§ 94. L’“anello mancante” continua a mancare
Prima dello sviluppo delle tecniche molecolari, si stimava con metodi anatomici e tassonomici che la divergenza dagli scimpanzè potesse essere di circa 7 milioni di anni; l’utilizzo dei metodi della antropologia molecolare ha invece abbassato il tempo della separazione filogenetica fra uomo e scimpanzè a circa 5 milioni di anni; i ritrovamenti paleoantropologici, infine, sembrano indicare il periodo fra i 6 e i 7 milioni di anni come quello più plausibile. Utilizzando un’ipotesi cauta, si può quindi supporre che fra cinque e sette milioni di anni fa sia vissuto in Africa un primate che sarebbe all’origine di due linee evolutive: una porta all’uomo moderno attraverso le specie dei generi Ardipithecus, Australopithecus e Homo; l’altra porta alle due specie di scimpanzè attualmente viventi.
Nell’ipotizzare quale aspetto avesse l’antenato comune ha agito per lungo tempo un pregiudizio implicito: quello secondo cui, fra Homo sapiens e le due specie di Pan, la specie sicuramente più avanzata dal punto di vista evolutivo è la nostra. Ciò equivale a supporre che, nei 5-7 milioni di anni di evoluzione indipendente, la nostra linea filogenetica si sia modificata profondamente, mentre quella degli scimpanzè sia rimasta pressoché stabile, mantenendo quindi la somiglianza con l’ultimo antenato comune. In base a questo assunto, l’antenato comune (noto anche come “anello mancante”) è stato spesso raffigurato con le sembianze di uno scimpanzè. Tracce evidenti di questo pregiudizio si leggono ancora, ad esempio, nella proposizione secondo cui «gli uomini discendono dagli scimpanzè», del tutto priva di senso dal punto di vista evolutivo (proiettata sulle relazioni di parentela familiare, essa equivale infatti alla proposizione: «io discendo da mio cugino»).
128 Mellars & Stringer 1989; Stringer & Gamble 1993. 129 White et al. 2003.
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Si tratta, evidentemente, di un presupposto di ordine ideologico, i cui assunti impliciti hanno agito come vere e proprie linee guida nella ricerca paleoantropologica. Uno di questi riguarda l’evoluzione del bipedismo. Secondo un ragionamento assai comune, ma dalle premesse dubbie, se l’antenato comune somiglia allo scimpanzè ciò significa che non è bipede e che il bipedismo, essendo un tratto specifico della nostra linea evolutiva, deve aver fatto la sua comparsa solo
dopo la separazione delle due linee evolutive.
A causa delle cattive condizioni della stratigrafia africana del periodo compreso appunto fra i 5 e i 7 milioni di anni fa, per molto tempo la scoperta dell’“anello mancante” è parsa improbabile. Poi è cominciata una serie straordinaria di ritrovamenti, a partire da Ardipithecus
ramidus, passando per Orrorin tugenensis e fino a Sahelanthropus tchadensis.
Nei più antichi reperti fossili, collocati in posizione temporale compatibile con quella attribuita all’antenato comune, il bipedismo sembra essere già parzialmente, seppure non completamente, sviluppato. I casi, allora, sono due: o sulla nostra linea filogenetica il bipedismo si è sviluppato in tempi precocissimi; oppure era in qualche misura bipede anche l’antenato comune a uomini e scimpanzé. E qui si trova un circolo vizioso, perché al momento, in paleoantropologia, è proprio la presenza sufficientemente avanzata della postura ortostatica e dell’andatura bipede l’elemento che permette di attribuire i fossili più antichi alla linea umana, escludendoli dalla candidatura al ruolo di “anello mancante”.
Dal punto di vista del consenso scientifico, pertanto, l’anello di congiunzione fra la nostra specie e i parenti più prossimi non è ancora stato ritrovato – oppure, se è stato trovato, non è stato riconosciuto.
§ 95. Ristrutturazioni anatomiche
Nella nostra linea evolutiva una forma parziale di bipedismo sembra essere stata acquisita rapidamente, in una zona temporale assai prossima a quella dell’antenato comune fra Homo e
Pan. L’ortostatismo pare già presente, e in modo abbastanza avanzato, fin dalla forma più antica comunemente reputata far parte della nostra linea filogenetica, Ardipithecus ramidus. Ma anche
Orrorin tugenensis manifesta un buon grado di bipedismo e si suppone fosse bipede anche
Sahelanthropus tchadensis.
Le specie successive ad Ardipithecus, classificate nel genere Australopithecus e vissute in Africa fra 4,2 e 1 milione di anni fa, hanno anch’esse andatura bipede, pur conservando un encefalo di dimensioni ridotte, analoghe a quelle degli scimpanzè, e proporzioni fra gli arti spostate verso quelle tipiche degli scimpanzè. Per lungo tempo, insomma, i nostri antenati sono stati più somiglianti a scimmie bipedi anziché a umani quadrupedi. È bene notare, una volta di più, che non c’era nessuna necessità “spingere” queste specie verso l’evoluzione encefalica, e che pertanto il bipedismo non è il primo passo verso il raggiungimento di un’ipotetica perfezione (quella di Homo sapiens) ma null’altro che una fra le molte forme anatomiche stabili possibili.
Per le specie fossili più antiche e per quelle meno documentate determinare con certezza il bipedismo e l’ortostatismo è impresa ardua; inoltre, in alcuni casi l’anatomia del piede sembra indicare un bipedismo facoltativo, associato al mantenimento della capacità di arrampicarsi. In attesa di nuovi reperti, un’ipotesi cauta è quella che attribuisce bipedismo e ortostatismo obbligatorio a partire da Homo ergaster, e bipedismo facoltativo a tutte le altre specie della nostra linea filogenetica. In ogni caso, l’anatomia del cinto pelvico indica che il bipedismo era abituale almeno a partire da Australopithecus afarensis. Recentemente si è suggerito che anche gli adattamenti al bipedismo, specie nelle prime fasi, possano essere stati altamente variabili nelle diverse forme, testimoniando una volta di più a favore di un’evoluzione non lineare130.
127 Ammesso dunque che l’antenato comune fra Pan e Homo non fosse egli stesso bipede, a partire da quale forma di locomozione si è sviluppato il bipedismo? Tre sono i candidati: una forma di brachiazione; l’adattamento all’arrampicamento verticale (diffuso fra le Omomydae, un gruppo di primati miocenici); una forma quadrupede generalista. Contro la prima ipotesi si è sostenuto che la brachiazione comporta una serie di specializzazioni assai particolari, che non s’incontrano nei bipedi; contro la seconda, si sostiene che le Omomydae non sembrano essere strettamente imparentate alle ominide. Il consenso più ampia va quindi alla terza ipotesi.
Anche a confronto con il quadrupedismo “morbido” degli scimpanzé, che già possono occasionalmente muoversi bipedi, le trasformazioni anatomiche e morfologiche necessarie al bipedismo comportano una vera e propria ristrutturazione complessiva.
Figura 2 Tavola delle principali differenze scheletriche fra l’uomo e le
grandi antropomorfe.
Cominciamo dal basso. Il piede delle grandi antropomorfe, che ai nostri occhi somiglia a una mano, mantiene una flessibilità che quello umano perde completamente, specializzandosi nella sola locomozione. Le ossa del tarso e del metatarso del piede umano sono tenute saldamente insieme dai tendini e, grazie all’aumento di dimensioni del calcagno, formano una piattaforma arcuata (arco plantare), in cui l’astragalo, incastrato fra tibia e perone dall’alto e calcagno da dietro, scarica a terra il peso del corpo. L’alluce, allineato alle altre dita, non è opponibile e aumenta notevolmente di dimensioni perché deve fare da propulsore durante la camminata; il minolo, staccato dalle tre dita centrali, assume la funzione di bilanciere.
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In visione frontale, nelle grandi antropomorfe femore e tibia sono disposti al ginocchio ad angolo piatto; negli umani, invece, essi formano un angolo che permette di poggiare i piedi a terra ravvicinati e prossimi al punto di scarico della massa corporea. L’articolazione del ginocchio è potenziata e permette negli umani di estendere completamente la gamba, che invece negli scimpanzé rimane sempre leggermente flessa. L’osso femorale si allunga. In generale, durante l’evoluzione delle ominide si assiste al progressivo aumento della lunghezza degli arti inferiori in proporzione alla statura totale e alla progressiva diminuzione nella lunghezza proporzionale degli arti superiori.
Figura 3 Angolo del ginocchio umano e del ginocchio di grande
antropomorfa.
Il cinto pelvico, composto da ileo, ischio e pube, è uno dei punti di maggiore trasformazione. Nella linea filogenetica umana esso assume progressivamente una forma più bassa e più larga rispetto a quella delle grandi antropomorfe; più in particolare, l’ala iliaca si espande in direzione ventrale, permettendo ai muscoli glutei di cambiare la loro funzione: mentre nelle grandi antropomorfe essi servono come estensori e abduttori della coscia, negli umani hanno in prevalenza una funzione stabilizzante, indispensabile per il bilanciamento durante la camminata. Inoltre, la forma del cinto pelvico conferisce maggiore stabilità perché permette di scaricare direttamente il peso sulla gamba. Un problema particolare è posto, nella nostra specie, dalle dimensioni della testa del bambino alla nascita, più larga di quella delle grandi antropomorfe; rispetto a quella maschile, la pelvi femminile è pertanto meno profonda e più larga; la sinfisi pubica (ovvero, la giuntura anteriore fra le ossa del pube) è più bassa; l’arco pubico è più ampio. La colonna vertebrale si verticalizza nella nostra specie e presenta la caratteristica forma a S con quattro curvature – dette lordosi quando la convessità è rivolta verso il busto e cifosi quando la convessità è rivolta verso il dorso –, che permettono movimenti di flessione e di estensione. Inoltre, le vertebre hanno larghezza progressivamente maggiore mano a mano che si scende dalle 7 cervicali alle 12 toraciche, alle 5 lombari e infine alle 5 sacrali, fuse insieme a formare il sacro (ci sono poi 4-5 vertebre coccigee, fuse insieme a formare il coccige, una sorta di “coda” vestigiale): ciò avviene perché, a ciascun livello, il peso fisico da scaricare è progressivamente maggiore.
129 La testa poggia verticalmente, in equilibrio, sopra la colonna vertebrale; ciò è ottenuto tramite l’allargamento della base cranica (la squama occipitale si allarga e si sposta in avanti) e lo scivolamento del foramen magnum verso il basso. A seguito di questo bilanciamento “gravitazionale”, nella nostra specie i muscoli della nuca si sono ridotti.
Le altre modificazioni anatomiche che caratterizzano la nostra specie avvengono in tempi seguenti rispetto all’acquisizione del bipedismo e probabilmente in parallelo con l’evoluzione dell’encefalo. Fra queste, la principale è senz’altro la ristrutturazione del cranio (v. sotto), seguita da quella della mano, che comunque è di entità assai inferiore rispetto a quella del piede: le dita si raddrizzano; aumenta la lunghezza relativa del pollice; l’opponibilità diventa completa (ciò significa con la punta del pollice che si può toccare la punta di tutte le altre dita); le ultime falangi delle dita aumentano di dimensione; aumenta l’angolo di apertura fra il pollice e il palmo della mano.
§ 96. Just-so stories sul bipedismo
Trattandosi di un passaggio cruciale dell’evoluzione umana, il bipedismo ha goduto lungo gli anni di numerosi tentativi di spiegazione. Nessuno di questi è particolamente persuasivo e spesso, anzi, le cause addotte paiono piuttosto forzate.
Una prima teoria argomenta che, in un ambiente aperto come quello della savana (che si supponeva essere stato culla dell’intera evoluzione ominide), il bipedismo rappresenti un vantaggio perché permette di controllare meglio il territorio, scorgendo i predatori con anticipo. Una seconda spiegazione mette invece in relazione il bipedismo con la raccolta di cibo e il trasporto di strumenti: esso permetterebbe una maggiore efficienza nella raccolta, legata alla possibilità di spostarsi rapidamente e poi di trasportare il cibo raccolto fino al campo base, o gli attrezzi fino al luogo d’uso, facendo uso degli arti superiori liberati dalla funzione locomotoria. Una terza teoria argomenta infine che il bipedismo sia utile per la vita riproduttiva e sociale, permettendo di impegnare la femmina nella gestazione mentre il maschio provvede al cibo per entrambi (è perfino inutile sottolineare quanto questa idea di famiglia ominide sia mutuata dalla famiglia mononucleare dell’Occidente contemporaneo).
Nessuna di queste ipotesi (ecologica, alimentare e sociale) ha mai proposto argomenti davvero convincenti a proprio sostegno, e tutte partono dal presupposto che il bipedismo sia un adattamento specifico, evolutivamente vantaggioso, a una condizione ambientale o sociale altrettanto specifica. Si tratta quindi di spiegazioni pienamente adattazioniste, che fanno perno su presunti “vantaggi” selettivi del bipedismo. Di fatto, però, il passaggio dall’architettura quadrupede a quella bipede comporta una tale quantità di modificazioni (anatomiche, scheletriche, funzionali, fisiologiche) da poter difficilmente essere pensata come mero adattamento ambientale specifico.
Per spiegarne l’evoluzione torna utile il concetto di Bauplan, il “piano architettonico generale” delle forme viventi. Il Bauplan bipede richiede e organizza un’integrazione strutturale delle forze e degli elementi del tutto differente da quella implicata nelle altre forme di locomozione; in quanto tale, essa pone anche vincoli precisi, che devono essere rispettati perché l’architettura “funzioni” e che, di per sé, non sono adattamenti ambientali. Facciamo un esempio architettonico: sarebbe senz’altro piuttosto sciocco pensare che gli angoli retti formati dai muri delle case occidentali servano per incastrarci agevolmente gli spigoli dei mobili; di fatto, essi si trovano lì perché la mostra architettura civile è dominata dalla regola dell’ortogonalità, e sono semmai i mobili a essere costruiti per poter essere usati in stanze rettangolari. Nell’interpretazione del bipedismo le costrizioni di piano (l’angolo retto fra i muri) sono spesso interpretate come adattamenti locali (la “risposta giusta” al problema del posizionamento dei mobili).
Usando la terminologia matematica mutuata dalla teoria del caos, il passaggio dall’andatura quadrupede (o dal knuckle-walking)) a quella bipede è spiegabile in termini di comportamento
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di un sistema dinamico, dapprima organizzato attorno a un modo anatomico-locomotorio coerente (quello del quadrupedismo, oppure quello del knuckle-walking) che, perso l’equilibrio iniziale, si sposta verso un altro modo anatomico-locomotorio coerente (quello dell’ortostatismo), indipendentemente dall’immediato valore adattivo che quest’ultimo può avere. In quest’ottica lo stato di relativo equilibrio dei due sistemi, entrambi coerenti e ben organizzati, conta molto più del tipo di adattamento ambientale che ciascuno dei due promuove o permette; e l’ambiente, anziché essere setaccio delle mutazioni, ha piuttosto la funzione di innesco della trasformazione.
§ 97. Il dibattito sulla neotenia
In After many a years dies the swan, un romanzo breve del 1939, Aldous Huxley narra del miliardario hollywoodiano Joe Stoyte che, terrorizzato all’idea della morte, chiede al suo medico di procurargli la ricetta dell’immortalità. Questi scopre che in Gran Bretagna il quinto conte di Gonister ha raggiunto e oltrepassato i duecento anni d’età mangiando ogni giorno intestina di carpa. I due si precipitano in Europa per incontrare il vegliardo e carpirgli il segreto, irrompono nella sua tenuta, ma del conte non v’è traccia: per le stanze del castello si aggira solo uno scimpanzè. La soluzione del giallo – orripilante per il miliardario e accettabile solo dall’uomo di scienza – sta nel rapporto fra la forma umana e quella delle grandi scimmie antropomorfe: gli esseri umani mantengono per tutta la vita caratteristiche che, negli scimpanzè, sono proprie solo dei giovani; se un essere umano invecchiasse a sufficienza, suggerisce il racconto di Huxley, superata ogni possibilità di mantenere ancora i caratteri giovanili, acquisirebbe infine la forma anatomica di uno scimpanzè.
Si tratta della formulazione letteraria di un’ipotesi scientifica importante: quella che spiega l’evoluzione umana, o parte di essa, con la neotenia, ovvero col prolungato mantenimento, nella forma adulta, di caratteri giovanili e perfino fetali. Quello di neotenia è un concetto chiave non solo in ambito paleoantropologico, ma anche in tutto lo sviluppo dell’antropologia filosofica, che ha proposto alcune fra le più acute considerazioni in merito all’evoluzione umana e al suo significato propriamente filosofico (fra gli autori più noti sono Helmut Plessner e Arnold Gehlen, ma le tematiche dell’antropologia filosofica sono riprese anche da Heidegger, Merleau- Ponty, Sartre, Ricoeur e Girard). Fra i primi a formularlo in modo compiuto è stato Louis Bolk: vale la pena di seguire da vicino le sue argomentazioni anche come esempio di ragionamento evolutivo non adattivo.
Punto di partenza di Bolk è la relazione fra anatomia e fisiologia nell’evoluzione della nostra specie. Nella paleoantropologia l’anatomia è strumento principe: quando tutto ciò che si ha a disposizione per la definizione e lo studio di una specie sono un paio di ossa fossili, la comparazione anatomica è indispensabile per poter dire alcunché. L’habitus mentalis del paleoantropologo sarà quindi quello di considerare l’evoluzione come accumulazione più o meno rapida nel tempo di modificazioni anatomiche. Contro questo assunto Bolk argomenta che l’anatomia evolutiva altro non è se non il sintomo di una modificazione molto più radicale e primaria, quella fisiologica dello sviluppo organico interno. La trasformazione fondamentale della nostra specie, che rende conto dell’essenza degli esseri umani, è l’estrema fetalizzazione, o neotenia, del nostro sviluppo: molte delle caratteristiche tipiche degli adulti di Homo sapiens si trovano infatti anche nei feti o nei neonati delle grandi antropomorfe (il cervello grande e arrotondato; la posizione del foramen magnum; la faccia giovanile con mascella piccola e profilo diritto; la posizione ventrale della vagina ecc.); ma mentre le grandi antropomorfe superano questa configurazione lungo l’ontogenesi uterina ed extrauterina, gli esseri umani vi permangono per tutta la vita. In altre parole, il primum agens dell’ominazione non sarebbe affatto il bipedismo ma il prolungato mantenimento della condizione giovanile, di cui la postura eretta sarebbe solo una conseguenza. Per spiegare il fenomeno globale della fetalizzazione Bolk fa intervenire il sistema endocrino (e anzi, l’Endocrino) come meccanismo regolatore dello
131 sviluppo, i cui guasti e le cui défaillances sarebbero leggibili come “mancati ritardi”, avanzamenti filogeneticamente normali ma patologici per quanto attiene alla nostra specie.
Nei primi decenni del Novecento l’ipotesi evolutiva principale per spiegare le somiglianze fra esseri umani e altre specie era quella della ricapitolazione, o legge biogenetica, proposta da Ernest Haeckel e divenuta proverbiale nella formula «l’ontogenesi ricapitola la filogenesi» – ovvero l’embrione, nel suo sviluppo, ripercorre le fasi filogeneticamente antiche della specie. In questo quadro, l’evoluzione corrisponde a un’accelerazione del processo embrio-fetale di trasformazione: quanto più una specie è evoluta, tante più fasi attraverserà l’embrione, e poi il feto, per approdare infine alla forma che corrisponde al presente evolutivo della specie. L’ipotesi della fetalizzazione avanzata da Bolk si contrappone diametralmente a quella della ricapitolazione: l’evoluzione degli umani non deriverebbe affatto da un’accelerazione dello sviluppo, ma, al contrario, da un rallentamento, da una frenata che manterrebbe la specie in condizioni che, per i primati a noi più prossimi, sono filogeneticamente antiche.
L’ipotesi apre piste molteplici e pone diversi problemi. Il limite principale della teoria di Bolk, così come di quella di Haeckel, sta nel suo eccesso esplicativo: è senz’altro vero che una parte dell’ontogenesi embrionale ricapitola una parte della filogenesi, così come è senz’altro vero che diverse caratteristiche umane sono fortemente neoteniche. Ma nessuna delle due ipotesi riesce a spiegare tutto, dacché l’esito finale del processo di sviluppo degli esseri umani non è lineare e unitario ma a mosaico (se la faccia è infantile e “ritardata”, le gambe – per non fare che un esempio – non lo sono affatto). In altre parole, organi diversi subiscono processi evolutivi differenti a seconda delle esigenze a cui devono rispondere: alcuni si sviluppano in modo rallentato e neotenico, altri in modo accelerato e “ricapitolante”. Inoltre, l’ipotesi di Bolk comporta una decisa chiusura dell’endocrino all’esterno, una sorta di autismo dell’organismo che procederebbe nell’evoluzione esclusivamente secondo principi interni, senza connessioni con l’ambiente (non solo quello fisico, ma anche quello sociale, culturale, cognitivo, affettivo ecc.).