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L’evoluzione plurale

§ 36. Contravveleni

Intonato alle politiche dell’economia neoliberista, il neo-darwinismo si è presentato spesso come l’unica verità scientifica possibile sull’umano, irridendo qualsiasi altra teoria e marginalizzando coloro che non aderivano ai suoi presupposti, tacciati come ideologi irrazionali e ostili alla scienza. Ancor oggi quest’approccio gode di un enorme successo politico, di finanziamenti e di pubblico (v. gran parte della divulgazione scientifica di medio e basso livello).

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I testi di Dawkins e di Wilson, e poi quelli di una schiera di epigoni, hanno fatto da cassa di risonanza presso il grande pubblico per un riduzionismo che serviva, in definitiva, a indorare la pillola per una serie di politiche orientate al darwinismo sociale46. La mossa teorica

fondamentale consiste nell’appiattire l’intera l’evoluzione sopra le sue condizioni minime, senza tener conto né della variabilità (sia intra- che inter-popolazionistica), né del fatto che l’evoluzione stessa si è modificata nel tempo. Così, se la vulgata sociobiologica giustifica l’infanticidio o lo stupro negli umani perché così fanno orsi e furetti, l’attribuzione ai meccanismi genetici di comportamenti tanto vari quanto la criminalità, l’orientamento politico o sessuale, la golosità e le spese pazze (per non parlare delle malattie), fanno sì che le variabili storiche, collettive e individuali, siano interamente percepite come invarianti di natura.

In poche parole, il neo-darwinismo si basa sul principio secondo cui la variazione governata dalla selezione naturale è necessaria e sufficiente a spiegare l’evoluzione degli organismi viventi. (…) Quando si arriva agli umani, per i quali una larga parte di quel che fanno e conoscono è evidentemente acquisita anziché innata (e forse anche, in misura minore, per molte creature non-umane), si suppone che molta informazione sia trasmessa orizzontalmente con mezzi diversi da quello della replicazione genetica. Quelli che vorrebbero integrare le scienze umane nel neo-darwinismo hanno cooptato la nozione di “cultura” per fare riferimento a questa componente informativa, ipotizzando che la sua trasmissione attesti una seconda pista di ereditarietà, che corre parallelamente alla prima, quella genetica. In analogia ai geni, hanno battezzato “memi” le unità replicanti di questa seconda pista.47

Anche all’epoca del suo trionfo, tuttavia, non tutti condividevano l’impostazione scientifica del neo-darwinismo. Alcuni fra i più brillanti evoluzionisti e genetisti della seconda metà del secolo hanno levato una critica serrata all’idea stessa secondo cui la fitness (l’adattamento all’ambiente e cioè, in ultima analisi, la riproduzione) sia l’unico criterio in grado di spiegare l’evoluzione. È la cosiddetta critica al pan-adattazionismo48, ovvero all’idea che tutti i tratti

presenti nelle specie – siano essi morfologici, anatomici, fisiologici o comportamentali – debbano avere una precisa ragione evolutiva.

In un saggio brillante e giustamente famoso, Stephen J. Gould e Richard Lewontin hanno qualificato con l’epiteto di just-so stories (“storie un po’ così”, dal titolo di un libro di Kipling) le spiegazioni del paradigma pan-adattazionista: dimostrazioni evolutive apparentemente plausibili ma di fatto prive di qualsiasi verificabilità49. Contro le banalizzazioni del pensiero

biologico ed evolutivo, questa critica sostiene che, nell’evoluzione delle specie e dei loro caratteri, non è solo in questione l’adattamento all’ambiente, ma anche la coerenza interna degli organismi, la coesione degli individui, lo sviluppo di capacità potenziali e mobili (quali, fra le altre, la capacità cognitiva stessa, che non è alcunché di già dato, come può essere un’ala o un istinto, ma un campo aperto di possibilità di interazione e di apprendimento, strutturalmente dipendente dall’interazione dell’organismo con l’ambiente e con gli altri organismi).

In effetti è strano che, proprio quando la fisica si allontana dal meccanicismo, la biologia e la psicologia vi si avvicinano. Se questa tendenza continuerà, gli scienziati presto guarderanno agli esseri viventi e intelligenti come a macchine, e al contempo reputeranno che la materia inanimata è troppo complessa e sottile per essere interpretata con le categorie del meccanicismo50.

La critica al panadattazionismo sviluppa poi una seconda questione epistemologica, e delle più importanti: la biologia è, nelle sue stesse fondamenta, una scienza storica. Lo studio dei

46 UNESCO 1950, Kamin 1974, Gould 1981-1996. 47 Ingold 2013, p. 2.

48 Gould & Lewontin 1979; Lewontin 1991; Hubbard & Wald 1997. 49 Gould & Lewontin 1979.

55 viventi non può prescindere dall’analisi dei fattori contingenti che, volta per volta, sono intervenuti nelle trasformazioni di ciascuna specie. Ogni processo evolutivo risponde a un insieme unico di eventi contingenti, vincoli evolutivi, esplorazioni di forme e architetture, e così via. Questo implica che, per ciascuna specie, si deve tener conto della particolare storia evolutiva che essa – e solo essa – ha seguito e che non sono possibili estrapolazioni: il modello evolutivo elaborato per una specie non necessariamente vale per un’altra, e ciò che vale per molte specie non necessariamente vale per tutte. In altre parole, la biologia evolutiva è una scienza delle contingenze, con tanti oggetti diversi e irriducibili quante sono le specie viventi. L’evoluzione, in breve, ha avuto tante forme quante sono le specie, viventi ed estinte, che si sono susseguite sul pianeta. Nel caso di specie complesse e “culturali”, poi, oltre alla linea storica filogenetica conviene tener conto anche di quella ontogenetica e individuale.

Proprio per questo, infine, le interpretazioni sociobiologiche della teoria dell’evoluzione, che leggono il comportamento umano sulla falsariga dei comportamenti animali, devono essere respinte: non già perché siano troppo biologiche ma, al contrario, perché lo sono troppo poco. È dunque ora di complessificare il modello con l’aggiunta degli sviluppi recenti della genetica e del pensiero evolutivo.

§ 37. Macroevoluzione, catastrofi, attrattori strani

La Sintesi moderna ha letto il processo evolutivo come lentissimo e continuo, supponendo che l’emergere improvviso di una grossa modificazione in un solo individuo sarebbe selezionato in modo avverso: l’individuo portatore risulterebbe infatti eccessivamente differente dagli altri individui della sua popolazione. Le macromutazioni emergerebbero quindi solo come risultato dell’accumulo di micromutazioni.

Nella ricerca di campo, però, questo modello incontra un problema. Le stratigrafie fossili, dove questa lenta trasformazione delle forme dovrebbe essere visibile come in una sorta di film al rallentatore, non mostrano affatto un accumulo graduale di piccole mutazioni e la progressiva trasformazione delle specie ma, al contrario, passaggi bruschi da una forma a quella successiva. In altre parole, ciò che i paleontologi spesso osservano nelle serie stratigrafiche sono lunghe fasi di stabilità della specie seguite da periodi rapidi di trasformazione. Per spiegare questa situazione la Sintesi moderna ha ipotizzato che le stratigrafie fossili siano incomplete e mostrino soltanto rari campioni fossili, appartenenti a periodi lontani, in cui le forme sono già separate da milioni di anni di evoluzione lenta: una stratigrafia davvero completa, in cui fossero presenti tutte le generazioni, mostrerebbe invece tutta la serie della trasformazione graduali.

Un punto di vista completamente diverso è stato sostenuto da Niles Eldredge e Stephen J. Gould nell’articolo, pubblicato nel 1972, che fondava il puntuazionismo come alternativa al

gradualismo. Da allora, la discussione sui concetti di micro- e macro-evoluzione non è mai cessata e ha prodotto risultati teorici pregevoli51. Il punto di partenza di Eldredge e Gould

consisteva nel non dismettere le osservazioni dei paleontologi e nel prendere sul serio l’alternanza, visibile nelle stratigrafie, di lunghi periodi di stasi, in cui le specie subiscono tutt’al più piccole mutazioni che perfezionano le caratteristiche già presenti, e di rapidi periodi di evoluzione macroscopica, in cui avvengono buona parte delle speciazioni e della differenziazione fra gruppi.

La separazione temporale di questi due momenti conduce anche alla separazione concettuale fra microevoluzione e macroevoluzione. Ci si è chiesti se i medesimi meccanismi evolutivi lenti e graduali, che operano nei periodi di stabilità apportando piccole modificazioni adattive, possano operare anche i cambiamenti veloci e macroscopici che separano le specie fra loro; ovvero, se vi sia continuità fra microevoluzione intraspecifica e macroevoluzione di specie e gruppi. Secondo la Sintesi moderna la microevoluzione delle popolazioni, stante tempo

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adeguato, conduce dapprima alla graduale separazione delle popolazioni, poi a quella delle specie e infine a quella dei livelli superiori. Il puntuazionismo, al contrario, sostiene che la microevoluzione è inadeguata nella spiegazione di fenomeni che non siano di microadattamento; e che per spiegare l’origine delle specie occorre postulare meccanismi evolutivi più forti. La differenza fra le due fasi osservabili nelle stratigrafie non sarebbe, dunque, solo questione di tempo evolutivo o di rapidità nell’accumulo dei cambiamenti, ma l’esito di processi evolutivi differenti.

Si trattava, insomma, di sviluppare un modello evolutivo capace di rendere conto in modo non banale di fenomeni rapidi e macroscopici. In sintesi, il puntuazionismo ridimensiona la rilevanza evolutiva dell’adattamento ambientale, utile nei periodi di stabilità ma insufficiente a innescare le trasformazioni e le innovazioni più profonde. Fra i concetti elaborati a questo scopo, di particolare rilievo sono quelli di trend evolutivo, radiazione, estinzione di massa e tasso evolutivo.

I trend evolutivi sono “tendenze generali”, sovraspecifiche, che si osservano a volte nelle serie fossili e che accomunano specie apparentate in una medesima direzione evolutiva. Questa direzionalità evolutiva potrebbe essere un effetto casuale macroscopico, dovuto alla sopravvivenza di specie che presentavano quella caratteristica, oppure indicare qualcosa che, nell’evoluzione delle specie, non risponde direttamente alla selezione ambientale ma al «piano di costruzione» (spesso indicato con la parola tedesca Bauplan) delle forme, a vincoli interni. Due esempi celebri di trend evolutivi sono l’aumento delle dimensioni fisiche nell’evoluzione del cavallo e l’aumento della capacità cranica nella filogenesi umana.

Con radiazione adattiva s’intende il momento in cui un gruppo di organismi moltiplica il numero delle proprie specie, o comunque delle proprie forme, andando a occupare nicchie ecologiche nuove, resesi disponibili o perché lasciate da altri occupanti o perché finalmente raggiungibili, sia grazie a trasformazioni geografico-ambientali, sia grazie a nuove caratteristiche evolutive. Un esempio di radiazione adattiva è l’espansione dei mammiferi in tutte le nicchie terrestri dopo la scomparsa dei sauri.

Le estinzioni di massa sono eventi catastrofici in cui scompaiono interi gruppi. Diversi eventi di estinzione di massa (da 5 a oltre 20, a seconda delle diverse interpretazioni) si sono succeduti negli ultimi 500 milioni di anni; le cause ipotizzate comprendono mutamenti repentini del clima, eventi maggiori di vulcanismo, i movimenti delle placche continentali ed eventuali impatti di corpi celesti (meteoriti) sul pianeta. Se la più nota estinzione di massa è senz’altro quella dei dinosauri (avvenuta 65 milioni di anni fa, al confine fra Cretaceo e Terziario), quella peggiore si produsse 250 milioni di anni fa, al limite fra Permiano e Triassico, quando scomparvero l’80% dei generi marini e il 70% delle specie terrestri.

Il concetto di tasso evolutivo aiuta infine a mettere in luce il fatto che non tutte le specie e non tutti i gruppi evolvono nel tempo con la stessa rapidità: le felci, per fare un esempio, sono rimaste pressoché immutate da diverse decine di milioni di anni, mentre attorno a loro interi gruppi conoscevano enormi radiazioni adattive e altrettanto enormi fenomeni di estinzione.

L’approfondimento della differenza fra micro- e macro-evoluzione non si limita a una ricognizione dei diversi meccanismi in azione nei due casi, ma porta con sé diverse implicazioni riguardo al senso del processo evolutivo e alle interpretazioni dei suoi meccanismi. Per questo il concetto di Bauplan si è rivelato cruciale: perché mette a tema, in biologia, la questione del tempo, della continuità e dei livelli. Il Bauplan è l’insieme delle proprietà che le specie facenti parti di un gruppo sistematico hanno in comune e che ne condizionano l’assetto generale e le linee di sviluppo. Esso non descrive le caratteristiche particolari di ciascuna specie del gruppo, non è la somma di tutti i caratteri che si trovano entro quell’insieme, ma descrive il piano generale lungo il quale quel gruppo si sviluppa. Il Bauplan, quindi, non risponde ai criteri adattivi della selezione naturale: è un modo coerente (una “buona forma”) in cui la vita può organizzarsi, non un adattamento specifico all’ambiente. È ipotizzabile che i fattori strutturali e di auto-organizzazione che i diversi Bauplan specificano e mettono in coerenza possano essere altrettanto o più importanti, nell’evoluzione della vita, quanto la selezione naturale; il ritmo

57 della loro evoluzione non può che essere drasticamente differente. Qui la biologia incrocia una delle evoluzioni più interessanti della fisica novecentesca.

Mentre la scienza positivista di fine Ottocento si basava in primo luogo sulla linearità e la continuità, la parte più interessante della scienza novecentesca ha fatto continuamente i conti con la non linearità, la non progressività, l’indecidibilità. Ne testimoniano le teorie fisiche e matematiche che trattano dei frattali, del caos, delle catastrofi, ampiamente usate nei modelli meteorologici e climatologici, nei sistemi di previsione dei sismi, nell’ecologia, nella sociologia, nell’economia. Tutto questo campo di studi si concentra sull’esistenza di fenomeni, descrivibili tramite equazioni non lineari, caratterizzati da improvvisi cambiamenti dovuti al sommarsi progressivo di piccole modificazioni o all’azione a lungo termine di piccole differenze iniziali. Poincaré sosteneva, all’inizio del Novecento, che una piccola differenza iniziale può provocare un errore ragguardevole sul risultato finale: nei sistemi dinamici una variazione, anche minima, nei parametri iniziali può causare differenze enormi sullo stato finale.

La cosiddetta «teoria delle catastrofi» indaga, appunto, i sistemi che, dopo essere rimasti a lungo in stato di equilibrio, si trovano improvvisamente e in modo drastico a mutare comportamento. Il variare, minimo e lineare, di un parametro può infine dare avvio a un processo di natura differente, che modifica sostanzialmente l’assetto del sistema complessivo.

La rilevanza di questi processi nell’evoluzione biologica è immediatamente evidente e permette di superare in modo deciso l’opposizione di gradualismo e puntuazionismo. La pressione adattiva dell’ambiente, lenta e continua nel tempo (cara ai darwiniani “ortodossi”), può spingere l’organismo-specie fino a un certo limite, passato il quale gli eventi che si producono non sono della stessa natura di quelli precedenti. Superata la soglia dall’adattamento graduale all’ambiente si avrebbe quindi una ristrutturazione complessiva, non adattiva (o comunque: non necessariamente adattiva): una catastrofe, appunto.

Collegato a quello di catastrofe vi è poi il concetto di attrattore, definito in matematica come un insieme verso il quale, dato tempo sufficiente, un sistema dinamico evolve. Nello spazio che circonda l’attrattore, le traiettorie del sistema tendono a tornare vicino all’attrattore stesso anche se vengono leggermente perturbate. Applicato all’evoluzione degli organismi viventi, il concetto di attrattore permette di dare un fondamento matematico all’idea secondo cui gli organismi evolvono anche (e forse soprattutto) secondo le linee della loro coerenza interna e di sistema, ovvero tendono a restare in equilibrio e, se l’equilibrio viene rotto, a raggiungere rapidamente un’altra configurazione stabile. Gli attrattori, insomma, spiegano la “buona forma” delle specie. È evidente che la funzione dei parametri ambientali resta alta, ma il suo segno è rovesciato: l’ambiente non è ciò che seleziona le variabili più adatte, ma ciò che disequilibra sistemi in equilibrio, costringendoli a trovare equilibri nuovi.

§ 38. L’evoluzione dell’evoluzione

L’idea che l’evoluzione non sia riducibile a un unico meccanismo ma sia, piuttosto, il divenire generale degli esseri organici, ciascuno avente una traiettoria unica e modalità specifiche, ha trovato negli ultimi anni notevoli conferme negli studi sulle primissime fasi della vita organica sul pianeta, che hanno permesso di retrodatare a 3,5 miliardi di anni la comparsa della vita sulla terra e di provare che le modalità evolutive non sono state sempre le stesse52.

La variabilità che oggi caratterizza il mondo vivente non è sempre stata presente. Di fatto, le forme viventi hanno cominciato la loro differenziazione in modo brusco in tempi relativamente recenti, con la cosiddetta “esplosione cambriana”, iniziata circa 542 milioni di anni fa. Prima di quel momento, e per oltre tre miliardi di anni, il pianeta è stato abitato solo da organismi monocellulari o da forme multicellulari di estrema semplicità. In questa prima, lunghissima fase

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evolutiva le “regole del gioco” erano molto diverse da quelle che hanno governato la fase successiva.

Fra le prime forme viventi monocellulari c’era trasmissione orizzontale di geni: geni e frammenti di genoma erano trasmessi da una cellula all’altra senza che fra le due vi fosse relazione di ascendenza-discendenza. La sopravvivenza differenziale dal “più adatto” era quindi un problema decisamente minore: per le cellule arcaiche la prima evoluzione è stata sostanzialmente collaborativa, con scambio di materiale e potenziamento “collettivo” del genoma.

In altre parole, le prime cellule, ciascuna delle quali aveva relativamente pochi geni, differivano le une dalle altre in molti modi. Attraverso lo scambio di geni, misero in comune diverse delle loro capacità con le altre. Infine, questa collezione di cellule eclettiche e mutevoli formò i tre domini della vita oggi noti. Questi diventarono riconoscibili in quanto tali perché molto (ma assolutamente non tutto) il trasferimento genico che oggi avviene, avviene all’interno dei domini stessi53.

È possibile, peraltro, che per questa prima fase sia semplicemente erroneo parlare di specie e di individui: le regole evolutive erano differenti perché la topologia stessa della vita era differente rispetto a quella che siamo abituati a vedere attorno a noi. Non a caso, pare che l’esplosione cambriana stessa sia stata resa possibile dall’emergere della riproduzione sessuata e dall’incremento nella variabilità individuale che questa permette. Nella riproduzione non sessuata il patrimonio genetico della cellula-madre viene semplicemente duplicato, le sole variazioni presenti sono dovute a mutazione e richiedono un certo tempo per apparire; nella riproduzione sessuata, invece, la cellula figlia risulta dalla combinazione di due genomi provenienti da cellule diverse, ciò che dimezza i “tempi di attesa” delle mutazioni e introduce la variabile della ricombinazione.

Tutto questo costringe a ripensare un’analogia che ha fatto il suo tempo e che, nondimeno, ancora regola il nostro imaginario: quella di programma genetico. Essa equipara il vivente alla macchina informatica, composta di un hardware fisico e di un software che “gira” sulla macchina e ne determina le risposte. Utile negli anni Cinquanta – in piena esplosione cibernetica – per cominciare a comprendere l’alfabeto e le regole dell’informazione genetica, nel modello conoscitivo che si va sviluppando oggi risulta è più d’intralcio che d’aiuto.

Curiosamente, la critica all’uso della metafora del programma in biologia viene non tanto dai biologi (salvo quelli impegnati nella biologia teorica, il cui rigore teorico resta tuttavia di nicchia) quanto dai fisici e dai matematici, ovvero da coloro che, quando parlano di programma informatico, lo fanno conoscendone tutte le implicazioni epistemiche. In sostanza, essi dicono, un programma informatico è una macchina di Laplace, in cui la predizione di ciò che accadrà dipende dallo svolgersi di regole fisse che stanno a monte, la variazione viene ridotta al minimo e, almeno a livello teorico, è sempre possibile predire ciò che sta per accadere perché, appunto, ciò dipende esclusivamente dal dispiegamento di una serie di norme. Perché un programma funzioni, l’errore e la variabilità devono essere ridotti al minimo: ci si aspetta infatti che lo stesso programma, lanciato migliaia di volte sulla stessa macchina o su macchine differenti, si comporti sempre nella stessa maniera – e guai se non è così. Un programma informatico è tanto migliore quanto più l’iterazione si riproduce identica. Lo stesso vale, mutatis mutandis, a livello più generale per i modelli fisici in cui la causalità dipende dalla separazione dei diversi parametri di un sistema, di cui uno viene fatto variare per osservare l’andamento degli altri. Per essere considerate valide, le equazioni che ne derivano dovrebbero anche essere deducibili matematicamente e a priori54.

53 Doolittle 2000.

54 Vale la pena di notare che, a partire dalla termodinamica, una serie di ricerche fisiche hanno potuto

procedere solo sganciandosi dal modello epistemologico della deducibilità: Prigogine & Stengers 1979- 1986.

59 Questo, però, non è in alcun modo il caso del genoma. Per cominciare, la correlazione fra osservazione empirica (mutazioni del fenotipo, teratogenesi ecc.) e “equazione” (il gene che ne sarebbe alla base) non dispone di nessun quadro in cui sia possibile dedurre, a partire dalla modificazione del gene, la modificazione del fenotipo. In secondo luogo, paragonare il genoma a un programma informatico significa smarrire la specificità del fenomeno biologico che, rispetto ai modelli fisici presenta una complessità irriducibile. Come scrivono due fisici, «il contesto di espressione dei genomi non è in effetti certamente un luogo passivo di iterazione