§ 29. Origini e presupposti: le forze evolutive
La Nuova Sintesi, o neo-darwinismo, fu formalizzata fra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento dai lavori di un gruppo di biologi – Dobzhansky, Simpson, Haldane, Wright, Fisher, Mayr36 – che, in un arco di tempo piuttosto breve, ne impostarono tutti i concetti fondamentali.
Cornice generale del pensiero evolutivo e biologico lungo tutto il Novecento, essa si fonda sull’unione della teoria dell’evoluzione per selezione naturale di Darwin con la genetica mendeliana, cromosomica e di popolazione; assume come l’unità-base dell’evoluzione il gene, che articola col meccanismo evolutivo della selezione naturale attraverso l’analisi quantitativa condotta con mezzi statistici.
Semplice e potente, il peccato originale che essa porta con sé è quello del riduzionismo genetico. Agli albori della genetica i caratteri che venivano scelti per essere analizzati erano quelli che fin da subito parevano rispondere alle leggi di Mendel (è il caso, appunto, di quelli studiati da Morgan) e che quindi manifestavano una relazione biunivoca con un tratto fenotipico. Ma fu presto chiaro che la maggior parte dei geni non seguivano questo schema e che la relazione fra geni e caratteri era una faccenda complicata: a volte una singola variazione allelica poteva manifestarsi nel fenotipo in molti modi diversi; altre volte un singolo carattere fenotipico risultava influenzato da un insieme complesso di geni e varianti alleliche; altre volte ancora, una differenza a livello di genotipo non produceva alcuna variazione nel fenotipo. Nonostante tutto ciò, però, «non si resistette alla tentazione di vedere una relazione causale semplice fra geni e caratteri37».
La cosa in sé sarebbe stata di poco momento se limitata agli ambienti scientifici, ma così non è stato: nella sua versione più riduzionista, essa ha indirizzato molte delle scelte politiche, sociali ed economiche fatte dai governi “in nome della scienza”. La sua azione è stata particolarmente nefasta all’epoca dei totalitarismi, quando dava giustificazione ai razzismi e alle politiche di sterminio; ma, seppure in forma soft, non è cessata neppure al termine delle guerre, quando – con l’acquiescenza di moltissimi studiosi – è stata usata per dare fondamento a
36 Fisher 1930, Haldane 1932, Dobzhansky 1951, Mayr 1969. 37 Jablonka & Lamb 2007, p. 356.
45 politiche discriminatorie nell’accesso ai servizi o alla salute pubblica. Occorre quindi conoscerne bene presupposti e implicazioni per poter davvero comprendere la portata rivoluzionaria delle ricerche contemporanee e cominciare a guardare il mondo in maniera differente.
Telegraficamente: la Nuova Sintesi sostiene che l’evoluzione è una questione prevalentemente statistica, legata alla distribuzione degli alleli nelle popolazioni. Perché evoluzione vi sia, occorre che fra una generazione e quella successiva si presentino delle mutazioni (ovvero, che periodicamente emergano nuove varianti alleliche) e che queste si diffondano, oppure vengano eliminate, dalla popolazione. La Sintesi moderna distingue pertanto quattro grandi forze evolutive: mutazione, selezione naturale, deriva genica, flusso genico.
La mutazione è la prima e più importante fra le forze evolutive, quella che produce la variabilità necessaria perché le altre, e in particolare la selezione, possano operare. Essa si presenta come errore nella duplicazione del DNA oppure come ricombinazione di sequenze cromosomiche durante la meiosi. La mutazione agisce dunque tanto sulla sequenza del DNA a livello delle basi (mutazione puntiforme, che modifica un singolo allele) quanto a livello di intere sequenze (che possono essere cancellate, duplicate, spostate o scambiate). Dal punto di vista logico, ciò che importa è che i geni si presentino in varianti alleliche; che tali varianti emergano a seguito di mutazione (ovvero, che l’insieme delle varianti di un gene non resti fisso ma cambi nel tempo); e che le varianti comportino differenze fenotipiche fra gli individui che le portano, in modo da permettere l’azione della selezione.
La selezione, motore dell’adattamento degli organismi all’ambiente, diminuisce la variabilità della popolazione permettendo solo a certe varianti di sopravvivere. Essa può essere
selezionante nel caso elimini le varianti svantaggiose, direzionale nel caso favorisca le varianti vantaggiose o bilanciante nel caso favorisca l’eterozigosi, ovvero la compresenza di entrambi gli alleli. Un esempio classico di selezione bilanciante nella nostra specie è quella causata dalla pressione selettiva della malaria sulla struttura dell’emoglobina. L’emoglobina di tipo S è causa di anemia emolitica grave negli individui omozigoti; si suppone tuttavia che nelle zone colpite da malaria la variante S sia mantenuta perché la compresenza, negli individui eterozigoti, di emoglobina di tipo A (normale) e di tipo S permette una migliore resistenza alla malattia senza provocare grave anemia ematica.
La deriva genica diminuisce la variabilità della popolazione attraverso un meccanismo casuale di perdita delle varianti. Essa è dovuta a fluttuazioni casuali negli incroci fra individui e si applica soprattutto a piccole popolazioni isolate, in cui il numero limitato di individui non permette – per motivi meramente statistici – il mantenimento all’interno del pool genico di tutta la variabilità presente nella più ampia popolazione originaria.
Il flusso genico, infine, aumenta la variabilità di una popolazione introducendo nuove varianti che provengono da altre popolazioni. È sempre in azione negli incroci fra popolazioni dovuti a fenomeni di migrazione.
Le forze evolutive agiscono in modo differenziale a seconda di molteplici fattori: nelle popolazioni piccole, che tendono a essere geograficamente isolate e ad avere alta consanguineità, si registreranno più facilmente perdite di variabilità genetica a causa della deriva; nelle popolazioni grandi, al contrario, o con grandi afflussi migratori, la deriva agirà pochissimo mentre la selezione si applicherà su un numero più alto di mutazioni. Ma, anche, è più probabile che le mutazioni emergano in popolazioni grandi; e le scelte riproduttive possono modificare, anche pesantemente, la distribuzione degli allei nelle generazioni seguenti.
§ 30. Strategie adattive e riproduttive
La Nuova Sintesi ha individuato, a livello di specie, diverse strategie adattive e riproduttive. Per quanto riguarda l’adattamento, le specie cosiddette “specializzate” impiegano una strategia adattiva di alta integrazione alla nicchia ambientale entro cui vivono e sviluppano
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configurazioni anatomiche, morfologiche e funzionali che, entro quell’ambiente, risultano altamente efficienti. Questa modalità adattiva comporta un’eccellente resa a breve termine entro la nicchia occupata, ma rendimenti scarsi in altri ambienti. Efficace in condizioni di stabilità ambientale, essa è invece problematica in caso di mutamenti repentini. Le specie dette “generaliste” sono invece quelle che riescono a sopravvivere in una varietà di ambienti, per nessuno dei quali, tuttavia, sono particolarmente adattate. Si tratta di una strategia che, a breve termine, comporta un adattamento non particolarmente efficiente a nessuna delle zone occupate, ma che riesce a far fronte a mutamenti improvvisi delle condizioni.
Per quanto attiene alla riproduzione, si parla di strategie r e K. La strategia r consiste nel produrre quanta più prole possibile nella speranza che, date le leggi dei grandi numeri, alla fine qualcuno sopravviva (campioni di questa tattica sono i salmoni, le cui femmine depongono, subito prima di morire, 500.000.000 di uova; poiché i salmoni non stanno vivendo alcun boom demografico, del mezzo miliardo di uova deposte ne sopravvivono, in media, solo un paio). La strategia k consiste invece nel produrre poca o pochissima prole e nel prendersene cura a lungo, garantendone la sopravvivenza fino all’età adulta (contrariamente a quanto di solito si crede, i campioni di questa strategia non sono gli esseri umani ma gli elefanti, le cui femmine hanno, nell’arco intero della loro vita, solo tre o quarti figli, che il gruppo intero accudisce fino all’età matura). La strategia r è correlata con alta fecondità, piccole dimensioni degli organismi, breve intervallo di vita, breve intervallo fra le generazioni e alta capacità di riprodursi in ambienti differenti: è propria delle specie più dipendenti dalle variabili ambientali o sottoposte ad ambienti che variano rapidamente. La strategia k è correlata con dimensioni grandi degli organismi, arco di vita lungo e capacità cognitive alte; è propria delle specie che vivono in ambienti stabili e più dipendenti dall’impianto culturale appreso nell’infanzia.§ 31. La specie
La specie è l’unico insieme di enti reali della classificazione linneiana: è quindi la specie, in ultima analisi, a fondare i generi, i regni, e tutti i livelli gerarchici intermedi. Parrebbe dunque indispensabile, per la scientificità stessa della biologia, che la definizione di specie fosse quanto più precisa e univoca possibile – ma questo non è il caso e la questione della specie ha continuato a essere dibattuta lungo tutto il Novecento.
L’idea che in natura esistano gruppi di organismi simili fra di loro che riproducono di generazione in generazione le loro caratteristiche è esperienza comune, confermata anche dalla corrispondenza fra le tassonomie extra-occidentali e la nostra. Le specie sembrerebbero quindi essere “oggetti semplici” del mondo ma, a seconda del punto di vista da cui si sceglie di studiarle, sono possibili definizioni anche molto differenti. Ciò evidenzia, ancora una volta, che per molti aspetti la biologia somiglia più alla storia che alla fisica newtoniana: come la storia, ha a che fare con il tempo; tratta di eventi irripetibili, legati alla contingenza; e manca di un insieme di leggi universalmente valide in grado di spiegare in modo univoco tutti i fenomeni dello stesso tipo. Non sorprende, allora, che non vi sia – e forse non sia neppure possibile – una definizione unica di specie: a seconda del gruppo di viventi in oggetto converrà infatti una definizione anziché un’altra. Nella Sintesi moderna sono state identificate e proposte almeno sei diverse definizioni.
1. Definizione tipologica, o platonica. La specie è definita come gruppo di individui i cui membri sono sufficientemente conformi a un insieme fisso di proprietà. Di questa visione si trovano ampie tracce nella pratica tassonomica dello specimen, in cui un individuo singolo viene assunto come esemplare-tipo dell’intera specie, da conservare per tutti i successivi confronti e le cui caratteristiche determineranno le misurazioni “normali” della specie in questione.
2. Definizione morfologica. La specie è definita come gruppo di organismi che dal punto di
vista morfologico sono sufficientemente simili gli uni agli altri e sufficientemente differenti da altri gruppi38. Per far parte della specie occorre possedere un set minimo di caratteri necessari e
sufficienti. È una versione moderna, e per così dire “statistica”, della definizione platonica:
47 l’archetipo non è più rappresentato da un esemplare tipico ma da una tavola di misurazioni normali, che permette di distinguere in base a criteri statistici individui appartenenti a specie diverse.
3. Definizione isolazionista, o biologica. La specie è definita come gruppo di popolazioni
naturali, effettivamente o potenzialmente interfeconde, e riproduttivamente isolate da altri gruppi39. È un concetto esclusivamente biologico: abbandona ogni forma di essenzialismo e si
concentra sull’isolamento riproduttivo, unico vero discrimine fra specie. Fatta propria dalla Sintesi moderna, questa è anche la definizione più comunemente usata in zoologia e nelle discussioni sulla speciazione. Non è utilizzabile per le specie a riproduzione non sessuata e non distingue fra possibilità teorica e probabilità reale dell’accoppiamento: nel caso di popolazioni geograficamente isolate, la possibilità di accoppiarsi non può tradursi nell’accoppiamento in atto, e le condizioni in cui l’accoppiamento avviene in laboratorio non sono automaticamente estendibili alla situazione naturale.
4. Definizione di riconoscimento. La specie è definita come gruppo di organismi che si
riconoscono come partner sessuali40. Anche in questo caso, si tratta di una definizione
esclusivamente biologica, che esclude le specie non sessuali. Focalizzata sul mutuo riconoscimento dei membri della specie, è stata proposta per risolvere alcuni problemi operativi della definizione isolazionista, da cui deriva e da cui si discosta solo marginalmente.
5. Definizione coesionale, o ecologica41. La specie è definita come gruppo di organismi
adattati a una particolare nicchia ecologica. È un concetto esclusivamente biologico, include le specie non sessuali e sottolinea la relazione fra organismo e ambiente, aspetto di solito trascurato.
6. Definizione evolutiva, o filogenetica. La specie è definita come gruppo di organismi che
hanno un antenato comune e come linea evolutiva che mantiene la sua coerenza nel tempo42.
Dal punto di vista logico è probabilmente la definizione migliore, unica nell’integrare la visione evolutiva nella pratica tassonomica, sottolineando gli aspetti dinamici connessi alla specie. Sfortunatamente, però, è molto poco operativa e quindi poco utile, e poco usata, nel lavoro quotidiano dei tassonomi.
§ 32. La speciazione
Se la definizione di specie è tutt’altro che univoca, altrettanto vivace è stata la discussione sul tema della sua formazione, che è anche uno dei punti più controversi e interessanti del pensiero evoluzionista. Nel quadro della Sintesi moderna, abbandonata ogni ipotesi di hopeful
monsters, anche la questione della speciazione viene posta sotto l’insegna del gradualismo. Theodosius Dobzhansky (1900-1975) identificò i meccanismi di isolamento riproduttivo come fattori essenziali non solo nel mantenimento, ma nello stesso processo di formazione delle specie. Esistono due tipi di meccanismi in grado di isolare popolazioni appartenenti, all’inizio, a un’unica specie: quelli geografici e quelli fisiologici. I fattori di isolamento geografico costituiscono solo una barriera temporanea all’incrocio fra individui; se rimossi per tempo, e cioè prima dello sviluppo di meccanismi di isolamento fisiologico, al momento della riunificazione nulla impedirà l’incrocio fecondo fra le due popolazioni. I fattori di isolamento fisiologico sono invece permanenti e si sviluppano tramite l’intervento della selezione e della deriva genica: quelli prezigotici impediscono l’accoppiamento e includono, ad esempio, la mancanza di attrazione reciproca, o forti differenze anatomiche nell’apparato riproduttivo; quelli postzigotici ostacolano invece la produzione di prole fertile.
39 Dobzhansky 1951, 1970; Mayr 1969, 1982. 40 Paterson 1978, 1985.
41 Van Valen 1976; Templeton 1981.
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I modelli di speciazione differiscono fra loro in base al ruolo che attribuiscono al fattore geografico nel processo di isolamento.
SPECIAZIONE ALLOPATRICA – A causa di mutate condizioni geografiche e dell’insorgere di barriere (ad esempio, un fiume che cambia il suo corso), due popolazioni appartenenti alla stessa specie vengono a trovarsi in località diverse senza possibilità di incrocio. L’evoluzione successiva avverrà allora in modo indipendente nei due gruppi e, dato sufficiente tempo, si accumulerà a livello di popolazioni un certo numero di divergenze genetiche. Nel caso gli ambienti in cui le popolazioni si sono venute a trovare siano anche fortemente diversi fra loro, la spinta della selezione naturale contribuirà all’aumento della divergenza. Sul lungo periodo, questo processo risulterà nell’acquisizione da parte delle due popolazioni di meccanismi isolativi tali da renderle, di fatto, specie differenti.
SPECIAZIONE SIMPATRICA – Negli anni Ottanta del Novecento fu messa in dubbio l’importanza delle barriere geografiche negli eventi di speciazione. Nella speciazione simpatrica un sottoinsieme della popolazione madre va a colonizzare un sottoambiente nuovo, pur restando a condividere l’ambiente originario della specie. L’isolamento geografico è del tutto inesistente: la speciazione avviene grazie alle capacità adattive del sottoinsieme “colonizzatore”; in questo caso, l’azione della selezione naturale torna a risultare importantissima consentendo, in breve tempo, l’evolvere di nuove varietà e nuove specie.
SPECIAZIONE PARAPATRICA – È un modello di compromesso: prevede che la popolazione figlia sia distribuita ai margini della zona in cui vive la popolazione madre; le due distribuzioni non coincidono ma in parte si sovrappongono. La popolazione figlia, pur non essendo effettivamente separata dalla popolazione madre, ha tuttavia con essa ridotte possibilità di incrocio, essendo il flusso genico molto debole e consentito solo in una fascia limitata.
Anche dopo l’elaborazione di questi modelli, la questione della speciazione è rimasta attiva. Si è notato, per cominciare, che i modelli di speciazione appena visti sono validi solo per le specie a riproduzione sessuata ed escludono quindi il ricchissimo mondo delle specie a riproduzione non sessuata o mista, dove la speciazione avviene per altre vie. In secondo luogo, anche fra le specie a riproduzione sessuata sono stati descritti casi che sfidano ogni modello e arrivano a rimettere in causa la definizione stessa di specie. Le cosiddette ring species (il cui esempio più famoso riguarda un uccello che vive attorno alla zona artica, Phylloscopus
trochiloides) sono “specie” che popolano l’anello periferico di una zona climaticamente impervia; le popolazioni che abitano vicine sono assai simili e fra loro interfertili, mentre quelle che abitano zone diametralmente opposte tendono a essere morfologicamente differenti e perfino a non essere più interfertili. La specie viene quindi tenuta insieme non già da un gruppo di organismi tutti interfertili fra loro, ma da un «anello di interfertilità»43.
Inoltre, osservazioni recenti dei comportamenti riproduttivi di diverse specie, sia in natura che in cattività, hanno permesso di rilevare che l’incrocio fra specie che (almeno ai nostri occhi) sembrano essere fra di loro ben distinte è fenomeno assai più comune di quanto si ritenesse in passato. Tali incroci producono, in un certo numero di casi, prole viva. Si reputa inoltre che la combinazione di geni provenienti da specie diverse possa produrre nella prole una super- combinazione che potrebbe agire come innesco per eventi di speciazione. Non è chiaro, al momento, se si debba ipotizzare che questo genere di incroci avvenga solo fra gruppi erroneamente attribuiti a specie differenti o se il concetto stesso di specie debba essere integralmente ripensato.
49 § 33. Genoma, geni e proteine nel modello della Nuova Sintesi
Dopo la definizione logica di gene avanzata da Mendel, gli studi di Morgan sui cromosomi e diverse altre ipotesi e scoperte fatte nella prima metà del Novecento, nel 1953 Watson e Crick vinsero il premio Nobel per aver descritto la struttura a doppia elica che caratterizza la molecola di DNA. I due scoprirono, in sostanza, che i cromosomi sono composti dalla molecola di DNA, avvolta diverse volte su se stessa, protetta e sostenuta da una matrice proteica.
La genetica molecolare studia il DNA contenuto nei cromosomi. Per molti anni le ricerche sono state guidate dall’assunto fondamentale secondo cui la molecola di DNA consiste in una sequenza di istruzioni, i geni, ciascuno dei quali codificherebbe la struttura chimica di una singola proteina. Il genoma è dunque concettualizzato come programma, in analogia ai programmi informatici, mentre i geni sono al contempo entità materiali (nella fattispecie, porzioni della molecola di DNA contenuta in un cromosoma) e porzioni di programma che codificano le informazioni che servono per la costruzione e regolazione di polipeptidi, proteine e altre molecole che servono per la crescita e per il funzionamento dell’organismo. Come un algoritmo che controlla una catena di montaggio, il gene sarebbe quindi la sequenza lineare, completa e chiusa delle informazioni necessarie ad assemblare un prodotto particolare.
Rispetto all’idea mendeliana di gene come determinante di un carattere fenotipico, nella genetica molecolare c’è un restringimento molto netto del campo di esplicazione dell’azione genetica: «parlando in senso stretto, non si arriva neppure al metabolismo cellulare propriamente detto ma, ancorché in modo problematico, al ruolo enzimatico potenziale delle
proteine dei cicli biochimici specifici del vivente44».
Così concepita, la genetica molecolare poteva essere immediatamente ripresa all’interno del pensiero evolutivo e messa a sistema: essa offre infatti un meccanismo semplice per spiegare le mutazioni e, quindi, la base stessa dell’evoluzione.
Il genoma è la dotazione completa di materiale genetico (DNA) di una cellula. Più in particolare, s’intende di solito con “genoma” il materiale genetico contenuto nel nucleo, e quindi nei cromosomi; nelle cellule, tuttavia, esiste anche altro materiale genetico, portato dai diversi organi che le compongono (i mitocondri, ad esempio, sono dotati di DNA proprio).
Il materiale genetico, sia esso nucleare o meno, è formato da DNA, ovvero da acido desossiribonucleico, che solitamente si presenta in lunghe catene. Dal punto di vista chimico, il DNA è composto da due filamenti di polimeri, legati da legami idrogeno fra quattro basi complementari (adenina, timina, guanina e citosina, abbreviate con A, T, G, C,). Le quattro basi compongono le lettere del codice genetico e sono sempre appaiate in coppie fisse. Si può immaginare la molecola di DNA come una scala, i cui pali sono i due filamenti di polimeri, e i cui pioli sono composti dalle associazioni fra le basi: se da una parte del piolo si trova la timina, dall’altra ci sarà l’adenina, e viceversa; dove invece se si trova la guanina, dall’altra ci sarà la citosina (e viceversa).
Escludendo i virus, la quantità di coppie di basi (ovvero, di “pioli”) presenti nelle cellule delle diverse specie viventi varia fra 105 e 1011. Contro ogni aspettativa, la quantità di DNA non
correla con la “scala evolutiva” con cui ancora organizziamo, a livello inconscio, la nostra percezione del mondo vivente. Le piante, ad esempio, hanno mediamente 1011 paia di basi (o
“pioli”); gli umani ne hanno 3x109, la mosca 1,6x108, i funghi 1,3 x 107; e i batteri ne hanno un