cit. in Hellmut Flashar, Die Inszenierung der Antike, cit., p. 127.
il palcoscenico non era illuminato uniformemente ma le singole figure o gruppi erano attivati attraverso una illuminazione con fari diretti, un principio di ricreazione ritmica dello spazio attraverso l’uso ancora di un’illuminazione chiaroscurale106
.
Il saggio di Julius Bab, intitolato Reinhardts Chorregie (La regia corale di Reinhardt) appare nel 1909. Sin dagli inizi, quindi, avviene una stretta corrispondenza tra questi mezzi scenici e il termine coro. Un uso della vocalità politonale per cui ognuno dei cori presenti negli spettacoli:
portava il suo richiamo in un pieno e chiaro unisono, e la loro varietà giungeva ad un ensemble musicale e tonale, ove la differenziazione e l’unità erano presenti contemporaneamente107.
Reinhardt ha usato la massa in modo musicale, con contrasti, ritmo, contrappunti, accompagnati anche dai movimenti, scansioni usate per aumentare la percezione del numero, da centinaia di persone si aveva la percezione anche di migliaia di persone108. Effettivamente è proprio in questo momento che appare un’incomprensione della suddivisone fra coro, massa, coralità, per cui Bab chiama coro non solo gli effettivi cori utilizzati, ma anche gli insiemi composti da centinaia di comparse, che riempivano lo spazio secondo moduli ritmici e con un’organizzazione sinfonica delle emissioni vocali. Se riflettiamo a ciò che è stato detto prima riguardo alla natura del coro, come strumento performativo liminare e liminoide, notiamo, semplicemente, che il percorso nuovo era appunto l’esistenza di un coro di massa. Attraverso l’esperienza della tragedia, la riscoperta del repertorio antico e della sua natura rituale, selvaggia, lontana da un ideale marmoreo neoclassico, Reinhardt attuò una estremizzazione del rapporto fra coro e massa, innescando una tipologia che ritornerà a posteriori, divenendo un paradigma, anche nella la ricreazione di un nuovo tipo di spazio, l’arena o la tenda da circo che si allontanava dalla suddivisione rigida del teatro all’italiana, per divenire il Teatro dei Cinquemila, appunto, inteso però non come la semplice compartecipazione di un pubblico di massa ma di una vera e propria scena di massa. Lo stesso Hoffmanstahl afferma che lo scopo di Reinhardt è di «portare [lo spettatore] ad un sorta di trance attraverso una magia ritmica»109
, ovvero recuperare gli appelli dell’inizio del Novecento ed indurre una particolare forma di Erlebnis attraverso la dilatazione di ogni mezzo a disposizione:
106 Uguale soluzione in Sportstück per la regia di Einar Schleef. Si veda il Capitolo quinto.
107 «[...]jeder dieser Chöre brachte seine Rufe in vollendet klarem Unisono, und ihre Vielfalt verschlang sich dann zu einem musikalisch abgetönten Ensemble, in dem Differenzierung und straffe Einheit zugleich waren». Julius Bab,
Reinhardts Chorregie, cit., p. 670. 108 Ivi, p. 672.
109 «durch einen rhythmischen Zauber in eine Art Trance zu bringen». Cit. in Hugo Fetting (a cura di), Max Reinhardt. Leben für das Theater. Briefe, Reden, Aufsätze, Interviews, Gespräche, Auszüge aus Regiebüchern, Argon, Berlin/DDR
Tutti coloro che sono in teatro, – sul palcoscenico o in platea – sperano, consapevolmente o inconsapevolmente, di superarsi, di dimenticarsi di se stessi, o di svegliarsi. Essi cercano l’estasi, il frastuono, che potrebbero altrimenti trovare solo nella droga110.
«Droga» che indica chiaramente un parallelismo con il rito, lo sciamanesimo, l’uscire fuori da sé, attuato attraverso la magia registica, ovvero l’azione del regista-demiurgo che espande il ritmo nelle sue declinazioni mimico-gestuali, vocali, spaziali, luministiche essendo tra i primi, se non il primo, a dimostrare l’utilità del coro e la massa come insieme di «corpi energetici»111
, come vitale alternativa rispetto al protagonista nel teatro di prosa:
Il coro deve produrre ogni tipo di suono immaginabile: borbottii, rantolii, urla, singhiozzii. E anche quando il coro parla, non il senso delle parole da essere importante, ma i suoni.112.
Secondo Baur il coro di Reinhardt «a causa della vicinanza con il pubblico non ha più il suo statuto speciale, è molto di più un ‘trucco’»113
, conclusione che chi scrive giudica errata. Se il compito del coro greco era appunto unire la scena e gli spettatori, tenere il tempo della narrazione anche quando non era coinvolto nello svolgersi degli accadimenti (i suoni gutturali cui accenna Flashar), sembra invece che proprio Reinhardt abbia compreso per primo il moderno statuto speciale del coro. Bab sottolinea come grazie all’uso dell’illuminazione il regista mostri «insieme una differenziazione ed una severa unità»114
, riesca quindi ad unire il bisogno di un quadro di insieme particolareggiato a una massa indistinta, a metà tra liminale e liminoide esattamente come la massa di spettatori chiamati ad assistere, ovvero a esperire un rito teatrale o un teatro rituale.