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Teorie implicite

§ 128. Dormire, forse sognare

La messa in forma ontogenetica serve a renderci presenti e attivi all’interno del contesto culturale a cui apparteniamo. Questo contesto, a sua volta, è strutturato secondo una serie di teorie implicite, schemi comportamentali complessi ai quali rispondiamo come se fossero naturali: non c’è alcun “comportamento” umano – dalle reazioni apparentemente più fisiologiche ai comportamenti complessi – che non derivi da una “teoria” culturalmente determinata che ha impresso le sue insegne (talora in modo evidente, talora in modo meno chiaro) sui soggetti che a quella cultura appartengono.

Pensiamo, ad esempio, al sonno. Modi, tempi e forme del sonno sono regolati da teorie implicite estremamente raffinate, ma anche grandemente variabili da contesto a contesto. Per portare in luce la nostra teoria del sonno, si può osservare cosa fanno i genitori quando mettono a dormire i bambini: per cominciare, viene preparato un ambiente caldo, buio, silenzioso, che contiene un letto morbido e pulito; a una certa ora del giorno, sempre la stessa e verso l’imbrunire, viene eseguito un complesso rituale che dapprima prepara e poi accompagna nel sonno i bambini con abluzioni, musiche, gesti ripetuti, formule; al termine del rito, quando finalmente il bambino dorme, un sacro silenzio dev’essere osservato per tutta la casa. Questo è, dunque, il modello di sonno che s’imprimerà nella psiche e nell’impianto neurologico del soggetto, nonché quello a partire dal quale viene valutata come inadeguata o erronea qualsiasi altra teoria del sonno. Di tutt’altra opinione sono però altre popolazioni, presso le quali i bambini dormono quando ne hanno voglia, legati alle schiene di un adulto o di un bambino più grande; e quando hanno dormito abbastanza si svegliano da sé. Si può notare, di passaggio, che solo in poche parti del mondo il sonno dei bambini è, per i genitori, tanto problematico quanto per noi (per accertarlo, basta osservare il numero di pubblicazioni in vendita presso le librerie). La differenza fra teorie, inoltre, non riguarda solo il modo in cui i bambini vengono portati, o indotti, al sonno: l’abitudine acquisita nell’infanzia diventa seconda natura, il contesto infantile del sonno si fa, nell’adulto, condizione del sonno – o, se il caso, dell’insonnia.

Su un altro livello possiamo porre l’interpretazione dei sogni, che è un’operazione ermeneutica avanzata e non una teoria implicita. Anche in questo caso, tuttavia, la prima cosa da apprezzare è la variabilità e la raffinatezza delle griglie di lettura messe a punto dai diversi collettivi umani, ciascuno dei quali “lavora” i sogni in modo da connettere quanto più possibile il mondo della veglia e delle attività quotidiane alla dimensione specifica (e fisiologicamente inevitabile) che si apre nel sonno. Dalle nostre parti, oggi, è agli psicologi che viene affidato il compito di integrare ciò che compare nel sonno con il mondo della veglia.

177 § 129. Stare fra gli altri

La plasmazione investe ugualmente la parte più immateriale della vita degli umani mettendo in forma, fra l’altro, la struttura pulsionale e l’impianto emotivo. Ancora una volta, bisogna abbandonare ogni tentazione naturalizzante: perfino le “emozioni nucleari”, che una parte della ricerca psicologica ha a lungo tentato di determinare come universali, si sono rivelate imbevute di cultura da cima a fondo184.

Le emozioni sono insegnate dagli adulti ai bambini e devono essere lungamente praticate perché le si possa sperimentare come naturali e manifestare in modo appropriato. Il sorriso, la cui comparsa nei neonati leggiamo come manifestazione spontanea, è di fatto trasmesso dagli adulti ai bambini secondo schemi culturalmente stabiliti e non ha dappertutto lo stesso significato: presso alcuni gruppi umani il sorriso e il riso compaiono raramente e secondo una regolazione che esclude del tutto la spontaneità. Ci sono culture presso le quali la paura, come noi la conosciamo, è pressoché assente; altre nelle quali la collera non è prevista, se non come sintomo dell’inadeguatezza dell’individuo alle circostanze; Le emozioni, insomma, si costruiscono nella relazione con gli altri e secondo le specifiche modalità di un collettivo.

Allo stesso modo, l’impianto pulsionale cambia nel tempo, a seconda delle modificazioni storiche nella composizione sociale e nella relazione fra umani e non umani. In un’opera capitale185, Norbert Elias ha descritto l’origine delle “buone maniere” nella civiltà europea a

partire da un'analisi comparativa dei «manuali di buona condotta», da quelli medievali fino a quelli della prima modernità. Ne risulta un quadro a tutta prima sconcertante per via della profondità della mutazione dei mores.

Per cominciare, cambia radicalmente il comportamento a tavola, vero e proprio banco di prova – ancor oggi – dei buoni costumi delle persone.

Nei modi di comportarsi a tavola non vi è nulla che sia immediatamente ovvio, che sia per così dire il prodotto di un «naturale» senso di decoro. Cucchiaio, forchetta, tovagliolo non sono stati inventati per caso da qualcuno, come un utensile tecnico, con un obiettivo evidente e chiare indicazioni sul loro uso; al contrario, per secoli la loro funzione si è via via precisata attraverso i rapporti e gli usi sociali, così come la loro forma si è delineata e consolidata186.

La postura seduta s’impone come l’unica corretta ed è solo sull’arco di un tempo davvero lunghissimo che, in Europa, si abbandona l’uso classico di mangiare prendendo il cibo con le mani a favore delle posate. Si comincia con la forchetta, importata nell'Europa occidentale da una principessa greca, che nel XI secolo sposò un doge veneziano; la sua abitudine, tuttavia, suscitò scandalo nella corte di Venezia, poiché era considerata eccessivamente raffinata e leziosa. Nel medioevo cavalleresco e cortese si mangiava con le mani e ancora nel XVII secolo usavano la forchetta solo gli strati superiori della società europea. Né andava meglio al cucchiaio: per molti secoli, le zuppe sono state sorbite a turno da ciascuno dei commensali direttamente dalla zuppiera; e nei primi tempi della sua diffusione il cucchiaio era uno solo per l'intera tavolata, usato a turno. Ancor più interessante la storia del coltello, al cui uso si associano forti implicazioni di ordine emotivo – non a caso, ai bambini se ne vieta l'uso. Fino all'inizio dell'età moderna, era costume servire animali cotti interi, o comunque parti intere di animali, che venivano portati a tavola appena usciti dal forno e scalcati da un apposito servitore. Una situazione del genere sarebbe oggi, per la maggior parte degli occidentali, del tutto insostenibile: la diversa sensibilità moderna percepisce l'atto dello scalcare la carne di un animale intero come poco diverso dal sezionamento del tavolo anatomico e la presenza del cadavere dell'animale sulla tavola porta l'immaginario, anziché verso l'allegria del pasto, verso pensieri cupi associati al memento mori. Nelle civiltà cinese e giapponese, diversamente

184 Despret 2011. 185 Elias 1936-1969. 186 Elias 1936-1969, p. 226.

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organizzate, tutto il processo di taglio viene effettuato «dietro le quinte», nella cucina: la carne che arriva in tavola non solo è già suddivisa in porzioni, ma anche già tagliata in bocconi ed esiste tutta un'arte del tagliare che è propria del solo cuoco ed è reputata tanto essenziale quanto quella della cottura.

Allo stesso modo, gli impulsi naturali sono lavorati in maniera assai differente a seconda dei tempi e dei luoghi. Ancora fino al Settecento, era comune che a corte i nobili si alzassero durante il banchetto per andare a orinare contro lo stipite della porta e il lezzo della nobiltà era considerato segno distintivo di classe; a due secoli e mezzo di distanza, l’odore che emana dagli umani è diventato, anziché segno di distinzione, sicuro stigma per i soggetti e le classi più povere. E perfino in quello che sembra il “naturale sviluppo” del controllo ci sono differenze ragguardevoli che, una volta di più, mettono in causa qualsiasi spiegazione naturalizzante: i nostri manuali di puericultura sconsigliano di togliere il pannolini ai bambini prima dei 18-24 mesi d’età, quando – si suppone – il cervello è “abbastanza sviluppato” per controllare lo stimolo sfinterico; presso diverse popolazioni africane, tuttavia, già a 4 mesi i neonati sono in grado di trattenere, almeno per qualche tempo, lo stimolo. Ciò dipende dallo stile pedagogico in uso presso le diverse popolazioni, al tipo di possibilità che apre ai bambini e al genere di richieste implicite che esso veicola.

Consideriamo ora un esempio reciproco: in Europa digerire rumorosamente è considerato grave violazione delle norme del bon ton, mentre in Cina è un comportamento del tutto naturale, come per noi potrebbe essere quello di tossire; per contro, il gesto, per noi del tutto naturale, di soffiarci il naso in pubblico è reputato disgustoso e offensivo dai giapponesi, sia per via dell'espulsione pubblica di materiale corporeo che per il rumore che esso produce. In entrambi i casi, è notevole fino a che punto coloro che appartengono a una cultura si sentano offesi, e perfino disgustati, da qualcosa che è, per gli appartenenti all’altra cultura, un gesto del tutto innocuo e quotidiano. La buona educazione non è solo etichetta o rispetto di vuoti formalismi, ma modo di vita incarnato.

Ne fa parte, fra l’altro, il senso del pudore, altro fenomeno grandemente variabile e per il quale non esiste base “naturale”. In età medievale e moderna era costume che regnanti e grandi signori ricevessero i sottoposti in situazioni che, oggi, sono riservate all'intimità: alzandosi da letto, facendo toeletta, o durante la svestizione e la preparazione per andare a dormire. I momenti che stavano attorno alla funzione biologica del sonno, che oggi sono privati, erano allora tanto pubblici quanto un'udienza o una riunione. Lo stesso rapporto con la nudità era completamente diverso dal nostro: mentre oggi la nudità è una condizione problematica e imbarazzante di per sé, fino a un certo momento nella storia dell'Occidente essa ha rappresentato un problema solo in relazione agli altri; più in particolare, era considerata una mancanza di rispetto presentarsi nudi o discintamente vestiti davanti a persone di rango più elevato; di converso, il mostrarsi svestito di un nobile al cospetto dei sottoposti (come, appunto, durante la toeletta mattutina dei sovrani) era percepito come un gesto di benevolenza.

Molte popolazioni del mondo non usa(va)no “vestiti”, o ciò che noi intendiamo come tali – ma nessuna popolazione vive(va) nuda, dal momento che ovunque il corpo viene puntualmente addobbato con precisi segnali di sesso, di potere, di virtù, di bravura, di età (segnalati magari dal copricapo, o dalla collana, o dal bastone, o dalla striscia di stoffa attorno al petto).

Tornando ora al nostro punto di partenza, l'europeo attuale è, secondo Elias, un umano sostanzialmente differente, sotto il profilo pulsionale, da un europeo del Cinquecento o del Medioevo. A conclusioni analoghe arrivano anche gli ultimi lavori di Foucault187. Ma da dove

hanno origine i processi che mutano, per un’intera popolazione, l’impianto pulsionale di base? Nel caso della società europea, Elias chiama in causa le relazioni di dipendenza fra gli individui:

179 Quel mutamento del comportamento e della vita pulsionale che chiamiamo «civiltà» è strettamente connesso a una più intima e crescente interdipendenza degli uomini188.

Senza ripercorrere in dettaglio il suo ragionamento, ne enunciamo le conclusioni: nel momento in cui la forza economica e sociale della borghesia ascendente iniziava a mettere in discussione il potere nobiliare era giocoforza, per i ceti nobili, distinguersi dalle classi più basse. Uno degli strumenti di questa distinzione fu, appunto, l'affinamento delle maniere. Questa “fuga in avanti” da parte delle classi alte avrebbe poi innescato una vera e propria rincorsa sociale in cui ciascun ceto, a cascata, cercava di assumere i modi più distinti di quello che lo precedeva nella scala sociale189. In tutti i grandi rivolgimenti economici, politici e sociali della modernità,

la buona educazione ha svolto il suo ruolo specifico come discriminante, come segnale che permette di distinguere gli individui fra di loro, di accomunare le classi e di ripartire fra queste l'accesso differenziale alle posizioni di potere.

§ 130. La forma dei sensi

Un esempio particolarmente chiaro di come le culture lavorino diversamente il mero dato biogenetico viene dagli organi di senso. Quanti e quali sono i canali sensoriali? Le diverse culture non sono affatto unanimi e definiscono i sensi in modi diversissimi. Qui c’è, per noi, un primo invito a uscire dalla nostra centratura occidentale e a riconoscere che non è detto che quel che vale per noi (nel nostro caso, la suddivisione classica, di matrice aristotelica, dei cinque sensi) valga per tutti. Per alcuni, gusto e olfatto sono un unico senso; altri ritengono che l’equilibrio sia un senso specifico; altri ancora distinguono il sentire con la pelle dal sentire col corpo; altri mettono fra i sensi l’orientamento. Le monografie etnografiche abbondano di esempi.

La sensorialità è declinata in forme, modi e relazioni diverse a seconda del contesto storico, antropologico, culturale e biografico in cui viene plasmata – non solo perché, come abbiamo appena detto, i sensi sono ritagliati in modi diversi, ma anche perché vengono lavorati in modi diversi. Individui appartenenti a diverse culture sentono differentemente e diverse sono anche le cose percepibili: quanto più acuta e sottile la percezione, tanto più l’apprendistato sensoriale è stato lungo e sapiente. Inoltre, la gerarchia dei sensi differisce da contesto a contesto e, con essa, l’attenzione che viene prestata ai diversi canali e l’attendibilità dei dati che essi portano – ciò che equivale a dire che modi cognitivi differenti si strutturano in base alla lavorazione culturale dei sensi190.

Vediamo qualche esempio, cominciando con l’addestramento del gusto. Quella che, secondo noi, è la “naturale progressione del gusto” si rivela, a uno sguardo transculturale, niente più che una pista culturalmente determinata di accesso al gusto. È un dato di fatto che i nostri bambini, in generale, non apprezzano né i gusti troppo complessi (quelli, ad esempio, di certi formaggi fioriti), né i gusti troppo forti (come quello del peperoncino); e che, crescendo, la mappa del gusto progressivamente si allarga. Ma questo – appunto – è quanto accade da noi, e cioè in un luogo dove tutti gli adulti condividono un insieme di presupposti sulla “naturalità” della crescita infantile e su come accompagnarla; presupposti di cui fa parte, tra l’altro, quest’idea della “progressione del gusto”. I bambini messicani, esposti fin da subito e senza remore al piccante, mangiano tranquillamente i peperoncini.

Per quanto riguarda la vista, un esempio fin troppo noto è quello dello spettro dei colori: in alcune lingue, verde e blu fanno parte di una medesima area cromatica, definita con un nome solo; ed è noto, senza andare lontano, che per gli inglesi è blu lo stesso cielo che per noi è azzurro. Ma ancora non basta: la vista è allenata fin dalla primissima infanzia e ciò che non si è

188 Elias 1936-1969, p. 73. 189 Bourdieu 1979.

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mai visto prima richiede un certo tempo di adattamento per poter essere interpretato. Prima che l’espansione occidentale portasse dappertutto la nostra tecnologia visiva, coloro che non avevano mai visto una fotografia non riuscivano, di primo acchito, a leggere le immagini stampate, che apparivano ai loro occhi come insiemi di macchie di colore. Allo stesso modo, la storia del microscopio e quella del cannocchiale non raccontano solo una sequenza di progressivi affinamenti tecnici, ma anche di un lungo e accidentato percorso di affinamento dello sguardo. Ancora per uscire dalla nostro etnocentrismo, si può fare riferimento all’educazione dello sguardo che era praticata nel passato e che molte popolazioni ancora praticano: non tutto può o deve essere visto, gli occhi devono sapere dove e come posarsi per non esporre né il vedente né il veduto a un incontro troppo violento. È solo da poco tempo che il paradigma della visibilità totale domina l’immaginario occidentale, generando effetti antropopoietici sui quali ci si interroga troppo poco (si pensi, per non fare che un paio di esempi eclatanti, alla pornografia o al rapporto col cadavere).

Anche l’udito subisce un lungo e raffinato processo di addestramento. lingua madre - segnali acustici del proprio ambiente. Infine, una nota sulla musica. Al nostro orecchio la musica cinese o giapponese – basata più sul ritmo degli intervalli che su quello dei suoni – ha un effetto spiazzante e risultano a tutta prima incomprensibili e poco fruibile. Ma anche all’interno dei nostri confini, la storia che porta dalle otto scale della musica greca, ciascuna con un suo proprio registro emotivo, alle due scale della musica moderna o al temperamento equabile testimonia bene la storicità del gusto musicale. Lo stesso può dirsi per la dissonanza (ovvero l’accostamento di suoni che non stanno fra loro in rapporti matematicamente semplici): rifiutata e rifuggita dall’impianto classico della musica colta europea, essa ha cominciato a essere esplorata, lungo molte piste, a partire dalla fine dell’Ottocento, rivelando spazi musicali fino a quel momento del tutto inesplorati.

L’olfatto, spesso considerato come il meno addomesticabile dei cinque sensi, ha anch’esso una storia. Ancora nel Settecento, il “puzzo” della nobiltà era considerato tratto distintivo; è solo un po’ più tardi, col processo di affinamento dei costumi reso necessario dall’ascesa della borghesia, che l’odore comincia a caratterizzare, questa volta come marchio di degrado, i ceti più bassi191. L’esito contemporaneo di questo processo è facilmente rintracciabile nel discorso

razzista, coi suoi frequenti riferimenti al cattivo odore che caratterizzerebbe i gruppi bersaglio (gli ebrei, i neri, gli immigrati ecc.). Ciò non toglie che i diversi gruppi umani, a seconda delle loro pratiche igieniche e alimentari, abbiano effettivamente odori differenti, e che questi odori siano spesso altamente significativi: ci sono odori maschili e odori femminili, odori di bambino e odori di anziano, odori di salute e odori di malattia – e via dicendo192. La sterilizzazione

dell’ambiente olfattivo caratterizza la contemporaneità occidentale, privandoci di un canale informativo notevole e, come ogni sterilizzazione, infragilendoci.

Come esempio di “sensi alieni” (ovvero di sensi che noi non distinguiamo in quanto tali), si può fare riferimento alle popolazioni che parlano lingue geografiche, fra cui i Guugu Yimithirr dell’Australia. A differenza di quanto accade nelle nostre, in queste lingue le descrizioni dei luoghi e le indicazioni spaziali non fanno riferimento al soggetto parlante (“avanti”, “indietro”, “a destra”, “a sinistra”), ma si basano sui punti cardinali193. Questo comporta una visione del

mondo piuttosto differente dalla nostra e in cui, ad esempio, le stanze dei grandi alberghi non sono percepite come tutte uguali fra loro, in quanto tutte orientate allo stesso modo rispetto a chi vi entra, ma come differenti a seconda del loro orientamento spaziale assoluto.

Diversa è poi la gerarchia dei sensi. È fin troppo noto quanto la nostra cultura privilegi la vista sopra ogni altro senso: a partire dalla scrittura, la formazione e informazione degli occidentali avviene prevalentemente tramite la vista, e la scienza stessa si basa innanzitutto sull’osservazione (si pensi alla rilevanza del “gettar luce” come simbolo stesso del progresso della ragione nel paradigma illuminista). Altrove, tuttavia, il primato va ad altri sensi: ci sono

191 Elias 1936-1969 192 Gusman 2004. 193 Deutscher 2010.

181 contesti – da quello dell’antichità ebraica fino a quello dei cacciatori subartici – in cui l’udito è molto più importante della vista, e dove ciò che noi intendiamo quando parliamo di “osservazione attenta” si traduce con “ascolto denso”. Gli Anlo-Ewe del Ghana, dal canto loro, fanno pochissimo riferimento alla partizione in cinque sensi che per noi europei è così fondamentale: la percezione ricade, da loro, nella categoria del “sentire con l’interno del corpo”, che racchiude tanto i nostri cinque sensi quanto ciò che, goffamente, nella nostra visione del mondo chiamiamo “intuizione”. Presso questa popolazione l’equilibrio – al contempo fisico e psicologico, letterale e metaforico – è componente essenziale di ciò che significa essere umani194.

In conclusione, una nota gnoseologica. Se è normale, nella nostra tradizione culturale, ritenere che la conoscenza vera sia soprattutto quella intellettuale, altrove (così come in alcune nicchie del nostro mondo) la conoscenza passa per la lettura fulminea di segni che i sensi, opportunamente addestrati, possono operare. Carlo Ginzburg ha parlato di “paradigma indiziario”: l’attribuzione di un quadro a un certo pittore, la diagnosi delle malattie, la capacità dei marinai e delle levatrici di capire, a colpo d’occhio, la situazione, l’abilità dei cacciatori: tutte questo, e molto altro ancora, si acquisisce tramite un lungo addestramento dei sensi195.