§ 62. Implicazioni esplosive
Nella penultima pagina dell’Origine delle specie Darwin accenna, in un paragrafo singolarmente breve e come di sfuggita, all’implicazione più scottante della sua teoria:
Per l’avvenire vedo campi aperti a ricerche molto più importanti. La psicologia sarà sicuramente basata sulle fondamenta già poste da Herbert Spencer, quelle della necessaria acquisizione di ciascuna facoltà e capacità mentale per gradi. Molta luce sarà fatta sull’origine dell’uomo e sulla sua storia.
Di fatto, quando infine Darwin si decide a pubblicare la sua opera maggiore, la scoperta delle prime forme fossili di possibili antenati dell’uomo era già avvenuta. Nel 1856, in una grotta nella valle del fiume Neander, presso Düsseldorf, in Germania, erano stati trovati il cranio e diverse ossa di un individuo che presentava caratteri anatomici strani. Dapprima s’ipotizzò che si trattasse di un soldato cosacco, poi che fosse un individuo subnormale; solo nel 1864 i reperti furono riconosciuti come specie (o sottospecie) a sé stante e attualmente estinta: Homo (sapiens)
neanderthalensis.
L’idea che gli esseri umani fossero l’esito di una linea evolutiva strettamente imparentata con quella delle scimmie ebbe una storia al contempo travagliata e trionfale, che s’inseriva entro il più ampio dibattito sull’evoluzione in generale. Il motivo di scandalo è evidente: la teoria dell’evoluzione implicava che, lungi dall’essere la creatura prediletta di Dio, formato a sua immagine e somiglianza, Homo sapiens non è che uno degli esiti del processo secondo cui tutta la materia vivente si trasforma: nulla più che una specie fra le altre. Un aneddoto racconta di una dama dell’aristocrazia britannica che, informata da un conoscente sulle teorie di Darwin, esclamò: «Sarà anche vero, ma che non si sappia troppo in giro...».
Sfumato lo scandalo dei primi decenni, il fatto dell’evoluzione umana può oggi essere considerato come scientificamente acquisito: i ritrovamenti paleoantropologici si sono susseguiti con costanza lungo tutto il Novecento e proseguono tuttora, in ordine più o meno inverso rispetto alla direzione temporale evolutiva (le forme fossili più recenti sono state scoperte per prime, quelle progressivamente più antiche in tempi più recenti); la sequenza filogenetica, seppure tutt’altro che certa, è comunque abbastanza ben stabilita nelle grandi linee; e la parentela con le grandi antropomorfe è stata confermata anche coi mezzi della genetica. Nelle pieghe della discussione sull’evoluzione umana, tuttavia, continuano a incrociarsi e a scontrarsi posizioni radicalmente dissimili che, discettando su modi e tempi dell’evoluzione della nostra specie, sui criteri di separazioni dei reperti in specie, sulla validità dei nomi attribuiti, sul senso delle sequenze fossili, sulle ipotesi comportamentali, sulle testimonianze culturali, sulla progressione tecnologica, sull’emergere del linguaggio, rimettono ogni volta in gioco una posta ben più alta: il senso stesso della vita umana sul pianeta. Alla base di queste
99 guerre scientifiche c’è un sentimento assai diffuso: quello secondo cui le linee della nostra evoluzione biologica hanno qualcosa di importante da dire sul senso valoriale della nostra vita.
È un movimento concettuale e scientifico incessante in cui, più ancora dei singoli ritrovamenti (che pure, in diversi casi, sono stati clamorosi), contano le posizioni intellettuali e filosofiche, le implicazioni, le lotte fra scuole, la coerenza delle interpretazioni, le mode. E la durevole inquietudine che nasce dalla partizione fra natura e cultura tutte le volte che la scienza “scopre” qualcosa sulla presunta “natura” degli umani. Se, come hanno mostrato Latour e Woolgar89, la scienza è innanzi tutto un’impresa sociale mossa da logiche che non si limitano a
quella strettamente conoscitiva, questo vale anche per la paleoantropologia, i cui temi e i cui dati influenzano profondamente la nostra idea di “umanità”. Per questa ragione, prima di addentrarci nella descrizione delle specie fossili e nelle sequenze filogenetiche ipotizzate (ovvero sul cosa della paleoantropologia), è bene soffermarci sui paradigmi che ne regolano il discorso (ovvero, sul come della paleoantropologia).
E prima ancora, una nota. Le strane forme umane di cui parla la paleoantropologia sono interessanti nella misura in cui sono reputate essere alla base della linea nostra genealogica; sono interessanti, insomma, perché sono i nostri antenati – ovvero, gli antenati che la civiltà occidentale ha ricostruito coi mezzi della scienza. Altre culture, altri popoli, altri gruppi hanno
altri antenati, (ri)costruiti con altri mezzi, e che giocano nella loro vita quotidiana un ruolo ben diverso da quello che, nella nostra, possono avere Australipithecus africanus o Homo
neanderthalensis. In altre parti del mondo quando due stranieri o due gruppi s’incontrano, è buona educazione informarsi su chi siano gli altri domandando loro chi sono i loro antenati90. La
linea di discendenza dagli antenati determina il gruppo d’appartenenza, i costumi, le regole matrimoniali, le alleanze; ed è spesso reputata all’origine del destino individuale. È un modo d’intendere gli antenati differente dal nostro e altrettanto legittimo – e forse, a ben vedere, non così lontano. Anche alle nostre latitudini, infatti, le caratteristiche attribuite agli antenati si riflettono sulla nostra idea di “chi siamo”. Se così non fosse, i dati paleoantropologici non avrebbero l’impatto politico che invece, con ogni evidenza, hanno.
§ 63. Banalizzare per non vedere
Nella sua vulgata, la teoria dell’evoluzione sembra oggi proporre un’unica soluzione a tutti i problemi che emergono nello studio della filogenesi e dell’ontogenesi dei viventi. Tale soluzione postula che qualsiasi tratto, qualsiasi carattere e qualsiasi variabile siano il frutto o dell’adattamento biologico/genetico della specie all’ambiente, oppure di un errore. È l’atteggiamento mentale che Gould e Lewontin hanno definito pan-adattazionismo, e di cui hanno mostrato a sufficienza la fragilità logica e i tratti derisori. Nonostante ciò, esso continua a imperare in diverse parti del più serio ragionamento accademico, oltre che nella paleoantropologia e, più in generale, nello studio dell’evoluzione umana.
Peraltro, il settore della biologia evolutiva dove più ostinatamente, negli ultimi decenni, si è rinunciato a qualsiasi innovazione teorica è proprio la paleoantropologia. Si direbbe che i ricercatori si siano fatti un obbligo morale di interpretare la filogenesi e l’ontogenesi della nostra specie solo secondo i modelli più radicalmente riduzionisti e nei soli termini dell’adattamento all’ambiente. C’è forse, in questo atteggiamento, un inconscio tentativo di mantenere le distanze, in un settore obiettivamente scivoloso, da qualsiasi ipotesi di spiegazione trascendente, tendendo fede al materialismo scientifico e al precetto fondamentale dell’indagine razionale di stampo occidentale, quell’hypotheses non fingo che Newton ricavò direttamente dal rasoio di Occam.
89 Latour & Woolgar 1979. 90 Stengers 1994.
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Ma se, nel campo dell’evoluzione umana, il rischio della spiegazione fumosa, semi-religiosa o trascendente è reale, e correttamente percepito da chi se ne occupa, non altrettanto evidenti sembrano essere i rischi connessi a spiegazioni che confondono il materialismo con la grettezza del ragionamento. È ancora comune leggere nei manuali che i nostri antenati diventarono bipedi per osservare con più agio l’orizzonte in ambiente savanicolo, o per poter trasportare in braccio i piccoli, o ancora per mettere in rilievo gli organi sessuali. Dimenticando che l’evoluzione darwiniana non ha scopo ed è del tutto a-teleologica, una trasformazione globale come il bipedismo, che comporta una completa ristrutturazione dell’impianto anatomico, viene letta come adattamento a un qualche scopo collaterale. L’encefalizzazione, dal suo canto, sarebbe stata necessaria per le capacità di problem-solving della specie – ciò che equivale, in alcune interpretazioni particolarmente riduzioniste, a fare del cervello l’organo preposto a ottenere la tessera del MENSA. Inoltre, è spesso presente una precisa declinazione sociobiologica secondo cui, ad esempio, l’altruismo sarebbe evoluto come egoismo allargato al gruppo parentale; le donne sarebbero più belle degli uomini perché devono cercare di selezionare i migliori geni maschili attraverso la competizione spermatica (sic); la famiglia tendenzialmente monogama servirebbe a garantire al padre la paternità dei figli; e via dicendo.
Queste spiegazioni, troppo semplici per essere corrette e troppo occidentaleggianti per essere generalizzabili, continuano a essere proposte, ripetute e ribadite – al punto tale che sembrano costituire la totalità del ragionamento evolutivo, il suo orizzonte ultimo di spiegazione. Perché? Per molte ragioni, naturalmente, ivi inclusa i vantaggi della celebrità mediatica; ma alla loro base stanno atteggiamenti mentali di lunga durata e di difficile visibilità.
Per cominciare, le spiegazioni pan-adattazioniste sono semplici: semplici da scovare, semplici da esprimere, semplici da comprendere. Non richiedono nessun particolare sforzo concettuale né a chi le elabora, né a chi le ascolta: una volta accettato che l’aumento della fitness è l’unico criterio possibile di spiegazione evolutiva, il resto va da sé. (La fitness è definita formalmente come la capacità di un certo genotipo di propagare i propri geni nella generazione successiva. Poiché questa capacità dipende dall’adattamento ambientale del fenotipo, fitness è di fatto un altro modo di dire “adattamento”.)
Sfortunatamente, però, questo andar da sé tende a scivolare verso forme perniciose di dogmatismo e di fideismo, per non dir nulla delle implicazioni sociali e politiche che esso comporta. Il problema è emerso con chiarezza a seguito del diffondersi delle teorie creazioniste nate e cresciute negli Stati Uniti: a fronte della pochezza teorica della gran parte delle teorie creazioniste, facili da capire anche per chi non abbia alcuna preparazione specifica e non abbia intenzione di farsela, i difensori dell’evoluzionismo hanno proposto spiegazioni che non erano molto più complesse delle prime, rincorrendo gli avversari sul campo scivoloso della banalizzazione. Arrivati (tutti!) al grado zero della sciocchezza, spesso si son visti i difensori dell’evoluzionismo far ricorso al massimo argomento antiscientifico e proclamare l’ipse dixit: «è così perché lo dice la scienza!» – senza accorgersi che, in questo gioco al ribasso, è la scienza stessa a divenire fede.
Fra l’irrazionalità e l’oscurantismo delle teorie creazioniste (la cui funzione politica reazionaria è evidente e potente soprattutto negli USA) e il panadattazionismo declinato in chiave sociobiologica non corre troppa differenza: in entrambi i casi si tratta di sistemi di credenze basati sopra un’unica ipotesi (la creazione oppure la fitness) accettata aprioristicamente. La loro lotta è solo apparente, un duello spettacolare che sembra fatto apposta per rimuovere la complessità, la difficoltà e il piacere della ricerca, delle domande senza risposta, del dubbio. In queste circostanze, tener fede alla scienza significa rifiutarsi di credere: alle favolette teo-con dei creazionisti come alle sciocchezze dei darwinisti ortodossi; e guardarsi costantemente dalla tentazione di voler a tutti i costi scovare soluzioni semplici per problemi complessi.
Delle teorie del moderno creazionismo non mette neppur conto discutere – e non tanto in quanto religiose, ma soprattutto perché troppo banali, rispetto ai 2500 anni di filosofia e di teologia occidentali, per essere prese sul serio. Del panadattazionismo, invece, qualcosa tocca
101 dire, dacché, ponendosi come paladino dell’evoluzionismo, viene assegnato d’ufficio alla scienza.
I grandi autori scientifici raccomandano tutti di tornare senza sosta a indagare le cose estremamente semplici, quelle che sembrano talmente scontate da non aver alcun bisogno di essere ridiscusse (è ovvio che il sole gira attorno alla terra...). Ora, nella nostra mentalità di occidentali, la fitness è un’idea talmente ovvia da non richiedere alcun particolare sforzo per essere accettata. L’idea che ogni caratteristica degli esseri viventi serva alla sopravvivenza ambientale traduce in termini biologici l’impostazione neoliberista sta alla base non solo dell’economia contemporanea, ma anche del modo con cui gli individui sono invitati a pensare la loro vita e a muoversi nel mondo. Le somiglianze fra l’ambiente dei sociobiologi e il mercato degli economisti sono straordinarie, e l’evoluzione della vita è letta in analogia con l’andamento dei titoli sui mercati. Nulla vieta che le cose stiano effettivamente così, che l’analogia sia di tipo conoscitivo; ma nulla vieta neppure, d’altro canto, che le cose stiano altrimenti, che il contesto e i modi in cui la vita evolve non somiglino affatto al mercato economico e che si possano fare altre ipotesi.
§ 64. Chiarire quel che si può
Le domande sull’evoluzione umana non sono solo questioni specifiche pertinenti a una particolare disciplina, che possano trovare una soluzione in presenza di nuovi dati: l’intera impresa paleoantropologica è sempre stata accompagnata e sostenuta da precisi assunti sulla “natura umana” che hanno guidato le ricerche, strutturato le ipotesi, sostenuto i modelli e talora anche prodotto dei clamorosi falsi storici (come nel caso celebre dell’uomo di Piltdown).
Nonostante spesso si finga che sia altrimenti, e nonostante le molte e doverose cautele dei paleoantropologi, le teorie sull’evoluzione umana ci riguardano così da vicino e gettano un’ombra talmente evidente sull’interpretazione del nostro presente, che non possono essere
neutre. Detto altrimenti, e in modo un po’ brutale, qualsiasi asserzione sull’evoluzione della nostra specie, per quanto cauta e circostanziata, porta con sé precise valenze concettuali che possono immediatamente essere impiegate a giustificazione di scelte politiche e di posizioni ideologiche. Non sempre, tra l’altro, chi per primo ha avanzato la teoria è poi d’accordo con l’impiego che ne viene fatto da altri; ma il problema è senza soluzione: qualsiasi ipotesi sulla natura umana può essere usata come asserzione politica, qualsiasi assunto politico porta con sé delle implicite assunzioni sulla natura umana.
Molti trovano irritanti le implicazioni ideologiche delle teorie paleoantropologiche. Si può scegliere di ignorarle, oppure limitarsi a fornire dati senza entrare nel merito delle possibili interpretazioni. Ma il problema resta: nel primo caso, si deve accettare che le proprie parole e le proprie teorie finiscano, prima o poi, a supporto di qualche scelta che non si condivide; nel secondo caso, poiché, come l’epistemologia ha mostrato a sufficienza, i dati sono sempre “carichi” di teoria, l’interpretazione resta comunque implicita, visibile a chiunque la voglia vedere.
L’unica altra scelta possibile è quella di esplicitare quanto più possibile i propri assunti, la propria scelta di dati, le implicazioni delle proprie teorie. In paleoantropologia – ma questo, in ultima istanza, è vero di qualsiasi disciplina che riguardi, anche solo marginalmente, l’anthropos – non si può stare supra partes. Ogni teoria su Homo sapiens è anche, automaticamente, una teoria sull’anthropos, non si può parlare delle caratteristiche biologiche della specie senza parlare (esplicitamente o, in modo ben più pericoloso, implicitamente) del suo modo di stare al mondo, delle sue organizzazioni sociali e politiche, di ciò che è, e che non è, desiderabile. Essa è dunque solo una tessera di un enorme mosaico concettuale che sfocia direttamente sulla politica. Di fatto, è solo a partire da una visione ampia, teoricamente forte e ovviamente rischiosa della natura umana che è possibile impostare il discorso evolutivo in termini non banali: non certo per “staccare” nuovamente gli esseri umani dal mondo naturale,
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ma per mettersi in grado di vedere ciò che, nella nostra specie, è unico (e, per inciso, poiché
tutte le specie viventi sono l’esito di una storia evolutiva particolare, a tutte andrebbe applicato questo medesimo criterio: ciò che differenzia i viventi non sono il numero e il tipo di caratteri adattivi ma le modalità dell’individuazione).
§ 65. Scimmie bipedi o umani quadrupedi? La beffa di Piltdown
Un eccellente esempio storico delle pericolose intersezioni fra teoria scientifica e visioni del mondo di cui stiamo parlando è l’episodio noto come beffa di Piltdown, la cui posta in gioco era il primato del cervello (ovvero, delle capacità reputate più nobili: quelle relative alla cognizione, al sapere, al pensiero) nell’evoluzione umana.
Il primo passo evolutivo della nostra linea filogenetica, quello che ha permesso tutti i salti successivi, è quanto di più lontano si possa immaginare dalle sublimi complessità del cervello e ha semmai a che fare con la parte opposta e meno nobile del corpo: i piedi. «Eravamo disposti ad ammettere qualsiasi cosa ma non di essere stati cominciati dai piedi», scrive Leroi- Gourhan91: l’evento primo e fondativo nell’evoluzione della nostra specie è l’acquisizione della
postura eretta e dell’andatura bipede. La primogenitura evolutiva del bipedismo è stata per lungo tempo un boccone indigesto: quando l’idea dell’evoluzione e della parentela con le scimmie avevano già smesso di fare scandalo, era ancora difficile accettare che l’unicità umana potesse dipendere da qualcosa che non fosse il cervello.
Nel 1911 un paleontologo dilettante, Charles Dawson, disse di aver trovato un cranio ominide nella cava di Piltdown, nel Sussex (Gran Bretagna), a cui diede il nome di Eoanthropus
dawsoni. Il ritrovamento fece la felicità dei paleoantropologi inglesi, che lo lessero subito come “anello mancante” fra le grandi antropomorfe e l’uomo: esso mostrava infatti, in modo estremamente nitido, un cranio di tipo umano e una mascella di tipo scimmiesco. Un secondo ritrovamento, avvenuto nel 1915 nello stesso sito, andava a confermare ciò che molti, a quel punto, volevano credere: che l’elemento trainante nell’evoluzione di Homo sapiens era stato il cervello. Nondimeno, mano a mano che i ritrovamenti di altri fossili si susseguivano nel resto del mondo, diventava sempre più difficile conciliare le forme dell’uomo di Piltdown con quelle delle specie ominidi asiatiche e africane, che mostravano la permanenza di una capacità cranica “scimmiesca” associata a un sicuro bipedismo.
La beffa cadde definitivamente solo nel 1953, quando i nuovi metodi di datazione permisero di stabilire che l’uomo di Piltdown era un falso: il reperto era infatti composto dall’osso cranico di un individuo vissuto qualche secolo prima combinato con una vecchia mandibola di orango in cui erano stati innestati dei denti fossili di scimpanzè. Poiché, ovviamente, l’articolazione delle ossa era impossibile, la mandibola era stata spezzata al punto giusto e i denti limati fino a farli combaciare con le fosse dentali. Il tutto era poi stato artatamente invecchiato usando soluzioni chimiche.
Nonostante le molte perplessità subito sollevate sull’autenticità del reperto, diversi aspetti contribuirono alla durata decennale della beffa. In primo luogo, essa era opera di un professionista astuto e, per i mezzi dell’epoca, era stata realizzata con estrema perizia. In secondo luogo, l’uomo di Piltdown soddisfaceva appieno il nazionalismo inglese, che esigeva di avere un “primo uomo inglese” che precedesse temporalmente i neandertaliani scoperti in Francia e Germania. Inoltre, essa riproponeva l’Europa come terra d’elezione per l’evoluzione umana: negli anni del peggior colonialismo europeo, ben pochi erano disposti a immaginare che la specie umana potesse aver avuto origine in terre che ospitavano civiltà “inferiori”. Infine, le rivalità professionali fra paleoantropologi – peraltro tutti stimatissimi, e quindi implicitamente garanti della bontà del ritrovamento – fecero sì che, per molto tempo, il ritrovamento fosse tenuto chiuso in un armadio, al riparo da sguardi indiscreti.
103 Il responsabile della beffa non è mai stato scoperto, sebbene per molti anni diversi accademici si siano cimentati nell’investigazione. Charles Dawson è stato, naturalmente, il primo sospetto, ma l’opinione comune è che egli sia stato, di fatto, il primo truffato. Fra i personaggi noti che si erano recati diverse volte alla cava di Piltdown ci sono anche Arthur Conan Doyle e Pierre Teilhard de Chardin, e diverse teorie hanno proposto l’uno o l’altro come artefice del fatto.
Sono state le scoperte paleoantropologiche degli anni Sessanta e Settanta del Novecento a dimostrare in modo definitivo che lo sviluppo dell’encefalo è ampiamente posteriore a quello della postura ortostatica. Nondimeno, si è riproposto per il bipedismo, seppure più in sordina, la stessa forma di antropocentrismo che già si è vista in azione per quanto riguardava il cervello: si è implicitamente supposto che, seppure meno nobile di un grande cervello, il bipedismo fosse carattere distintivo e unico della linea umana, presente solo in questa e necessario preludio all’encefalizzazione. Come a dire: esiste una precisa linea di sviluppo, tipica dei soli umani, che sfrutta il bipedismo per sviluppare grossi cervelli (si noti, in filigrana, quanto questo ragionamento sia finalistico: il bipedismo evolverebbe non per sé, ma come precondizione dell’encefalizzazione – come se le specie biologiche potessero conoscere il proprio futuro…).
Recenti scoperte paleoantropologiche hanno sfatato anche questo mito: fra 7 e 9 milioni di anni fa, in un’isola del Mediterraneo che è oggi la Toscana, è vissuto una grande antropomorfa parzialmente bipede, Oreopithecus bambolii92, che, pur camminando bipede, non ha affatto
sviluppato un grande cervello e ha finito per estinguersi. Al di là dell’interesse paleontologico, la presenza del bipedismo in un’altra linea evolutiva testimonia una volta di più del sostanziale non-determinismo dell’evoluzione: non c’è nessuno scopo finale, nessun “arco evolutivo” predeterminato o obbligatorio, nessuna linea di sviluppo che intrinsecamente sia migliore, o