§ 23. Bestie di razza
La teoria dell’evoluzione per selezione naturale mette a sistema molti spostamenti concettuali, già impliciti nelle proposte dei predecessori di Darwin, che andavano nella direzione di una certa liberazione dello sguardo scientifico dagli antichi assi concettuali delle scienze naturali. Si tratta di una rottura importante, che sposta la percezione del mondo naturale verso una visione processuale e storica anziché determinata ab initio da una volontà (quella divina) espressa da un’essenza inaggirabile e da un posizionamento fisso (quello della scala).
Tuttavia, analizzando la vicenda dal punto di vista della storia delle idee, il grande scandalo dell’evoluzionismo, che tanto fece discutere la società vittoriana, è risultato infine altrettanto funzionale della vecchia concezione religiosa all’apologia dell’esistente. Ciò che, nel mondo ordinato da Dio, dipendeva dalla volontà divina (la superiorità degli esseri umani su tutti gli altri animali, quella dell’uomo sulla donna, del nobile sul contadino ecc.), nel mondo evoluto per selezione naturale dipende dal successo nella lotta per la sopravvivenza e dal “grado di evoluzione”. Non è un caso se, nei libri che trattano di evoluzione, l’argomentazione passa spesso per i “più” e i “meno”: Homo erectus ha più cervello di Homo habilis; le felci sono meno complesse dei mammiferi; gli eucarioti hanno più DNA dei procarioti – e via così. Il “più” (più cervello, più complessità, più DNA) ha, qui, la stessa funzione che aveva, nella scala naturae, la vicinanza a Dio: è cambiato il parametro con cui si ordinano gli enti di natura, ma la distribuzione degli enti e le implicazioni valoriali sono rimaste intatte.
All’ombra dei lavori di Darwin si apre il capitolo del darwinismo sociale che, sotto nomi diversi, dalla fine dell’Ottocento a oggi ha continuato a sfruttare la propria veste scientifica per direzionare le scelte politiche e sociali. Esso parte dall’assunto secondo cui ciò che vale nelle scienze naturali e nell’evoluzione delle specie vale anche nelle scienze sociali e nella storia dei gruppi: così come quella naturale, anche l’evoluzione sociale porta per gradi a una civilizzazione e a una forma umana “superiore” che, dotata di caratteristiche migliori, sarà libera di esercitare il proprio dominio “civilizzatore” sulle forme meno nobili e sulle “razze primitive”. I grandi dibattiti sulla razza e sull’eugenetica nascono nella seconda metà dell’Ottocento, ovvero nella più trionfale epoca dell’imperialismo occidentale. La variabilità che si registra fra le popolazioni umane diventa una differenza di tipo valoriale: alcune caratteristiche denotano maggiore evoluzione, civilizzazione di più lunga durata, forma umana superiore; altre segnalano invece evoluzione incerta, scarsa civilizzazione, forma umana inferiore. Nella prima categoria rientravano, naturalmente, tutti e solo i tratti fisici e culturali degli europei; la seconda categoria comprendeva, a diversi livelli, tutte le altre popolazioni. È l’epoca del cosiddetto «razzismo scientifico» che, in base ai dati della craniometria, dell’antropometria e della frenologia, distingueva i gruppi umani in razze tipologiche, ciascuna dotata di caratteristiche peculiari e fisse – non solo fisiche, come il colore della pelle o la forma dei capelli, ma anche morali e intellettuali: nella descrizione delle razze si trovano così considerazioni sulla pigrizia, sull’igiene, sull’affidabilità e via dicendo.
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La stessa unitarietà della specie Homo sapiens fu messa in dubbio: poiché, in base alla teoria dell’evoluzione, le specie tendono a suddividersi in popolazioni che, sul lungo periodo, formeranno specie diverse {►§32}, i poligenisti ipotizzarono che la separazione genetica e culturale delle diverse popolazioni umane, seppure ancora insufficiente a configurare specie distinte, fosse tuttavia abbastanza ampia da giustificare un differenziamento profondo, con alcune razze rimaste a uno stadio più o meno primitivo e altre sviluppatesi invece, in gradazioni diverse, verso forme più alte di umanità. Più nello specifico, si supponeva che la razza bianca, avendo dovuto adattarsi al clima freddo e ostile dell’Europa del nord, avesse subito una selezione particolarmente forte e fosse quindi stata costretta a sviluppare competenze cognitive e tecniche superiori rispetto a quelle delle altre razze che, comodamente insediate in climi miti, si erano impigrite.
Per finire, una nota terminologica. Il vocabolo razza, introdotto nell’antropologia da Buffon, era impiegato originariamente, fra il Seicento e l’inizio dell’Ottocento, per denotare le diverse forme fisiche umane presenti sul pianeta, senza che ciò comportasse una valutazione quanto ai meriti (o ai demeriti) intrinseci di ciascun gruppo. L’uso che ne fu fatto nel darwinismo sociale, nell’eugenetica e infine nel nazismo l’hanno però inedelebilmente connotata in una direzione che non rimanda più allo studio della variabilità della nostra specie, quanto alle politiche di oppressione e sterminio pianificate fra la fine dell’Ottocento e il Novecento. Dopo le devastazioni – non solo materiali, ma etiche e civili – della seconda Guerra Mondiale, il 18 giugno del 1950 l’UNESCO rilasciò una dichiarazione intitolata The Race Question (“La questione della razza”); firmato da biologi, antropologi, etnologi e psicologi di fama, il documento rigettava la scientificità stessa del concetto di razza. Per questa ragione in antropologia si preferisce oggi parlare di “gruppi umani”, di “etnie”, di “gruppi culturali” ecc. (si tenga tuttavia presente che, poiché non si tratta di una questione di filologia ma di politica, nessuna espressione è al riparo dalle medesime derive che, nel tempo, hanno reso odiosa la parola “razza”32).
§ 24. Migliorare la specie e cadere in un incubo
La presunta superiorità di un gruppo umano o di una razza portava naturalmente a riflessioni sull’eugenetica, ovvero sulla possibilità di migliorare le caratteristiche dei gruppi tramite una serie di dispositivi atti a diffondere i caratteri desiderabili e a circoscrivere quelli indesiderabili. Gli esempi più chiari di eugenetica sono, ancora una volta, quelli che provengono dalla selezione di razze animali e di varietà vegetali.
La riflessione sistematica sull’applicabilità agli umani dei principi che regolano la selezione delle varietà biologiche si sviluppa a fine Ottocento. A ridosso della pubblicazione dell’Origine
delle specie, Francis Galton, cugino di Darwin ed eminente figura di scienziato, folgorato dai dati relativi alla selezione artificiale, iniziò una serie di ricerche sull’ereditabilità delle abilità negli esseri umani (che sfociarono, fra l’altro, in un testo dal titolo sintomatico: Hereditary
genius). I principi dell’eugenetica che emergevano dalle sue ricerche furono accolti entusiasticamente, fra l’altro, anche dai socialisti dell’epoca che, sulla scorta di un utopismo assai ingenuo, credevano nella possibilità di miglioramento tecnico dell’umanità: si trattava, all’epoca, di un progetto di igiene sociale non troppo difforme, nello spirito, da quelli che animava i riformatori preoccupati di coprire le fogne e di fornire un minimo di assistenza medica a tutta la popolazione.
Il rovesciamento di quest’approccio in un progetto oppressivo di “purezza razziale”, tuttavia, era fin troppo facile. Nel momento in cui, messe da parte le aspirazioni universalistiche, si comincia a ragionare per razze in termini di superiorità e inferiorità, l’eugenetica acquista la connotazione negativa che, da allora, non ha mai smesso di accompagnarla. Per mantenere
37 intatte le caratteristiche desiderabili della “razza superiore” era necessario, come minimo, che essa non si mescolasse ad altre; ma anche che i portatori di caratteri indesiderabili fossero impossibilitati a trasmetterli alle generazioni successive: questo poteva avvenire, nel migliore dei casi, tramite la sterilizzazione o, nel peggiore, tramite soppressione. Le idee scientifiche di igiene sociale presenti nei testi dei primi darwinisti sociali diventeranno, in pieno Novecento, il programma politico del nazismo. (Lo stesso uso della parola soppressione rimanda all’orizzonte eugenetico: non si trattava, infatti, per questi pensatori, di assassinare delle persone, ma di prevenire la diffusione di un male peggiore. Le parole non sono mai innocenti.)
La funzionalità ideologica del darwinismo sociale in piena epoca coloniale è fin troppo palese: agiva tanto sul fronte degli affari esteri (i rapporti con le popolazioni e i paesi colonizzati) quanto sul fronte degli affari interni (la povertà dilagante, le condizioni di vita degli operai, la repressione della dissidenza ecc.). Come già per Malthus, anche per i darwinisti sociali gli interventi di sostegno non avrebbero fatto altro che frenare l’azione della selezione nell’eliminazione dei più pigri e dei più deboli. Ancora più evidente, ed estrema, la funzione dell’“igiene eugenetica” nella biopolitica nazista. Ma sarebbe ingenuo pensare che, chiusa col nazismo la parabola coloniale, la scienza e la morale comune abbiano del tutto abbandonato i presupposti dell’eugenetica e dell’igiene della razza. Di fatto, l’intero Novecento non è mai davvero riuscito a uscire dall’orizzonte del darwinismo sociale: né nella scienza, né nelle politiche sociali, né, tanto meno, nella zona d’ombra fra le due.
La permanenza di questo paradigma è testimoniata, fra l’altro, dal dibattito sul QI33;
dall’ossessione delle scienze umane per gli studi sui gemelli34; dalle campagne di sterilizzazione
forzata che le nazioni occidentali hanno praticato ben oltre la seconda guerra mondiale; dai dibattiti sulla diagnostica prenatale. Nei nostri anni, peraltro, i presupposti del darwinismo sociale stanno tornando a farsi sentire con una brutalità sconcertante; un solo esempio: in articoli recentissimi, pubblicati su importanti riviste con alto impact factor, si è tornati a discutere di differenze nel QI fra maschi e femmine e fra gruppi (bianchi e neri, soprattutto, come nella miglior tradizione del razzismo classico) in base alle dimensioni medie dell’encefalo. E la competizione richiesta su tutti fronti dal neoliberismo attuale trova la sua più forte giustificazione etica proprio nell’applicazione alla sfera economica del più gretto naturalismo darwiniano35.