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Verso la genetica moderna

§ 25. Eredità continua e discontinua

Per poter funzionare come Darwin ipotizzava, la selezione naturale aveva bisogno di un meccanismo ereditario di tipo discontinuo, in cui i diversi tratti non si fondono tra loro ma restano presenti in modo individuabile. La fusione dei tratti comporta infatti, nell’arco di poche generazioni, la diluizione e la scomparsa di quelli nuovi; perché la selezione possa operare è invece necessario che i caratteri rimangano ben differenziati nel passaggio generazionale.

La questione della continuità o discontinuità dell’ereditarietà (e quindi della variabilità) fu centrale in tutta la biologia della seconda metà dell’Ottocento e lo rimase fino ai primi decenni del Novecento. Uno dei più eminenti studiosi dell’eredità di questo periodo fu Francis Galton,

33 Gould 1981-1996.

34 Vedi ad esempio l’affaire Burt (Kamin 1974). 35 Dardot & Laval 2009.

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cugino di Darwin ed entusiastico sostenitore dell’evoluzione per selezione naturale. L’eredità dei caratteri acquisiti postulata da Darwin a garanzia del funzionamento della selezione naturale implicava la produzione di gemmule trasportate dal sangue; per verificare questa ipotesi, fra il 1869 e il 1871 Galton condusse lunghi esperimenti di trasfusione sanguigna fra varietà diverse di conigli per verificare l’impatto sulla progenie, senza risultati apprezzabili. Galton rifiutò allora il lamarckismo del cugino, ovvero l’eredità dei caratteri acquisiti, e fu tra i primi a proporre l’“eredità dura”, ovvero la selezione naturale dei soli caratteri ereditabili.

Negli stessi anni in cui Galton e Darwin si arrovellano sul problema dell’ereditarietà, Mendel pubblica il suo lavoro principale, che finalmente risolve la questione in eleganti termini matematici.

§ 26. Gli esperimenti di Mendel

Il monaco Gregor Mendel (1822-1884) è oggi considerato il fondatore della genetica moderna. La sua fama riposa su lunghi, pazienti e fortunati esperimenti con piante di piselli, realizzati nell’orto del convento del suo ordine. Nei suoi anni, tuttavia, seppure apprezzato e sostenuto dai confratelli, il suo lavoro passò inosservato. Nessuno prima di lui aveva mai usato la matematica e l’analisi statistica nella ricerca biologica: il suo approccio era, per l’epoca, troppo eccentrico. Pubblicato in tedesco su una rivista austriaca nel 1865, il suo lavoro restò del tutto ignoto non solo a Darwin e Galton (le cui teorie ne avrebbero grandemente beneficiato) ma all’intero mondo scientifico per oltre trent’anni.

Per analizzare la trasmissione genetica dei caratteri, Mendel si procurò linee pure (in quanto lungamente selezionate dagli agricoltori) di piselli aventi caratteristiche opposte: pelle ruvida vs. pelle liscia; seme di colore verde vs. seme di colore giallo; stelo alto vs. stelo basso; fiori bianchi vs. fiori purpurei ecc. Seguiamo ora, per semplicità, una sola caratteristica: quella relativa al colore dei semi; ma per avere chiara l’importanza e la difficoltà del lavoro di Mendel, si tenga conto che egli operava con tutti i caratteri simultaneamente e, ovviamente, senza nulla sapere della genetica che stava per fondare.

Incrociando una linea pura gialla con una linea pura verde (generazione parentale G), Mendel ottenne una prima generazione filiale (F1) di piselli uniformemente gialli: il carattere

verde sembrava scomparso. Tuttavia, impollinando fra loro i piselli gialli della F1, nella F2 trovò

circa 3/4 di piselli gialli e 1/4 di piselli verdi: il carattere verde, che pareva scomparso nella F1,

si ripresentava nella F2. Gli esperimenti proseguirono: incrociando fra loro i soli piselli verdi

della F2, la F3 era uniformemente verde, mentre incrociando fra loro i piselli gialli della F2 il

risultato era instabile, ma comparivano sempre anche piselli verdi, in una proporzione che era circa 1/4 del totale.

La genetica moderna fece il suo esordio sotto forma di rompicapo matematico. Quale meccanismo causava l’apparizione del colore verde a generazioni alterne? Perché, in ciascuna delle generazioni analizzate, la proporzione di piselli verdi variava fra due soli valori (o nessuno, oppure circa 1/4 del totale)?

Mendel risolse il rompicapo con un’intuizione brillante: ipotizzò che ciascun carattere visibile fosse determinato non già da uno, ma da due geni appaiati, che si separano in modo indipendente durante la formazione dei gameti. Per ciascun carattere, quindi, ogni individuo dispone di due geni (o meglio: di due varianti dello stesso gene, dette alleli), di cui uno è

dominante e l’altro è recessivo: la qualità manifesta del carattere, o fenotipo (nel caso in analisi, il colore giallo o verde dei piselli), è determinata dall’allele dominante. Ciò non significa, però, che il carattere portato dall’allele recessivo scompaia: semplicemente, in presenza dell’allele dominante quello recessivo non si manifesta. Da ciò segue la separazione logica fra genotipo (la conformazione allelica dei geni di un individuo) e fenotipo (la presenza manifesta di una delle due varianti nel soma individuale). A causa del gioco di dominanza e recessività, genotipi diversi possono manifestare un medesimo fenotipo.

39 linea pura verde

linea pura gialla

v v

G vG vG

G vG vG

Nelle tabelle l’allele dominante, che produce il colore giallo, è indicato con G, quello recessivo, che produce il colore verde, con v. In tutti gli individui della F1 il genotipo è

eterozigote (ovvero, composto di due alleli differenti) e il fenotipo è sempre di colore giallo, poiché l’allele dominante G, presente in tutti gli individui, si esprime determinando il colore mentre quello recessivo v, pur presente in tutti gli individui, resta silente.

F1 G v

G GG Gv

v Gv vv

Nella seconda tabella è mostrato l’incrocio reciproco di individui della F1. Poiché essa è

composta di piselli tutti genotipicamente eterozigoti, gli alleli, separandosi per dar vita ai gameti e poi riaccoppiandosi per formare il genotipo della F2, producono tre combinazioni possibili:

GG (1/4 degli incroci), Gv (2/4 degli incroci), vv (1/4 degli incroci). Queste tre combinazioni genotipiche danno vita a due sole varianti fenotipiche, poiché sia gli individui col genotipo GG che quelli col genotipo Gv manifestano il colore giallo (gli individui col genotipo omozigote vv manifestano, ovviamente, il colore verde). Nella F2 , pertanto, 3/4 dei fenotipi sono gialli, e 1/4

dei fenotipi sono verdi.

Tutto ciò è riassunto dalle leggi di Mendel. La prima, o legge della segregazione, può essere scomposta in quattro passaggi logici:

• ciò che determina la variazione nei caratteri ereditati sono versioni alternative (alleli) di

uno stesso gene, che controllano lo stesso tratto conferendogli caratteristiche diverse;

• per ciascun carattere vengono ereditati due alleli, uno da ciascun genitore; essi possono

essere uguali, come negli incroci entro una stessa linee pure, o differenti, come negli incroci fra linee diverse;

• se i due alleli sono differenti solo uno, quello dominante, viene espresso nel fenotipo;

l’altro non ha effetto;

• i due alleli che controllano il medesimo carattere segregano (ovvero, si separano) durante

la produzione dei gameti, finendo ciascuno in un diverso gamete.

La seconda legge di Mendel, o legge dell’assortimento indipendente, afferma che ciascuna coppia di alleli segrega indipendentemente da tutte le altre; ciò significa, a livello fenotipico, che l’emergenza di un carattere particolare (il colore verde, poniamo) non ha alcuna influenza sull’emergenza di un altro carattere particolare (la pelle rugosa, ad esempio). Ciò equivale a dire, infine, che i caratteri si ereditano separatamente.

Già durante i suoi esperimenti Mendel aveva tuttavia notato che alcuni tratti non seguivano le leggi che stava definendo, e in particolare quella dell’assortimento indipendente: alcuni caratteri non si manifestavano in modo indipendente, ma sempre in combinazione con altri (per fare un esempio fittizio, immaginiamo che il colore bianco dei petali dei fiori di pisello sia sempre associato alla rugosità della pelle del seme). Questo fenomeno è stato successivamente spiegato con l’associazione dei geni sopra un medesimo cromosoma (linkage) – ma, storicamente, i cromosomi entrano in scena solo diversi decenni dopo, grazie agli sviluppi della citologia; Mendel non può far altro che segnalare il problema.

Resta da sottolineare la rilevanza del metodo statistico applicato alle scienze naturali: è la statistica che permette a Mendel di ridurre il problema dell’emergenza dei tratti a una questione di probabilità matematica e di ipotizzare un meccanismo combinatorio plausibile per la produzione delle diverse configurazioni. Questo metodo, decisamente outré per la sua epoca, sarà nel Novecento alla base di un’intera branca della genetica. Al contempo, resta vero che,

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nella scelta dei caratteri da studiare, Mendel è stato fortunato: le leggi che ha definito sono valide, infatti, solo per i caratteri detti appunto mendeliani, ovvero quelli che sono controllati da un solo gene e i cui alleli sono in rapporto completo di dominanza / recessività. Nei caratteri mendeliani l’associazione fra genotipo e fenotipo è semplice e diretta, ma si tratta di casi abbastanza eccezionali, che comprendono pochissimi caratteri per ciascuna specie.

§ 27. Fra geni e cellule

Negli ultimi due decenni dell’Ottocento il contributo teorico più importante allo studio evolutivo dell’ereditarietà venne da August Weismann che, dopo un inizio pienamente darwiniano, confutò definitivamente l’ereditarietà dei tratti acquisiti. Tagliò la coda a 21 generazioni di topi e, avendo constatato che essa continuava a essere presente nella ventiduesima, suggerì nel 1885 che le caratteristiche ereditarie fossero trasmesse da cellule particolari (dette germinali), deputate alla riproduzione e separate da quelle somatiche, deputate al normale funzionamento dell’organismo. Qualunque cosa accada alle cellule somatiche, questo non influenza le cellule germinali, la cui continuità non viene interrotta. In termini moderni, si parla di mitosi e meiosi: mentre il primo processo duplica una cellula iniziale producendo due cellule figlie identiche, il secondo processo dapprima duplica i cromosomi, come avviene nella mitosi, ma poi li ripartisce non già in due ma in quattro cellule figlie, ciascuna delle quali contiene solo metà del patrimonio genetico iniziale. Nel 1892 Weismann propose che i cromosomi costituissero la base materiale dell’eredità genetica, ma restò inascoltato finché, a inizio Novecento, la convergenza fra teoria dell’evoluzione, studi sull’ereditarietà e citologia permisero la “riscoperta” del suo lavoro e di quello di Mendel, nonché la combinazione dei loro nel quadro dell’evoluzione per selezione naturale.

Intorno al 1900 l’idea che le forme viventi fossero soggette all’evoluzione era ampiamente diffusa; permanevano invece molti dubbi riguardo al meccanismo dell’evoluzione. In particolare, si opponevano la visione gradualista, che aveva a capostipite Darwin, e quella discontinua, parteggiata dai mendeliani. Nell’ambito dell’evoluzione discontinua il genetista tedesco Richard Goldschmidt sviluppò l’idea, poi variamente ripresa e osteggiata nei decenni seguenti, dell’hopeful monster (“mostro di belle speranze”). Goldschimdt pensava che le micromutazioni ipotizzate da Darwin potessero sì cambiare alcuni aspetti delle specie, ma non fossero in alcun modo sufficienti nella spiegazione dei passaggi evolutivi più rilevanti. L’hopeful monster è un individuo che presenta mutazioni maggiori e, attraverso queste, contribuisce alla macroevoluzione della sua specie e finanche alla comparsa di nuove specie.

Fra il 1900 e il 1912 furono sperimentati un gran numero di incroci in un’ampia varietà di piante e di animali, e si cominciarono a osservare fenomeni di co-dominanza o di assenza di dominanza fra gli alleli. Una questione difficile riguardava la variabilità continua (anziché discreta) di molti caratteri. I caratteri a variabilità continua sono quelli che non si manifestano come classi separate (ad es., colore verde / colore giallo), ma si esprimono con valori distribuiti lungo una scala continua, in cui fra un valore e quello successivo è sempre possibile inserirne un terzo intermedio (in Homo sapiens un carattere a variabilità continua è la statura; come esempio di carattere a variabilità discontinua si può invece pensare ai gruppi sanguigni). Per questi caratteri si ipotizzò che non dipendessero da un solo gene, ma dall’azione combinata di più geni che intervengono in modi e tempi diversi, in varianti alleliche diverse e in continua interazione con le condizioni dell’ambiente esterno. Con questa estensione, lo schema di Mendel diventava compatibile con l’idea darwiniana della selezione su piccole variazioni individuali.

Per quanto strano possa sembrare oggi, genetica e citologia (lo studio della cellula) sono rimaste discipline completamente separate fino a quando, all’inizio del Novecento, la corretta individuazione della funzione dei cromosomi innescò una sorta di duplice rivoluzione nelle due scienze. Nel 1902, indipendentemente l’uno dall’altro, lo statunitense Sutton e il tedesco Boveri mostrarono che la legge della segregazione e dell’assortimento indipendente si applicava ai

41 cromosomi durante la meiosi: come geni mendeliani, infatti, i cromosomi si dispongono in coppie, i membri di ciascuna coppia segregano in modo bilanciato nei gameti, e coppie diverse di cromosomi si comportano in modo indipendente. I comportamenti paralleli di geni e cromosomi condusse all’ipotesi che i geni (concettualmente individuati da Mendel) fossero fisicamente collocati sui cromosomi. La semplice correlazione di due concetti provenienti da due scienze diverse prese il nome di teoria cromosomica dell’eredità e segnò la nascita di una nuova disciplina, la citogenetica, ovvero la parte della genetica che si occupa dei fenomeni ereditari osservabili a livello cellulare, e quindi, in particolare, dei cromosomi.

§ 28. Gli esperimenti di Morgan

Gli esperimenti che T.H. Morgan (1866-1945) iniziò nel 1909 con la Drosophila

melanogaster (la comune mosca della frutta) sono, per molti aspetti, una versione complicata degli esperimenti di Mendel. Anche in questo caso, il successo fu dovuto alla scelta del giusto animale da laboratorio. La Drosophila presenta due grandi vantaggi: ha un ciclo di vita rapidissimo, che permette di ottenere in tempi brevi un alto numero di generazioni, e possiede soli otto cromosomi di dimensioni assai grandi, con gli eterosomi X e Y ben differenti fra loro.

Il dato di partenza è semplice: gli individui di Drosophila presentano di solito occhi bianchi ma ogni tanto, nella popolazione normale, compare un individuo con occhi rossi. Morgan iniziò incrociando una generazione parentale G di femmine occhi rossi e maschi occhi bianchi: tutti gli individui della prima generazione filiale F1 avevano occhi rossi. Ergo, il gene per gli occhi rossi

doveva essere dominante. Gli individui della F1 furono allora incrociati fra loro: secondo i

risultati di Mendel, avrebbero dovuto esservi nella F2 un rapporto di tre individui occhi-rossi per

ogni individuo occhi-bianchi. E di fatto, il conteggio F2 della diede un risultato assai vicino al

rapporto atteso di 3:1, ma il fatto curioso era che nessuna femmina della F2 aveva gli occhi

bianchi, mentre fra i maschi metà aveva gli occhi rossi e metà aveva gli occhi bianchi. L’elemento di complicazione degli esperimenti di Morgan rispetto a quelli di Mendel consisteva quindi in un legame (linkage) del carattere “colore degli occhi” col carattere “sesso”.

Il secondo esperimento fu l’incrocio di una generazione parentale G di femmine occhi- bianchi con maschi occhi-rossi. Nella risultante generazione F1 tutti i maschi avevano occhi

bianchi e tutte le femmine avevano occhi rossi. L’incrocio successivo fra gli individui della F1

produssero una F2 in cui metà dei maschi e metà delle femmine avevano occhi bianchi.

Morgan concluse che non tutti i tratti genetici sono trasmessi indipendentemente alla generazione successiva, come Mendel aveva ipotizzato: al contrario, alcuni tratti dovevano essere legati fra loro. Questo fenomeno prende il nome di linkage cromosomico. Nel caso in questione, il gene per gli occhi bianchi doveva essere connesso al cromosoma X. Ora, se il tratto occhi-bianchi è legato al sesso (e quindi al cromosoma X), dal momento che i maschi hanno un solo cromosoma X, la caratteristica recessiva (occhi bianchi) appariva più facilmente nei maschi che nelle femmine di Drosophila.

Schematicamente, il primo esperimento può essere visualizzato come segue: la generazione parentale è composta di femmine occhi rossi (genotipo XRXR, dove X è il cromosoma sessuale e

R è l’allele dominante che determina il colore rosso degli occhi) e di maschi occhi bianchi (genotipo XBY – il cromosoma Y, più piccolo del cromosoma X, non porta il gene per il colore

degli occhi); al momento dell’incrocio, i cromosomi si separano indipendentemente alla stregua di geni mendeliani, ma portando ciascuno con sé l’insieme di geni di cui è composto.

femmina occhi rossi maschio occhi bianchi

XR XR

XB XR XB XR XB

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Nella generazione seguente F1 tutti gli individui hanno gli occhi rossi, indipendentemente dal

sesso, poiché tutti hanno ereditato un cromosoma XR dalla madre; tuttavia le femmine della F 1

(ovvero, gli individui che presentano due cromosomi X) sono eterozigoti per il carattere «colore degli occhi», presentando genotipo XR XB; i maschi, invece, essendo la Y un cromosoma molto

piccolo e con pochissimi geni, avranno tutti un unico allele occhi rossi sul cromosoma X. Incrociando fra loro i maschi e le femmine di questa generazione, l’esito è così schematizzabile:

femmina eterozigote occhi rossi maschio occhi rossi

XR XB

XR XR XR XR XB

Y XR Y XB Y

Nella F2 tutte le femmine hanno occhi rossi, metà di loro è genotipicamente omozigote (XR

XR) e metà eterozigote (XR XB); tra i maschi, invece, metà ha occhi rossi (XR Y) e metà ha occhi

bianchi (XB Y).

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