§ 133. Note epistemologiche
Nel capitolo precedente abbiamo visto come e fino a che punto la traiettoria biografica plasmi il nostro essere, facendo di noi esseri storici fin nel funzionamento del genoma. Questo significa, infine, che non esiste alcuna “natura” vergine che possa essere rivelarsi al di sotto dei rivestimenti culturali e che la longeva separazione ontologica fra il corpo (la res extensa naturale, oggettiva, conoscibile secondo i criteri della scienza) e la mente (la res cogitans variabile, non oggettivabile, regno delle opinioni e dei desideri) non ha più corso.
A questo punto possiamo indagare secondo questo criterio una zona decisiva dell’esperienza umana: quella relativa alla salute e alle malattie. In questo caso, si tratta di uscire dal presupposto secondo cui solo la medicina occidentale moderna (che d’ora in avanti, per brevità, chiameremo biomedicina) sarebbe riuscita, sotto la danza superficiale delle credenze e delle cosmovisioni, ad afferrare la verità dell’unica natura soggiacente, le leggi eterne e universali di un corpo umano astorico. Uscire, quindi, dalla naturalizzazione della medicina, che ne oscura la storia, i legami con l’assetto societario e le implicazioni filosofiche della cosmovisione che la sottende.
L’insieme di pratiche e teorie riferite alla razionalità e alla scienza che definiamo «medicina convenzionale», non è neutro né nel suo sapere né nel suo fare, ma appartiene a un campo specifico, contiene una visione dell’uomo-nel-mondo che trasmette anche con il suo più semplice intervento. (...) Anche se molti suoi strumenti e tecniche vengono oggi più o meno facilmente inclusi in contesti del tutto diversi, il suo nucleo filosofico corrisponde a una storia e a un progetto specifici, che tendono a isolare gli umani dal loro contesto e ad alimentare l’illusione prometeica: ogni mistero sarà svelato, ogni limite sarà superato. Il futuro high-tech che la medicina convenzionale si sta costruendo conferma che essa è e sarà di pochi, anche se si propone come la chimera di tutti; e che è legata alle tecniche, a loro volta espressione e insieme artefici di uno specifico essere-nel-mondo.199
La medicina moderna nasce nel Seicento sui tavoli dei teatri anatomici e raggiunge la sua forma compiuta nell’Ottocento nell’incontro fra anatomia e clinica200. È a partire dalla
dissezione dei cadaveri nelle facoltà di medicina che la posizione del medico – fino ad allora figura ambigua, un po’ sapiente un po’ cialtrone – acquisisce l’aura di scientificità dalla quale, ancora oggi, il suo statuto sembra così dipendente. Questo significa che la medicina, per come la conosciamo, nasce a partire dal corpo morto: in base a ciò che non funziona più, la medicina moderna cerca di risalire alle condizioni di funzionamento normale. Ciò equivale a dire che essa
199 Coppo 2003, p. 93. 200 Foucault
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parte dalla patologia per risalire alla fisiologia e che la zona conoscitiva che ha eletto come privilegiata è la fascia grigia che sta fra l’esito estremo della patologia (la morte) e ciò che quest’esito precede. Altrove le cose sono andate altrimenti: in Cina, ad esempio, la medicina ha preso avvio dalla fisiologia, dal corpo funzionante (studiato anche tramite sofisticatissime torture...).
Per via della curvatura conoscitiva impressa alla medicina moderna da questi inizi, essa si muove con grande agio fra – e ha sviluppato strumenti efficaci per – le cosiddette patologie
organiche, quelle, cioè, di cui si trovano tracce materiali sezionando un cadavere, sotto forma di anomalie o lesioni che colpiscono i diversi organi. Un tumore al polmone, una cirrosi epatica, un’ulcera intestinale sono tutti diagnosticabili a partire da qualcosa che – se si potesse aprire il corpo – si vedrebbe. Così scrive Bichat, uno fra i padri della medicina moderna:
quand’anche prendeste per vent’anni appunti dalla mattina alla sera al capezzale dei malati sulle affezioni del cuore, dei polmoni, del viscere gastrico, tutto non sarà per voi che confusione nei sintomi che, non collegandosi a nulla, vi offriranno un seguito di fenomeni incoerenti. Aprite qualche cadavere: vedrete tosto scomparire l’oscurità che la sola osservazione non aveva potuto dissipare.201
Da qui l’enfasi sulla diagnostica per immagini (che è la pronipote, in vivo, della sezione anatomica), nonché la particolare potenza della nostra medicina quando si tratti di urgenza: abituata da sempre a riflettere sullo stato patologico che precede la morte, essa ha sviluppato strumenti estremamente potenti per evitare a ogni costo, e anche in circostanze estreme, l’evento avverso.
Meno brillanti sono invece le sue prestazioni mano a mano che ci si allontana dallo stato di emergenza (al tal punto che tutte le pratiche raccolte sotto il cappello della “prevenzione” sono, in realtà, strumenti di diagnosi precoce) e in tutti i casi in cui gli esami clinici non rivelino alterazioni, lesioni, mutamenti di sorta. Tutte le volte, insomma, in cui la malattia non è organica – intendendo con ciò, a questo livello di evoluzione tecnica, “rilevabile tramite strumenti come variazione dai parametri di normalità”.
Ma c’è di più. Come vedremo, le idee stesse di “salute”, “malattia”, “corpo”, “cura” non sono affatto universali, né fanno riferimento a fenomeni facilmente oggettivabili. Esse dipendono in via diretta dalla cosmovisione entro la quale vengono sviluppate e che dà loro senso. Per riprendere l’esempio fatto sopra, la salute dei cinesi non è quella degli occidentali e anche la concettualizzazione delle malattie (le loro cause, il decorso, le cure possibili) dipende da fattori che ai nostri occhi – e solo ai nostri! – sono totalmente extra-medici.
Questo capitolo propone un percorso nella storia dell’antropologia medica, fra le teorie e i concetti che essa ha sviluppato e che permettono di leggere i fenomeni legati alla “salute” e alle “malattie” – infinitamente complessi e culturalmente assai variabili – secondo quadri di senso molteplici. Il punto, sia detto subito, non è di criticare l’univocità dell’impostazione della biomedicina, né di mettere in discussione gli strumenti, assai potenti, che ha saputo sviluppare. Semmai, si tratta di favorire la possibilità che questo specifico vertice osservativo entri in compresenza con altri vertici, altre cosmovisioni, altre linee di lettura.
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