• Non ci sono risultati.

Il sistema (instabile) di Darwin

§ 18. Molti padri e due teorie correlate

Di ritorno dal viaggio sul Beagle26, Charles Darwin lavora assai lentamente allo sviluppo

della teoria dell’evoluzione. La condivide con alcuni colleghi della Linnean Society, fra cui Lyell, ma mostra sempre grande cautela nei confronti della pubblicazione: era chiaro, infatti, che la presentazione pubblica di una siffatta teoria avrebbe suscitato un vespaio, tanto a livello scientifico quanto, e in modo ancor più temibile, a livello sociale.

Nel 1856 Lyell legge un articolo di Alfred Russel Wallace, un giovane naturalista inglese che sta lavorando nel Borneo, le cui speculazioni sulla formazione delle specie vanno nella medesima direzione di quelle di Darwin, e consiglia a quest’ultimo di affrettarsi a pubblicare per non perdere la paternità della teoria. Darwin comincia allora un’opera in tre volumi, intitolata Natural Selection – espressione che Darwin conia in analogia con l’unica selezione nota ai suoi tempi, quella artificiale degli allevatori. Nel giugno del 1858 Wallace invia a Darwin un articolo intitolato On the Tendency of Species to form Varieties, chiedendogli di farlo avere a Lyell. Darwin, temendo a quel punto di poter essere preceduto, si accorda con Lyell per una presentazione pubblica alla Lynnean Society di due articoli gemelli: quello di Wallace e uno suo, intitolato On the Perpetuation of Varieties and Species by Natural Means of Selection.

25 Boserup 1965, 1981; Cohen 1977.

30

La presentazione ha luogo il 1 luglio 1858. L’anno seguente, abbandonato per ragioni di salute il progetto iniziale di Natural Selection, esce On the origin of species by means of natural

selection, che assocerà alla nuova teoria il nome di Darwin, oscurando quello di Wallace. Molti fra i temi che emergono scompaginati nelle opere dei predecessori e dei contemporanei si ritrovano nell’opera di Darwin, organicamente legati e coesi a formare un quadro concettuale puntuale e di grande forza. La sua teoria sistematizza alcune fra le più notevoli proposte scientifiche del tempo (l’uniformismo di Lyell, il pessimismo malthusiano sul rapporto fra risorse e popolazione, l’idea di adattamento e quella di evoluzione) e, al contempo, ne refuta logicamente altre (l’evoluzione per uso e disuso di Lamarck, la separazione – logica o filogenetica – delle diverse forme viventi ecc.). Più che l’opera titanica di un genio solitario, quindi, L’origine delle specie è l’esito di un paziente lavoro di combinazione delle diverse istanze e dei problemi che attraversano le scienze naturali dell’epoca.

Darwin raggiunge questo risultato attraverso la correlazione organica di due diverse teorie:

(1) quella secondo cui tutte le specie sono imparentate fra loro e discendono da un unico antenato comune;

(2) quella secondo cui le specie evolvono attraverso il meccanismo della selezione naturale27.

Prima di entrare nel dettaglio della sua proposta, c’è da fare un’importante precisazione epistemologica. Ai tempi della pubblicazione dell’Origine della specie la scala naturae era un concetto quasi completamente superato e le classificazioni basate sulla somiglianza (e quindi sulla maggiore o minore parentela fra specie) erano comunemente accettate. Darwin le assume nella loro forma estrema, quella che prevede l’esistenza di un unico albero della vita e la formazione, a partire da un solo antenato comune, di famiglie di animali accomunati da caratteri condivisi per via di un’identica ascendenza. In sostanza, quindi, Darwin comincia col trasformare uno schema logico (la classificazione gerarchica di Linneo) in uno schema storico (l’evoluzione delle specie a partire da un unico antenato comune e quindi l’albero della vita come prodotto naturale). A quel punto, c’è bisogno di ipotizzare un meccanismo che spieghi gli eventi storici che formarono lo schema evolutivo e questo meccanismo, nella teoria darwiniana, è la selezione naturale28. In sintesi, la presenza dei medesimi caratteri adattivi in più specie

viene spiegata da Darwin come il prodotto genealogico di un’origine comune e unica della vita, unita all’azione – in tempi lunghi – della selezione naturale.

§ 19. L’origine unica della vita

La prima delle due teorie che articolano il sistema darwiniano fa riferimento a una questione che sta a metà fra la logica e l’estetica. Così scrive Darwin, con la consueta cautela, nella conclusione dell’Origine delle specie:

Pertanto, in base al principio della selezione naturale con divergenza di carattere, non sembra incredibile che animali e piante si siano sviluppati a partire da forme inferiori e intermedie; e, se ammettiamo questo, dobbiamo anche ammettere che tutti gli esseri organici che sono vissuti sulla terra possono essere discesi da una forma primordiale. Ma questa inferenza è prevalentemente basata sull’analogia, e non ha importanza se venga accettata o meno. È senz’altro possibile (…) che al primo inizio della vita molte differenti forme siano evolute; se è così, possiamo concludere che solo poche di loro hanno lasciato discendenza con modificazione.

27 Sober 1993. 28 Panchen 1992.

31 La trasformazione dello schema logico in schema storico e l’assunzione, per spiegarne la genesi, dell’origine unica della vita si basa sul principio di massima parsimonia, noto anche come rasoio di Occam.

L’origine della vita a partire da elementi abiotici è un evento che si può supporre altamente improbabile {►§ 44}. Per il principio di massima parsimonia, è sufficiente che la vita sia comparsa una sola volta e che, a partire da questa prima apparizione, si sia evoluto il resto del mondo vivente: inutile ipotizzare genesi diverse in momenti diversi, come nel catastrofismo di Cuvier, o addirittura, come fa Lamarck, una genesi autonoma per ogni specie. Tutta la variabilità oggi dispiegata discenderebbe da quell’unico “evento fortunato” attraverso l’azione della selezione naturale.

Rispetto allo schema di Lamarck, quello di Darwin è, per così dire, più parsimonioso riguardo alle condizioni che devono essere rispettate perché si possa spiegare la variabilità dei viventi – ed è, pertanto, intellettualmente preferibile. Ma è bene restare in guardia: il principio di massima parsimonia non è un criterio scientifico, ma solo un criterio psicologico (più precisamente, il principio di massima parsimonia è un metacriterio metodologico, ovvero un assunto che serve a discriminare quali proposizioni, dotate di pari possibilità di verifica empirica, si debbano da preferire nella spiegazione scientifica); nulla vieta, dal punto di vista della scienza, della statistica e della realtà dei fatti verificabili, che la vita si sia formata sulla terra più e più volte: altamente improbabile non vuol dire impossibile. Se gli umani preferiscono, dal punto di vista dell’eleganza concettuale, l’ipotesi più parsimoniosa, questo non significa che le cose siano effettivamente andate come a noi piace pensare.

§ 20. La variabilità e la selezione naturale

La seconda teoria contenuta nel sistema darwiniano, quella dell’evoluzione per selezione naturale, è anche quella maggiormente caratterizzante. La selezione naturale serve a spiegare come mai, a partire da un unico vivente formatosi spontaneamente nella notte dei tempi, si sia poi sviluppata la profusione di viventi, di ogni forma e foggia, oggi osservabili nel mondo. Essa serve quindi a spiegare l’origine e la diffusione delle somiglianze fra specie e la variabilità delle forme di vita.

Come già aveva fatto Lamarck, che aveva correlato l’uso e il disuso degli organi con la trasmissione delle modificazioni alla prole, anche Darwin si trova a identificare e articolare due meccanismi: il primo spiega la produzione di modificazioni negli individui e nelle popolazioni, il secondo ne spiega la trasmissione differenziale alle generazioni successive. S’intuisce, in questo passaggio, l’enorme rilievo che i meccanismi dell’ereditarietà vengono ad assumere nel quadro del pensiero evolutivo.

Nell’Origine della specie Darwin tratta solo il secondo punto, ovvero quello della selezione e della successiva diffusione dei caratteri variabili, evitando accuratamente di entrare la questione della produzione della variabilità. Il nocciolo della teoria è riassumibile come segue: in ogni popolazione di organismi esistono minuscole differenze fra individui; la gran parte di tali differenze è ereditabile; e su di esse agisce in modo differenziale la selezione naturale, che “sceglie” fra le caratteristiche presenti nella popolazione quelle più adatte alla sopravvivenza, scartando le altre.

Cosa significa dire che la selezione naturale agisce in modo differenziale sulle diverse caratteristiche? Alcune delle piccole variazioni presenti nell’insieme popolazione si riveleranno funzionali per l’adattamento all’ambiente circostante. Gli individui portatori di queste caratteristiche saranno «positivamente selezionati»: a parità di ogni altra condizione, essi si riprodurranno di più rispetto al resto della popolazione, trasmettendo la loro caratteristica alla generazione successiva. I tratti che, invece, si riveleranno poco funzionali o addirittura dannosi per la vita dell’individuo entro quell’ambiente causeranno una «selezione negativa»: laddove non muoia prima del tempo a causa dell’handicap, l’individuo portatore tenderà a riprodursi

32

meno rispetto al resto della popolazione, diminuendo così la diffusione del proprio carattere presso la generazione successiva.

Darwin ricava gran parte delle sue prove dalla pratica degli allevatori, i quali gli fornirono, negli anni delle sue ricerche, un’imponente messe di dati in merito alla potenza e alla rapidità della selezione applicata a diverse varietà di animali e piante per migliorarne le caratteristiche. Un punto che per Darwin riveste particolare importanza riguarda l’amplificazione delle caratteristiche: per selezionare una razza canina più grande, basta partire da una popolazione che presenta piccole differenze fra individui; la riproduzione differenziale dei soli esemplari più grossi condurrà, nel giro di poche generazioni, non solo a una varietà mediamente più alta, ma anche a ottenere esemplari la cui taglia non era affatto presente nel gruppo originale.

Esiste tuttavia un’ovvia e profonda differenza fra la selezione artificiale praticata dagli allevatori e quella naturale ipotizzata da Darwin: mentre nella selezione artificiale la direzione del mutamento è stabilita a priori dall’allevatore, che agisce in modo continuo nel tempo per ottenere una determinata configurazione, nel caso della selezione naturale è l’ambiente, al contempo fisico e biologico, a determinare volta per volta quali mutazioni siano favorevoli, quali neutre e quali svantaggiose. Non c’è, in questo processo, nessun piano a lungo termine: l’adattamento, sia individuale che a livello di specie, non è mai assoluto, né può esserlo, dal momento che nessuna caratteristica è intrinsecamente preferibile alle altre. L’adattamento non fa che adeguare ciascuna generazione all’ambiente circostante; se questo non cambia, il valore di un adattamento rimarrà costante; se invece l’ambiente, per qualsiasi ragione (ivi inclusa l’attività vitale della specie stessa) cambia, cambierà di conseguenza anche il valore adattivo dei caratteri. Ciò significa che il valore adattivo di un carattere vale sempre ed esclusivamente per l’oggi, per la generazione attuale e non c’è nessuna garanzia che, alla prossima generazione, il carattere che oggi è vantaggioso lo sia ancora (e viceversa).

Alla fine dell’Introduzione all’Origine delle specie, Darwin scrive: «Inoltre, sono convinto che la selezione naturale sia stata il più importante, ma non l’unico mezzo di modificazione29».

Nell’opera del 1871, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, Darwin propone un meccanismo di selezione, per così dire, “non naturale” (ovvero non immediatamente dipendente dall’ambiente fisico dove la specie vive). Abbiamo visto che l’adattamento darwiniano ha due componenti: la capacità di sopravvivere entro l’ambiente e la capacità di riprodursi; in alcune circostanze, esse operano in modo dissociato. La selezione sessuale ipotizzata da Darwin opera in modo da rendere maggiore il successo di alcuni individui presso l’altro sesso, e non è detto che il tipo di caratteri che vengono in tal modo selezionati siano coerenti con quelli che servono per il successo generale nell’ambiente. L’esempio tipico, riportato da tutti i testi di divulgazione, è quello della coda del pavone: bellissima a vedersi, essa è del tutto insensata dal punto di vista ambientale, poiché inutile, di ostacolo nei movimenti e fortemente dispendiosa dal punto di vista del mero mantenimento biologico. Si suppone quindi che la sua funzione evolutiva sia quella di attrarre le pavone femmine, testimoniando dell’eccellente stato di salute del portatore.

La selezione sessuale può agire, ovviamente, solo nelle specie a riproduzione sessuale; si tratterebbe quindi di un meccanismo supplementare, o comunque più tardivo, rispetto a quello della selezione naturale. In ogni caso, secondo Darwin, dato un tempo adeguatamente lungo la combinazione di mutazione e selezione – sia essa ambientale o sessuale – è sufficiente a spiegare la straordinaria variabilità delle forme viventi presenti sul pianeta.

Proprio la variabilità, peraltro, è la chiave di volta dell’impianto logico darwiniano. Ciascuna popolazione deve infatti essere in grado di adattarsi ad ambienti diversi, sia per potersi espandere in nuove nicchie ecologiche che venissero a essere disponibili, che, soprattutto, per poter far fronte in tempi rapidi a sconvolgimenti ambientali improvvisi. La presenza continua di una cospicua variabilità nella popolazione (le “piccole differenze individuali”) è una sorta di garanzia per il futuro: un carattere che oggi serve a poco o addirittura a nulla potrebbe rivelarsi, in un ambiente differente da quello attuale, un elemento indispensabile per la sopravvivenza.

33 Inoltre, dal momento che è impossibile prevedere quale direzione prenderanno le trasformazioni ambientali, molti caratteri diversi devono essere mantenuti contemporaneamente nella popolazione, in modo da poter far fronte a circostanze diverse e imprevedibili.

§ 21. La specie e la filogenesi

Con la sua enfasi sulla variabilità presente nelle popolazioni, la teoria dell’evoluzione per selezione naturale contribuì al superamento dell’essenzialismo nelle scienze naturali. Questo avrebbe avuto ripercussioni teoriche considerevoli sull’idea stessa di specie, che arrivarono a pienezza solo nel secolo seguente {►§ 31, 32}.

Basato sull’esistenza ontologica della specie e sull’uniformità e immutabilità delle sue caratteristiche, l’impianto dell’essenzialismo portava a privilegiare, nell’analisi tassonomica, le caratteristiche morfologiche invarianti a discapito di quelle variabili e dinamiche. Affermando, al contrario, che la specie non è uniforme e che anzi sono proprio le caratteristiche variabili a permettere il divenire delle specie, l’evoluzionismo darwiniano spostò la definizione di specie da una raccolta di caratteri morfologici invarianti a un’analisi dei meccanismi dinamici che permettono lo sviluppo di varianti e, di conseguenza, la sopravvivenza stessa della specie: i meccanismi riproduttivi.

La specie darwiniana è un soggetto dinamico che interagisce col proprio ambiente sviluppandosi in forme sempre nuove. Questo dinamismo le permette di rispondere a condizioni mutate e consente, sul lungo periodo, la formazione di più specie a partire da un’unica specie madre: i meccanismi che permettono l’adattamento, l’evoluzione e la speciazione diventano anche i garanti della naturalità dell’albero unico della vita.

Il concetto di filogenesi, impensabile prima di Darwin, è appunto questo: la fondazione della classificazione gerarchica come schema storico di ascendenza-discendenza fra le specie. Da Darwin in poi, la filogenesi diventa imprescindibile per tutte le scienze implicate nello studio dei viventi; ma questo equivale a dire che, nello studio della natura, entra di diritto la storia.

§ 22. Una teoria dell’eredità

La pubblicazione dell’Origine della specie convinse subito un gran numero di naturalisti del fatto che le specie si modificano nel tempo. Sotto molti punti di vista, l’idea era già nell’aria da un po’; l’establishment scientifico era pertanto pronto ad accettarla. Meno persuasivo risultò invece il meccanismo ipotizzato da Darwin per spiegare il cambiamento. L’idea di evoluzione è di per sé compatibile con quella di progetto: nulla vieta di pensare, infatti, che il progetto intelligente proceda nel tempo con lentezza e gradualità, secondo tappe preordinate dal creatore. La selezione naturale, invece, per via del meccanicismo e dell’opportunismo che la contraddistinguono, elimina fin da subito ogni possibile teleologismo: tutto ciò che accade alle specie, accade per via di pressioni ambientali contingenti che agiscono in modo cieco. I naturalisti che, pur accettando l’idea dell’evoluzione, osteggiavano la selezione naturale come suo meccanismo, contestarono subito a Darwin l’effettivo punto debole del suo impianto argomentativo: l’assenza di una teoria credibile dell’eredità.

Nello sviluppo del pensiero evolutivo la questione dell’ereditarietà si fa cruciale: qualsiasi teoria evolutiva implica infatti presupposizioni precise sull’eredità dei caratteri, la cui erroneità può essere esiziale per la tenuta dell’ipotesi evolutiva. Evoluzione ed ereditarietà non possono più essere sganciate: a partire da Darwin, e forse anche da Lamarck, ogni ipotesi di cambiamento delle specie dev’essere sostenuta da un’ipotesi adeguata sui meccanismi ereditari. Alla teoria dell’evoluzione per selezione naturale fu rimproverato di non avere a sua disposizione un’adeguata teoria dell’ereditarietà.

34

All’epoca di Darwin, il principio dell’ereditarietà secondo cui «il simile produce il simile» spiegava convenientemente la trasmissione dei caratteri dai genitori ai figli, ma non era in grado di spiegare l’origine dei caratteri nuovi. Inoltre, l’osservazione empirica indicava che la trasmissione dei caratteri non è mai completamente determinata e che, a ogni generazione, resta comunque un certo margine di variabilità. Una decina d’anni dopo l’uscita dell’Origine delle

specie Darwin fece fronte alle critiche proponendo una teoria dell’ereditarietà che riprendeva la pangenesi ippocratica. I due volumi di The variation of animals and plants under domestication erano pensati non tanto come un trattato classico sull’ereditarietà, quanto come proposta di un meccanismo plausibile per la formazione di quelle “piccole differenze” essenziali alla selezione. Darwin accumula nel testo una massa impressionante di fenomeni legati all’ereditarietà, che si propone di spiegare attraverso un’unica teoria. I fatti che elenca – talvolta anche dando per buone informazioni che più tardi si scoprirà essere false – sono raggruppabili in categorie fenomenologicamente distinte: passaggio dei caratteri dai genitori ai figli, mutilazioni somatiche (alcune delle quali erano reputate trasmissibili), atavismo (il riemergere di caratteristiche ancestrali), ereditarietà legata al sesso (alcune malattie vengono passate per linea maschile, altre per linea femminile), selezione artificiale, origine della variabilità, rigenerazione degli arti in alcuni animali, tipi di riproduzione (sessuata o asessuata).

Il meccanismo proposto da Darwin per la spiegazione unitaria di tutti questi fenomeni è quello della pangenesi {►§10}: ogni cellula dell’organismo produce gemmule, minuscole particelle che circolano liberamente per il corpo e si aggregano negli organi riproduttivi, da cui poi vengono poi trasmesse alle generazioni successive. La pangenesi spiega i fenomeni elencati sopra con la maggiore o minore attività delle diverse gemmule e con la loro presenza “in circolo” anche quando l’organo che le ha generate non c’è più (ciò che spiegherebbe, ad esempio, la ricrescita degli organi amputati, osservabile presso alcune specie, così come il fatto che i figli di genitori che hanno subito mutilazioni nascono con tutti gli arti al loro posto)30.

Il punto davvero notevole, tuttavia, è quello che riguarda la variabilità: i nuovi caratteri compaiono a seguito dell’azione ambientale e producono nuovi tipi di gemmule che, attraverso la trasmissione alla generazione successiva, faranno riapparire il nuovo carattere nella discendenza. La teoria darwiniana dell’ereditarietà è costruita in modo da dare quanto più spazio possibile al ruolo dell’ambiente (e quindi della selezione naturale): non solo a valle del cambiamento, come già affermato nell’Origine della specie, ma anche a monte, come pressione ambientale sugli organi e origine effettiva delle piccole differenze ereditabili fra individui.

L’eredità proposta da Darwin era dunque un misto fra la teoria del mescolamento (secondo cui ogni linea genitoriale contribuisce in eguale proporzione alla costituzione del nuovo individuo: i tratti ereditati dai genitori si mescolano nei figli, alla stregua di colori su una tavolozza, producendo una caratteristica intermedia fra i due) e la riscoperta dell’antica idea della pangenesi. Il mescolamento da solo avrebbe inficiato l’intero impianto dell’evoluzione per selezione naturale, “diluendo” ogni nuova caratteristica nell’arco di pochissime generazioni, fino a rendere omogenea la popolazione e inattiva la selezione. La pangenesi era, invece, una sorta di lamarckismo cellulare, in cui non è l’organismo ad adattarsi volontariamente all’ambiente, ma l’ambiente stesso a modificare i tratti dell’organismo, e temperava il mescolamento rendendo possibile l’ereditarietà di tratti specifici.

Un’esplicita accettazione di questa forma di lamarckismo si trova anche nelle successive edizioni, riviste, dell’Origine delle specie. Non è un caso se, ai nostri giorni, fra le opere maggiori di Darwin, The variation of animals and plants under domestication è quella più sconosciuta e meno citata, al punto che, in molti testi divulgativi, non se ne fa neppure