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Riflessioni intorno al coro tragico e la sua ‘invenzione’ nel Cinquecento

II. L’uso del coro nella teatralità latina e il suo influsso fino alla fine del Settecento

II. 3. Riflessioni intorno al coro tragico e la sua ‘invenzione’ nel Cinquecento

Alla fine del Quattrocento e per tutto il Cinquecento, dunque, la cultura classicista degli eruditi umanisti tenta di ridefinire il teatro, di riscoprirlo attraverso gli esempi dell’antico quali il De Architectura di Vitruvio da una parte e le poetiche di Aristotele170

e di Orazio dall’altra. Una riscoperta del teatro che si dispiega sotto forma privata, recitata all’interno di cortili e palazzi, presso le corti o le Accademie le quali daranno un notevole impulso alla scelta del repertorio171

. La consapevole riflessione intorno al coro teatrale appare prepotentemente quando si ‘riscopre’ la tragedia, per una logica evoluzione, in quanto, come affermato precedentemente, nel caso della Commedia – già a partire dall’ellenistica Nea – le parti corali erano state eliminate.

Un’analisi di questi tentativi non deve indurre a cercare gli slittamenti rispetto ad un nucleo originario, proprio per non cadere nell’inganno di uno sguardo a posteriori che indugi su errori in realtà logicamente inesistenti:

La biga alla locomotiva, e non viceversa. Si parla di incomprensioni di Vitruvio, come se l’«invenzione» del teatro non fosse l’effetto anche di quelle incomprensioni. Si parla di tradimenti, come se la traiettoria verso il teatro antico fosse invece una traiettoria dal teatro antico. Si parla di difetti ed errori, come se non si trattasse, com’è ovvio, di scoprire lo sconosciuto ma, al contrario, di rilevare il già noto172.

Lo sconosciuto, il coro tragico diviene, quindi, «inventio come ritrovamento e come creazione»173. Una creazione ex novo rafforzata dalla mancanza di dati, e, si ribadisce, dalla stessa natura ibrida di questo strumento come appare attraverso le sue rimanenze materiali, per cui, a partire proprio dal XVI secolo inizia il filone dell’invenzione del coro che ci porterà fino ai giorni nostri secondo una formulazione ogni volta diversa grazie alla natura del rapporto tra il concetto rappresentativo teatrale e l’ambito sociale in cui questo ritorna.

Il tardo Rinascimento europeo guarda soprattutto all’esempio dell’opera senechiana pur quando riflette sul repertorio classico, al primato del lamento rispetto all’azione, secondo una mentalità

170 La prima traduzione in latino della Poetica di Aristotele appare nel 1498 a cura di Giorgio Valla. 171

Le commedie di Plauto e Terenzio e le tragedie di Seneca in latino, le cui rappresentazioni furono promosse, ad esempio, dall’Accademia di Pomponio Leto a Roma.

172 Franco Ruffini, Teatri prima del teatro. Visioni dell’edificio e della scena tra Umanesimo e Rinascimento, Bulzoni, Roma 1983, pp. 23-24.

173

Fabrizio Cruciani, Presentazione al fascicolo monografico dedicato allo spettacolo del Cinquecento, «Biblioteca Teatrale», VI, 1974, nn. 15-16, p. 3.

allegorica di derivazione medievale che identifica la tragedia come exemplum da cui apprendere il dominio delle passioni e come prodotto d’ingegno da ascriversi, nonostante i tentativi di messa in scena, in primo luogo alla sfera letteraria esattamente come la trattatistica cinquecentesca, sia a causa delle affermazioni dello stesso Aristotele riguardo ad una completa autonomia letteraria della poesia drammatica174

che in seguito all’evoluzione della teatralità a partire dall’epoca latina175

.

Nella prima tragedia scritta in volgare senza rime, la Sofonisba (1514/1515), dal fisico, architetto e letterato Giangiorgio Trissino – stampata nel 1524 e messa in scena nel 1562 nella Basilica di Vicenza da parte di Andrea Palladio – vi è un largo uso del coro176, il rispetto delle tre unità e la compresenza di non più di tre personaggi dialoganti per volta mentre la trama è di origine latina, da un episodio della seconda guerra punica raccontata da Livio (Sofonisba è la figlia del comandante Asdrubale), quindi è già presente quella contaminazione fra il mondo classico e latino che si ritroverà, a partire dalla nascita del teatro moderno, in tutte le riflessioni e le modellazioni intorno al tragico.

Difatti è proprio l’Ars Poetica oraziana, più che la Poetica di Aristotele, ad influenzare la drammaturgia posteriore, anche attraverso occasionali refusi in alcuni commentari. La convinzione, ad esempio, che anticamente il corifeo fosse l’unico a declamare le parti corali degli epeisodia, in versi giambici, è dipesa anche da una specifica interpretazione – a partire da Bernardino Daniello nel 1536 – di un passaggio oraziano: l’«officium(que) virile»177

, «l’ufficio individuale» inteso come il compito di un singolo uomo e non come l’azione del coro all’unisono178

. Robortello, nel suo In librum Aristotelis De Arte Poetica Explicationes179

, del 1548, differenzia ancora affermando che il corifeo greco declamava le parti parlate, mentre il coro cantava, e Alessandro Piccolomini, nel 1572, nelle sue Annotazioni nel libro della Poetica d’Aristotele, giunge alla definitiva formulazione del coro come unione di due diverse componenti performative, un declamatore singolo in qualità di rappresentante che interagisce con gli altri personaggi e i canti

174

«L’efficacia della tragedia infatti si conserva anche senza la rappresentazione e senza gli attori ed inoltre per la messa in scena è più autorevole l’arte della scenografia che non quella della poetica», in Aristotele, Poetica, cit., p. 71. 175 Su questo cfr. Marco De Marinis, Aristotele teorico dello spettacolo, in AA.VV., Teoria e storia della messinscena nel teatro antico, Costa & Nolan, Genova, 1991, pp. 9-23.

176

Già dopo qualche decennio il coro viene isolato e ridotto funzione di mero interludio, con caratteristiche allegoriche, come il «Coro delle Virtù» ne l’Horatia di Aretino (1546).

177 «Actoris partes chorus officiumque virile», Quinto Orazio Flacco, Arte poetica, introduzione e commento di Augusto Rostagni, Loescher, Torino 2002, p. 57.

178

«Il coro sostenga la parte e l’ufficio individuale d’un attore» in Quinto Orazio Flacco, L’arte poetica, G. Fiandra (a cura di), cit., p. 28.

179 Nella stessa opera sono contenuti altri cinque trattati in cui Robortello applica i principi aristotelici a generi poetici non trattati dallo stesso Aristotele, presenti con il titolo di Explicationes de satyra, de epigrammate, de comoedia, de

elegia, de salibus, in Bernard Weinberg (a cura di), Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, Vol. I, Laterza, Bari

eseguiti all’unisono dal tutto il gruppo180

. Friedrich Klein riporta un esempio ancora più eclatante, estratto dal compendio di Robortello: Orazio, in accordo con quanto affermato da Aristotele, descrive il coro come «actoris partes», quindi con funzione di attore, in Robortello questa formula diviene «authoris partes»181, da qui un decisivo rafforzamento del coro secondo il modello senechiano, con funzione di commento e portavoce del punto di vista dell’autore, eliminando definitivamente una sua possibile interazione attiva negli accadimenti.

Una serie di invenzioni e slittamenti dovuti proprio al rapportarsi con un elemento ignoto, come ricorda Giraldi Cinzio, nella dedica182 rivolta al Duca Ercole d’Este di Ferrara – apposta all’inizio della sua tragedia Orbecche modulata non sul modello antico greco ma su quello senechiano, soprattutto nella ricerca di effetti orrorifici che in seguito andranno ad influenzare il teatro elisabettiano e spagnolo183 – datata 1541:

E posto che ciò sia difficile in ogni sorte di composizione, egli è sommamente difficile quando altri si dà a scrivere in quella maniera de’ poemi che sono stati per tanti secoli tralasciati. [...] et appresso e’ Greci, che la tragedia trovaro, et appresso e’ Latini, togliendola da essi, senza alcun dubbio, assai più grave la fecero. Et ancota ch’Aristotile ci dia il modo di comporle, egli oltre la sua natìa oscuritade, la quale (come sapete) è somma, riman tanto oscuro e pieno di tante tenebre – per non vi essere gli auttori de’ quali egli adduce l’auttoritadi e gli essempi per confirmazione degli ordini e delle leggi ch’egli impone agli scrittori d’esse – ch’a a fatica è intesa non dirò l’arte che egli insegna, ma la diffinizione ch’egli dà della tragedia184.

Ciò portò, a causa soprattutto di una forma mentis cortigiana, ad integrare i precetti aristotelici con quanto indicato nei testi latini maggiormente familiari, creando sorte di parafrasi riscontrabili ad esempio nella V e VI parte della Poetica del Trissino (1549 ca.):

Il coro poi si introduce di uomini o di donne savii e buoni e compassionevoli et amorevoli agli afflitti, e quasi rappresenta la persona del poeta. Ma quantunque il detto coro si introduca ne tragedie di quindeci persone [...] nondimeno una sola di esse persone dee parlare e dee essere parte della tragedia et operare

180 In Friedrich Klein, Der Chor in den wichtisgen Tragödien der französischen Renaissance, Erlangen, Leipzig 1897, p. 128.

181 Robortello, ivi, p. 132. 182

Contenuta, con il titolo di Dedica all’«Orbecche» in Bernard Weinberg (a cura di), Trattati di poetica e retorica del

Cinquecento, cit., Vol. I, , pp. 409-413.

183 In Spagna l’interesse nei confronti della tragedia sorge a metà del Cinquecento attraverso, appunto, la riflessione intorno al trattato aristotelico e a quello oraziano, oltre che alle tragedie senechiane; particolarità fu una maggiore libertà nel seguire i precetti, ad esempio una suddivisione in tre atti piuttosto che in cinque, e la quasi totale scomparsa del coro, fatta eccezione per rarissimi esempi. Cfr. Daniela Capra, I Secoli d’Oro del teatro spagnolo, in Roberto Alonge e Guido Davico Bonino (a cura di), Storia del teatro moderno e contemporaneo, Einaudi, Torino 2000, La

nascita del teatro moderno, Vol. I, pp. 669-803. 184

Giraldi Cinzio, Dedica all’«Orbecche», in Bernard Weinberg (a cura di), Trattati di poetica e retorica del

insieme con gli altri, come si vede che fanno appresso Sofocle et Euripide. Le altre persone poi del detto coro denno tutte entrare nei luochi opportuni, cioè nei fini degli atti o vero degli episodii, e cantar denno cose appertinenti alla azione et alla favola e non diverse o discrepanti da essa, il che specialmente fece Sofocle185.

Il Trissino, classicista, unisce entrambe le formulazioni e indica come imprescindibile la sobrietà e l’istanza morale sino ad indicare chiaramente come il coro sia rappresentante dell’autore stesso, ribadendo la presenza di una sola persona declamante che interagisca con gli altri attori attraverso la legittimazione degli esempi dell’antico, mentre l’intero gruppo, composto da quindici coreuti come indicato da Aristotele, può intervenire unicamente alla conclusione dei singoli atti – da lui identificati come identici agli epeisodia – e cantare unicamente ciò che è pertinente agli accadimenti narrati. La consapevolezza che i greci cantassero influisce sulla scelta di un linguaggio in versi che si adatti all’esecuzione delle tipologie canore a lui contemporanee:

Vero è che si come gli antiqui poeti nelli loro cori poneano ditirambi et anapesti, i quali si cantavano, a me è paruto in vece di quelli usare nella lingua nostra canzoni e rime che sono cose attissime a cantarsi, le quali però denno essere convenienti alla materia di che la tragedia tratta186.

Il percorso non fu, però, scevro da diatribe e ripensamenti fra chi piegava all’occorrenza i precetti stilistici e chi, invece, desiderava una più profonda attinenza filologica. Il Cinzio, in una lettera187

(1543) al duca – scritta dopo che un cenacolo di «begli ingegni e nobili spiriti»188 , intervenuto alla lettura (recitatio) della Didone, gli aveva mosso diverse obiezioni – delinea una serie di precetti da seguire nella composizione della tragedia, come il l’obbligo di affidarsi sia ad Aristotele che a Orazio, giudicati identici, l’essere consapevoli però della superiorità della tragedia romana senza dimenticare la necessaria innovazione e esplicita ciò che accomuna il pensiero tra Cinquecento e Seicento ovvero una diffidenza cortigiana nei confronti del popolo per cui il coro greco, identificato appunto con la plebe, diviene elemento indecoroso.

Riguardo alla scelta della suddivisione in atti, indicata nella poetica oraziana e contestata dai puristi aristotelici, egli afferma:

i Greci questo artificio non usarono, perché mai la scena non rimaneva vòta appresso a loro. Perché sempre vi era il coro, come oltre all’auttorità di Aristotele si vede manifestatamente nelle favole greche che

185

Trissino, Poetica, in Bernard Weiberg (a cura di), Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, cit., p. 23. Intero brano, pp. 6-90. Vol. II.

186 Ivi, p. 44.

187 Contenuta, con il titolo di Lettera sulla tragedia, in Bernard Weinberg (a cura di), Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, cit., Vol. I, pp. 469-486.

hanno superata l’ingiuria del tempo. Ma tengo certo che in questa parte molto meglio vedessero i Romani

[che] i Greci, imperò che non è punto verisimile che le grandi e signorili persone vogliano trattare le azioni di molta importanza, come sono quelle che vengano nelle tragedie, nella moltitudine delle genti, quantunque famigliari189.

A causa, quindi, della suddivisione netta dei generi – tragedia, commedia e favola pastorale – che andava cristallizzandosi, fra sperimentazioni e ripensamenti, nel corso del Cinquecento, il coro subisce nuovamente un isolamento in conseguenza della sua irriducibile natura ibrida; in quanto rappresentante del popolo non può essere contemplato nella tragedia, intesa come «imitazione di una azione nobile»190

, da inquadrarsi nell’aura cortigiana191

lontana dal quel volgo che è soggetto specifico della commedia, mentre può al contrario, integrarsi perfettamente all’interno del genere misto, la tragicommedia e la favola pastorale anche grazie alla sua natura multimediale. Il coro lentamente ritorna ad essere intermezzo – o forse non si allontanò mai da questo stadio – ovvero frammento virtuosistico da inserire durante le pause fra un atto (o quadro) e l’altro, in quello spazio della rappresentazione per tradizione votato a un maggiore libertà spettacolare, mentre:

il vedere ivi molte fiate stare una moltitudine di persone, come è quella del coro, muta e senza necessità, occupare la scena, arreca noia e fastidio agli spettatori192.