§ 134. Gli inizi
L’antropologia medica è il settore della ricerca antropologica che studia i fattori che causano, mantengono o contribuiscono a situazioni di malattia all’interno delle popolazioni umane, e le strategie e le pratiche che le diverse comunità umane hanno sviluppato al fine di rispondere alle malattie stesse202. Questo, almeno, sulla carta e ai suoi inizi. Nei fatti, la storia stessa
dell’antropologia medica ha costretto i ricercatori a una continua revisione concettuale, fino al punto che oggi, in alcuni luoghi, si preferisce parlare di antropologia della salute ed evitare di definire come “malattia” le situazioni in cui la salute viene meno. La storia disciplinare dell’antropologia medica si sovrappone in modo particolarmente nitido ai suoi sviluppi concettuali.
Lo scambio e la relazione fra l’antropologia e la medicina moderna sono cominciate alla fine dell’Ottocento, con l’opera pionieristica di Rudolph Virchow, e sono proseguite nella prima metà del Novecento con le opere di antropologi che, nel descrivere le culture tradizionali oggetto dei loro studi, avevano dedicato attenzione ai sistemi di cura – si vedano, ad esempio, i lavori di Rivers, Clements, Evans-Pritchard, Ackerknecht, Douglas e Turner203.
In quanto sottodisciplina dell’antropologia dotata di uno statuto definito, tuttavia, l’antropologia medica compare solo negli anni Cinquanta del Novecento204. Le sue radici
prossime si trovano nella convergenza, alla fine della seconda guerra mondiale, di diverse prospettive di intervento e di ricerca: il lavoro iniziale di definizione dell’antropologia medica fu reso possibile dall’esistenza di studi etnografici sui riti e le religioni, dalle ricerche della scuola etnologica culturale e della personalità, dalle solide fondamenta dell’antropologia fisica e dall’azione decisiva di un ampio movimento internazionale per la salute pubblica205. Il clima
generale era di cauto ottimismo e di inflessibile buona volontà: nell’intento di congedarsi definitivamente dai fatti atroci del periodo bellico e di riprendere le fila di un progresso che sembrava esser stato solo interrotto dalle due guerre mondiali, l’impegno individuale e istituzionale era per un’idea di mondo finalmente unificato, dove i benefici della medicina occidentale avrebbero infine raggiunto tutti i popoli, unificando l’umanità all’insegna del progresso comune. L’istituzione stessa dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Salute, nota anche come WHO nei paesi anglosassoni) nel 1948 testimonia appunto di questa koiné ed era semplicemente impensabile, al’epoca, che il progresso da perseguire potesse essere altro da quello della civiltà occidentale egemone.
È proprio sotto l’egida dell’OMS che, intorno agli anni Cinquanta, molti antropologi cominciarono a essere coinvolti in questioni di salute internazionale e trovarono posto in ambito clinico e accademico come insegnanti, ricercatori, amministratori e clinici. L’orientamento teorico-pratico era quello che, qualche tempo dopo, sarebbe stato battezzato come “salute per tutti”, ovvero l’implementazione di politiche locali, nazionali e internazionali che permettessero all’intera popolazione mondiale di aumentare il livello della salute di base e la qualità delle cure primarie disponibili. Nei fatti, questo si traduceva nel tentativo di estendere a tutto il globo le strategie di salute di base (farmaci, strumenti, tecniche igieniche ecc.) elaborate dalla biomedicina nel corso dell’ultimo secolo, la cui universale validità e desiderabilità era data per
202 Baer, Singer & Susser 1997.
203 Rivers 1924; Clements 1932; Evans-Pritchard 1937; Ackerknecht 1943, 1946; Douglas 1966;
Turner 1967, 1968.
204 Worsley 1982; Young 1982; e Landy 1983 sono ottime introduzioni alla storia dell’antropologia
medica.
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scontata. E proprio qui il progetto incontrò un ostacolo che, negli anni seguenti, si sarebbe rivelato foriero di enormi sviluppi teorici.
Ci si rese conto assai presto, infatti, che non bastava “portare” le cure di base della biomedicina presso gruppi che si curavano altrimenti perché queste fossero accettate, integrate e usate nel modo corretto. Di fatto, ovunque arrivassero, i rimedi della biomedicina erano letti e interpretati secondo la logica terapeutica locale e finivano quindi, agli occhi dei medici occidentali, con l’essere usati in una miriade di modi impropri e imprevedibili. Perché le popolazioni non occidentali (e cioè, non già “fatte” di biomedicina, di separazione fra natura e cultura ecc.) potessero fare dei nostri farmaci lo stesso uso che ne facciamo noi, era innanzitutto necessario renderle adatte alla logica terapeutica a essi sottostante, e quindi iniziarle a una diversa cosmovisione.
Gli antropologi si ritrovarono alle prese, una volta di più, con una questione ben nota nella loro disciplina: gli oggetti non sono neutri. Ogni manufatto è l’esito di una storia umana e dell’insieme di teorie, implicite ed esplicite, che essa porta con sé e che stabilisce modi, criteri e valori. Se ai nostri occhi l’aspirina è, assai banalmente, un farmaco che agisce con effetto antalgico sulla biochimica del corpo, non bisogna dimenticare che le idee stesse di farmaco (in quanto elemento diverso dal cibo, ad esempio), di corpo (in quanto separato dalla mente), di
chimica organica (in quanto diversa dall’emozione o dall’inorganico) e di dolore (in quanto evento avverso intrinsecamente indesiderabile) sono produzioni storiche, elaborate all’interno della nostra cosmovisione nell’arco della sua traiettoria storica, e non concetti universali. Altrove il rapporto col corpo, la salute, la malattia e il dolore possono essere diversissimi dai nostri – fino a rendere impossibile tradurre, senza lunghe operazioni di mediazione concettuale, anche le parole che a noi sembrano più scontate. Inoltre, salvo ipotizzare che la fisiologia umana sia universale (ciò che, come abbiamo visto nel capitolo precedente, è impossibile), perfino l’idea di “azione naturale” del farmaco va rivista e contestualizzata206.
Il primissimo ruolo degli antropologi in quest’impresa ciclopica fu dunque quello dei mediatori. Idealmente, l’antropologo avrebbe dovuto affiancare il medico e, in base alla sua conoscenza del contesto culturale e della tradizione terapeutica locale, “far da ponte” in vista di un accesso più o meno universale alla logica terapeutica e ai rimedi della biomedicina. Questa posizione particolare permise loro – anche, e soprattutto, quando prima che antropologi erano medici – di entrare in contatto con diversi sistemi terapeutici e di cominciare a comprenderne le logiche, gli strumenti e i dispositivi. Si avvidero, per cominciare, che diverse cosmovisioni declinano in modi diversissimi la posizione degli umani nel mondo, le idee su come sono fatti, il senso della salute, la causalità delle malattie207 – e che questi modi non sono né casuali, né
concettualmente poveri, né operativamente inefficaci, ma finemente attagliati all’impianto culturale, alle condizioni ecologiche e ai bisogni della popolazione che li ha sviluppati. La granitica certezza nell’indiscussa superiorità della biomedicina cominciò lentamente a venir meno.
§ 136. Etnomedicina
L’etnomedicina fu, in un certo senso, la prima e fondamentale tappa di questo processo di relativizzazione. Definita ai suoi inizi come «lo studio delle medicine delle popolazioni tradizionali», era quella parte della ricerca etnografica e antropologica dedicata allo studio dei sistemi di cura tramite l’osservazione e la descrizione delle pratiche igieniche, preventive e curative con riferimento ai parametri spazio e tempo. Nella sua prima fase, dunque, l’etnomedicina accumulò una messe di dati che divenne, in seguito, il fondamento fattuale per
206 Singleton 2004. 207 Caudill 1953.
191 un ripensamento globale della salute, della malattia e del loro senso presso le diverse popolazioni.
Questo passaggio si giocò attorno all’efficacia dei rimedi provenienti da tradizioni terapeutiche non occidentali. Se nelle etnografie della prima metà del Novecento capita spesso di leggere descrizioni condiscendenti delle terapeutiche locali, nelle quali è chiaro che lo scrivente ne presuppone l’inefficacia, verso la metà del secolo – grazie a figure innovatrici e controcorrente, fra cui anche il medico italiano Antonio Scarpa – i rimedi tradizionali cominciano a essere studiati presupponendone l’efficacia208. Il rovesciamento di prospettiva si
fondava sull’idea che quando un gruppo umano, nella cura di una specifica malattia, utilizza da lungo tempo un certo rimedio, è sensato presuppore che sia perché, nel corso del tempo, tale rimedio si è dimostrato efficace. Di fatto, nella quasi totalità dei casi, gli studi di laboratorio condotti su rimedi provenienti da terapeutiche non occidentali hanno rilevato la presenza di principi attivi tratti dal regno vegetale, animale o minerale.
La “scoperta” della valenza propriamente farmacologica dei rimedi non occidentali ebbe una conseguenza di portata enorme: l’industria farmaceutica – sempre alla ricerca di nuove molecole attive da introdurre nel mercato – cominciò a interessarsi delle ricerche etnomediche, promuovendo lo sviluppo di una serie di sottodiscipline (quali l’etnobotanica, l’etnozoologia e l’etnofarmacologia) mirate, appunto, all’identificazione di principi commercializzabili. Questa
liason dangereuse fra ricerca antropologica, ricerca medica e industria farmacologica ebbe conseguenze di enorme rilievo.
Dal punto di vista etico e delle relazioni fra gruppi umani, fu un disastro: l’ingresso delle piante e dei principi attivi nel circuito commerciale ha innescato tutti i consueti paradossi dello sfruttamento, dello “sviluppo” e del plusvalore, per cui i popoli che per primi hanno impiegato una pianta a fini terapeutici si sono poi spesso trovati costretti a coltivarla in modo intensivo a detrimento degli equilibri ecologici locali e perfino impossibilitati a utilizzarla per via del copyright imposto dall’industria.
Dal punto di vista epistemologico, invece, l’impiego farmaceutico dei principi attivi contenuti nei rimedi tradizionali rappresentava una potentissima convalida della loro efficacia. Ma se i rimedi delle terapeutiche tradizionali hanno un’effettiva efficacia, comprovata dalla biochimica, allora bisogna ammettere la validità conoscitiva e operativa dei processi culturali che hanno portato alla loro scoperta e al loro utilizzo. Il che significava ammettere che le conoscenze dei popoli tradizionali potevano essere messe sullo stesso piano delle conoscenze “scientifiche” della medicina occidentale.
Questo passaggio, che nella ricerca etnomedica e medico-antropologica era già in qualche modo compiuto fin dalla fine degli anni Sessanta, fu fatto dalle istituzioni in modo più lento e coincide con il periodo più propulsivo e innovativo nella storia dell’OMS209. Il Programma
Medicina Tradizionale, sviluppatosi attraverso una serie di risoluzioni adottate dall’Assemblea Mondiale della Sanità e dai Comitati Regionali dell’OMS, nacque infatti proprio come risposta alle esigenze poste da un rinnovato interesse per le terapie popolari: esso mirava all’identificazione e, se il caso, all’utilizzazione all’interno dei servizi sanitari nazionali di quanto esse potevano validamente offrire210.
Nel 1978, in seno alla «Conferenza internazionale sull’assistenza sanitaria di base», la
Dichiarazione di Alma Ata pose le fondamenta storiche della politica ufficiale del Programma Medicina Tradizionale, aprendo le porte al dialogo fra il sistema tradizionale di assistenza sanitaria e quello moderno. La Dichiarazione impose tuttavia un vincolo importante: si volle infatti che il sostegno alle medicine tradizionali, ai loro rimedi e a coloro che le praticano non tenesse conto delle ciarlatanerie ma promuovesse soltanto quelle pratiche che, sulla base delle moderne sperimentazioni medico-scientifiche, fossero risultate sicure ed efficaci. Si trattava di un passo avanti importantissimo che già rivelava, in filigrana, l’ostacolo maggiore contro il
208 Scarpa 1965; Scarpa & Guerci 1996. 209 Guerci 1996.
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quale si sarebbero urtate le ricerche medico-antropologiche dei due decenni successivi: la difficoltà, per non dire l’impossibilità, di distinguere scientificamente le “ciarlatanerie” dalle “pratiche efficaci”, gli “stregoni” dai “medici”211.
L’intersezione fra studi etnomedici e OMS proseguì ancora, in una storia che merita oggi di essere ricordata per via del coraggio istituzionale di cui diede prova, e che oggi sembra scomparso dall’orizzonte. Nel 1987 la 40a Assemblea Mondiale della Sanità sollecitò gli Stati membri a promuovere programmi integrati sulla preparazione, coltivazione e conservazione delle piante medicinali. Un anno dopo, durante la 41a Assemblea Mondiale, la Dichiarazione di Chiang Mai sul tema “Salvare vite salvando piante” riconobbe le medicine tradizionali come elemento essenziale di cura212. Nel 1989 la 42a Assemblea incoraggiò l’inventario delle pratiche
tradizionali nei diversi paesi. La 44a Assemblea, nel 1991, adottò la risoluzione WHA44.34, tesa a stimolare la cooperazione fra chi pratica la medicina tradizionale e chi fornisce assistenza sanitaria moderna; speciale attenzione venne data all’uso dei rimedi tradizionali che secondo i parametri di validazione scientifica occidentali risultino provati, sicuri ed efficaci: lo scopo era (ed è) quello di ridurre le spese farmaceutiche nazionali. Nell’ottobre 1991 il governo cinese, sostenuto dall’OMS, finanziò e organizzò una Conferenza Mondiale sulla Medicina
Tradizionale, che si concluse con quattro obiettivi: fondazione di una Associazione mondiale per scambi accademici; formazione del personale sanitario; designazione del 22 ottobre come “Giornata mondiale della Medicina Tradizionale”; fondazione di una rivista internazionale. L’obiettivo futuro dichiarato era di pervenire alla sintesi fra medicina moderna e medicine tradizionali, e aprire un cammino ove le due forme di cura coabiteranno arricchendosi l’una a contatto dell’altra. Infine, verso la fine del secolo, l’azzardo teorico dei primi pionieri dell’etnomedicina trovò la sua più piena conferma istituzionale nella Dottrina della Sicurezza
Ragionevole: le linee guida dell’OMS prevedono infatti che, laddove la sperimentazione chimico-clinica sulle molecole, condotta secondo i parametri biomedici, non sia disponibile, si possa fare affidamento sull’uso tradizionale: l’uso tradizionale, protratto per secoli presso una stessa popolazione oppure diffuso in modo convergente presso popolazioni differenti, può essere considerato sufficiente garanzia di efficacia e sicurezza per l’impiego del rimedio213; in
assenza di uso tradizionale si deve invece seguire la stessa legislazione che si applica ai farmaci. Secondo la massima autorità mondiale sulla salute, insomma, la sperimentazione è avvenuta anche attraverso secoli di applicazione empirica che possono testimoniare un segnale tangibile di efficacia.
In tempi più recenti, e in parallelo con le evoluzioni dell’antropologia medica, si è proposto di definire l’etnomedicina come «lo studio delle medicine tradizionali dei popoli» – uno spostamento minimo, che sottende tuttavia un enorme spostamento concettuale. In questa seconda definizione rientra infatti anche la biomedicina, che può infine essere osservata come la medicina di un gruppo umano specifico: quello degli occidentali moderni.
Resta qualcosa da dire a proposito della difficoltà di distinguere fra “ciarlatani” e “terapeuti”, poiché si trattò, ancora una volta, di un passaggio teorico cruciale. Quando l’etnomedicina cominciò a studiare “scientificamente” i rimedi provenienti dai sistemi terapeutici non occidentali lo fece isolando il principio attivo da tutti gli altri elementi che compongono la cura. Questo corrisponde perfettamente alla nostra logica – medica e, più generalmente, umana – e ne soddisfa i presupposti: si tratta infatti di capire quale singolo elemento sia portatore delle proprietà naturali che servono per la cura di ciò che, nel corpo, è appunto natura. Si trattò quindi, in primo luogo, di separare la parte secondo noi efficace della cura (il principio attivo) dalla parte che secondo noi era solo di contorno: la figura del terapeuta, la circostanza dell’uso, la ritualità della cura ecc.; e poi di separare la singola molecola attiva dalle altre molecole che l’accompagnano, in modo da poterla poi sintetizzare e commercializzare in forma di “pillola”. In entrambi i casi, si tratta di un processo di riduzione che, se ha senz’altro i suoi vantaggi
211 Nathan & Stengers 1995. 212 Farnsworth & Soejarto 1989. 213 Who-Oms 2000.
193 (come, appunto, la possibilità d’immettere sul mercato un nuovo farmaco pronto all’uso), presenta una serie di svantaggi che emersero poco dopo nella ricerca sul campo.
Cominciamo dall’ultima fase della riduzione. In un preparato etnomedico fatto a partire dalla pianta (o, più spesso, da un insieme di piante), la “molecola attiva” si trova ad agire entro un panorama chimico complesso che, lungi dallo sminuirne l’effetto, lo inserisce in un campo di efficacia più ampio e, per così dire, più adattabile. Se, infatti, nei nostri farmaci è quasi sempre necessario avvolgere il principio attivo, artificialmente isolato, di elementi che ne smorzino o rallentino l’azione (che potrebbe altrimenti risultare dannosa per l’organismo), nei preparati etnomedici è presente un complesso di sostanze che, nel complesso, agisce in modo meno violento e più esteso214.
Fin qui, comunque, restiamo a considerazioni di carattere biochimico e quindi facilmente concettualizzabili nel quadro della scienza. Più delicata la critica alla prima forma di riduzione, che infatti ha occupato antropologi, medici e filosofi della medicina per molto tempo. In estrema sintesi, questa è la domanda di fondo: la cura (anche intesa tanto in senso medico stretto: l’attività di presa in carico e, ove possibile, risoluzione delle malattie) è operata dei principi attivi contenuti nei farmaci, e quindi è riducibile al processo biochimico da essi innescato, o è un fenomeno complesso nel quale entrano in gioco elementi eterogenei quali la fiducia del paziente nel medico, la competenza e l’astuzia del terapeuta, l’influenzamento, le relazioni fra soggetti e via dicendo215?
Non c’è modo, qui, di sviluppare questa pista e le sue enormi implicazioni epistemologiche. Basti dire che alcuni degli studi più interessanti dell’antropologia medica di fine Novecento hanno portato lo sguardo dall’esterno all’interno, incentrandosi su quel che avviene da noi, nel cuore della civiltà che ha sviluppato la biomedicina; e hanno rivelato che, ben al di qua (o al di là) dell’ideologia scientista, anche per noi la cura è un processo complesso nel quale intervengono fattori non quantificabili e non oggettivabili. L’aspetto personale del terapeuta, il suo tono di voce, il suo atteggiamento nei confronti della malattia diagnosticata, la disposizione del gabinetto medico, le modalità della visita e degli esami diagnostici, il rito della prescrizione, ma anche la confezione dei medicamenti, la lunghezza del bugiardino e perfino il costo del farmaco sono tutti fattori attivi nella cura. E non solo: in queste lande teoriche si apre la questione, a tutti gli effetti cruciale, del cosiddetto “effetto placebo”, ovvero delle proprietà terapeutiche di sostanze che, prive di effetto specifico secondo la biochimica, sono reputate curative da chi le assume. Nonostante le pretese riduzioniste della medicina e il tentativo – mai riuscito e sempre ripreso – di farne una disciplina compiutamente scientifica, il fatto è che dappertutto nel mondo si continua a guarire per cattive ragioni: e cioè, a seguito di circostanze che non sono misurabili in termini quantitativi e, quindi, non sono scientificamente validabili.
Per concludere, basti tenere presente che la razionalità (nella sua accezione più semplice di
adeguamento dei mezzi ai fini) ha una portata più ampia della scientificità (la quale, per sua parte, riposa su precisi criteri di verificabilità e delimita, quindi, un campo di razionalità riproducibile e condivisibile). Nella ricerca medico-antropologica è quindi opportuno non separare artificialmente la molecola dal contesto (o, in versione riduzionista, le cure “buone”, esportabili, e quelle “cattive”, rituali), e fare invece riferimento a un concetto più ampio, che permette di leggere le cure degli altri senza svilirle e senza lasciarsene sfuggire la razionalità.
§ 137. Gli orientamenti teorici dell’antropologia medica
Mentre l’etnomedicina, la ricerca farmaceutica, le azioni dell’OMS e la riflessione interna andavano sviluppandosi lungo le linee viste sopra, all’interno dell’antropologia medica prese forma una serie di nuovi strumenti concettuali. Lungo gli anni Sessanta risultò evidente la
214 Guerci & Lupu 1997. 215 Cozzi 1994; Good 1994.
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necessità di leggere la malattia, a livello globale, secondo una modalità del tutto diversa da quella adottata dalla coeva medicina occidentale. Mentre infatti quest’ultima andava sempre più posizionando la malattia all’interno del soggetto, agli antropologi era invece necessario elaborare quadri concettuali nei quali la malattia non fosse quanto meno possibile una “questione privata”. Per questa ragione, l’antropologia medica sviluppò nel tempo diversi quadri concettuali, nessuno dei quali egemone, e i cui confini vengono tracciati in maniere diverse da differenti autori216.
In termini generali, e indipendentemente dall’orientamento di lavoro dei singoli ricercatori (sia esso legato a temi biomedici, o etnomedici, o di politica e intervento), possiamo distinguere tre grandi modalità teoriche di approccio all’antropologia medica: la teoria medico-ecologica, la teoria culturale, e l’antropologia medica critica.
TEORIA MEDICO-ECOLOGICA • Compiutamente formulata da Alland nel 1970, la teoria medico-ecologica poggia sul concetto di adattamento – biologico e culturale, individuale e di gruppo – all’ambiente circostante. Essa sta pienamente all’interno del paradigma evolutivo darwiniano che declina in termini di buon o cattivo equilibrio, dei singoli e dei gruppi, rispetto alle condizioni entro cui vivono. La salute è valutata come misura di un adattamento ambientale efficacemente realizzato e può essere studiata attraverso modelli ecologici.
Più in dettaglio, l’ecosistema in cui si muovono le popolazioni umane è composto da elementi biotici (quali i predatori, i cibi disponibili, i vettori delle malattie ecc.); da elementi abiotici (quali il clima, l’energia disponibile, i materiali ecc.); e da elementi culturali (quali l’organizzazione sociale, l’ideologia, la tecnologia ecc.)217. L’equilibrio dinamico o il
disequilibrio degli elementi dell’ecosistema si misura, appunto, in termini di salute e di malattia, laddove la salute testimonia dell’avvenuta integrazione degli elementi, mentre la malattia è