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1.4 Il lavoro femminile nella teoria economica e sociologica

1.4.1 Gli approcci economic

Secondo la teoria neoclassica, il lavoro è considerato (al pari di ogni altra merce) oggetto di scambio in funzione di un prezzo, il salario, che rappresenta il punto di equilibrio raggiunto tra domanda ed offerta. Questo approccio differenzia il lavoro femminile da quello maschile secondo i differenziali di produttività, in base ai quali le donne verrebbero discriminate nel mondo del lavoro, sia in termini salariali che in termini di opportunità di impiego. L’analisi di una variabile fondamentale per l’economia è quella di capitale umano. Questo è dato dall’insieme di competenze, conoscenze, abilità professionali e relazionali possedute dall’individuo, acquisite non solo mediante l’istruzione scolastica, ma anche attraverso un lungo apprendimento o esperienza sul posto di lavoro e quindi non facilmente sostituibili in quanto intrinsecamente elaborate dal soggetto che le ha acquisite. Il primo degli economisti classici ad introdurre il concetto di capitale umano fu Adam Smith, che nell’opera “La Ricchezza delle Nazioni” propose l’analogia tra uomini e macchine produttrici. Il concetto espresso da Smith fu successivamente considerato da altri teorici tra cui Bentham e Mill, fino al contributo fondamentale di Marshall (1879). Sebbene il concetto di capitale umano sia stato presentato da vari autori come W.Petty (1676), R.Cantillon (1755), A.Marshall (1879), I.Fisher (1906), J.M.Clark (1923), esso non fu mai sviluppato all’interno di una solida struttura teorica, almeno fino alla metà del ‘900 grazie ai contributi innovativi degli economisti della scuola di Chicaco: Jacob Mincer (1958), Theodore Schultz (1960) e Gary Becker (1975). Ci concentriamo qui

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solamente sulla teorizzazione fatta da Becker. Gary Becker formula una sua teoria del capitale umano10 dove l’istruzione è uno degli strumenti più efficace per l’incremento della produttività individuale. L’idea centrale del modello di Becker consiste nel fatto che l’istruzione (i) aumenta le conoscenze e le capacità individuali e rende le persone più produttive. Il capitale umano (c) è quindi rappresentato dagli anni di istruzione. In un mercato del lavoro perfettamente concorrenziale il salario rispecchia la produttività degli individui. Conseguentemente gli individui tenderanno ad acquisire un maggiore livello di istruzione perché questo consentirà di avere livelli salariali più alti che permetteranno maggior consumo e quindi maggiore utilità.

Se dovessimo applicare concretamente questi modelli interpretativi allo studio del lavoro femminile, la conclusione sarebbe la seguente: per le donne l’investimento in capitale umano è meno vantaggioso rispetto alla controparte maschile in quanto, trascorrendo esse un periodo più breve ed intermittente sul mercato del lavoro (a causa delle responsabilità familiari) si troverebbero con minor tempo a disposizione per trarne i frutti desiderati e recuperare così i costi dell’investimento in formazione. Più precisamente, la frammentarietà e la durata del corso di vita lavorativa femminile concorrono a deprezzare il capitale umano accumulato causando una riduzione della produttività e del salario. Una spiegazione alternativa potrebbe essere che le donne decidano di acquisire meno capitale umano perché preferiscono un’attività meno impegnativa sia in termini di tempo che di denaro, in forza del carico familiare che le costringe a abituali interruzioni ed assenze. Non è razionale dunque, per una donna, investire in capitale umano sapendo che parte di esso verrà perso perché adoperato in lavori dequalificati e insufficientemente retribuiti (Abburrà, 1989). Il meccanismo originante la diversa collocazione occupazionale della donna è dato da una circolarità che ha dato adito a forti critiche in quanto “spiega l’esito sul mercato del lavoro in base ad un passato investimento in capitale umano e l’investimento in capitale umano in base al futuro esito sul mercato del lavoro” (Bernardi, 1999) senza riuscire ad individuare il fattore determinante. Contemporaneamente quest’analisi non tiene conto dell’influenza che le risorse del partner esercitano sulle decisioni femminili e quindi sul nucleo familiare nel suo complesso.

La teoria della New Home Economics, è l’estensione della teoria del capitale umano di Becker (1964) ed ha la famiglia come centro di analisi. L’ innovazione di quest’approccio sta nel

10 Il concetto di capitale umano indica l’insieme delle conoscenze e delle capacità produttive acquisite da un individuo attraverso l’istruzione, la formazione e l’esperienza lavorativa. Tali capacità e conoscenze influenzano non solo la sua realizzazione economica e sociale (ad esempio determinano la sua produttività e quindi il suo valore nel mercato del lavoro) ma hanno un impatto sulla società in cui egli fa parte (il capitale umano ha tipiche delle esternalità positive).

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considerare la famiglia come unità produttiva e non più come unità di consumo. In questo modo il lavoro domestico viene riconosciuto e portato al centro dell’analisi e la famiglia diventa una piccola impresa che punta alla massimizzazione della funzione di utilità familiare attraverso l’allocazione ottimale delle proprie risorse. Becker ritiene che la produttività domestica degli uomini è inferiore a quella delle donne, viceversa la produttività di mercato degli uomini è superiore a quella delle donne, di conseguenza vi è una specializzazione dei ruoli, dove l’uomo che si occupa delle attività produttive mentre la donna delle attività riproduttive. In questo modo Becker dimostra come il modello del male breadwinner 11sia il risultato di un processo razionale

di massimizzazione della funzione di utilità familiare. Come si spiega però il vantaggio competitivo degli uomini nel mercato del lavoro? Gli uomini generalmente dispongono di più capitale umano, non interrompono la carriera a causa della nascita di un figlio e sono socializzati alla partecipazione al mercato del lavoro. Queste motivazioni sembrano non essere più valide negli ultimi anni, tuttavia (secondo questa teoria) anche nel caso in cui la produttività marginale nel mercato del lavoro sia uguale per i due coniugi, la divisione del lavoro si risolverebbe con una specializzazione degli uomini nel mercato e una specializzazione delle donne nel lavoro domestico perché le donne hanno una produttività domestica superiore agli uomini. Questa affermazione viene giustificata con ragioni biologiche legate alla peculiarità femminile della maternità. Inoltre i processi di socializzazione primaria rafforzano la predisposizione della donna verso le attività di cura. Questa prospettiva sembra avere molti punti in comune con gli approcci funzionalisti di stampo sociologico che vedono le loro origini in Durkheim e sviluppati successivamente da Parsons (Parsons e Bales 1974). La new home economics, quindi, prende in considerazione gli elementi culturali ma questi rimangono nella categoria delle precondizioni dalle quali si sviluppano i fattori che entrano direttamente nelle scelte matrimoniali ed economiche dei coniugi. Una volta che il matrimonio è costituito la teoria non ha spazio per le norme culturali di divisione dei ruoli nella famiglia o per le preferenze individuali. Questa teoria funziona molto bene per spiegare il modello male breadwinner e la specializzazione dei ruoli ed è stata molto utilizzata in diversi lavori di ricerca (Bernardi 1999; Bernasco 1994; Blossfeld e Drobnic 2001). I contributi proposti dagli economisti neoclassici non sono stati esenti da critiche perché loro impostazione teorica non riesce a dar conto dei nuovi equilibri emersi con l’aumento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro. L’aumento delle coppie dove entrambi i coniugi sono occupati, oltre che gli elevati tassi di omogamia tra i coniugi, sono

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elementi difficilmente conciliabili con la teoria di Becker. In particolare sono stati messi in discussione alcuni assunti del modello che non permettono di descrivere i comportamenti delle nuove famiglie; i principali sono a) l’unitarietà della funzione di utilità e b) la simmetria tra i coniugi. Le critiche a questo modello vengono mosse rispetto all'assunto che esista un'unica funzione di utilità familiare e che i componenti della famiglia prendano le decisioni in modo altruistico (Chiappori 1988). Per gli autori è difficile accettare uno sdoppiamento della natura dell’individuo che è strettamente opportunista ed egoista sul mercato, mentre è altruistica in famiglia (England 1993). Questa visione viene condivisa anche dall’economia dei costi di transazione applicata alla famiglia (Pollak 1985); dalla prospettiva della negoziazione (Gershuny et al. 2005) e dal modello della dipendenza coniugale (marital dependency model) (Sørensen e McLanahan 1987). Tutte queste teorie supportano l’ipotesi che ciascun coniuge cerchi di massimizzare la propria funzione di utilità e che i ruoli familiari siano il risultato di una contrattazione nella quale i coniugi possono mettere in gioco risorse che hanno un’origine esterna alla famiglia. Il lavoro familiare è un onere e i coniugi cercano di diminuire il tempo che devono dedicare a queste attività. Così le donne maggiormente istruite e con una posizione abbastanza forte nel mercato del lavoro riescono a contrattare un ruolo marginale nelle attività domestiche, comprando queste attività sul mercato per poter continuare la propria carriera lavorativa. L’ esito è un indebolimento della specializzazione di genere e la partecipazione di entrambi i coniugi al lavoro domestico ed extra-domestico. Queste teorie hanno il merito di offrire un’interpretazione teorica dell’incremento delle famiglie dual-earner ma non riescono a spiegare alcuni elementi: per esempio, nei casi in cui la donna abbia maggiori risorse rispetto al marito, quest’ultimo non aumenta il tempo dedicato alle attività domestiche (Brines 1994). In maniera analoga la probabilità delle donne di uscire dal mercato del lavoro in corrispondenza di un evento familiare non si riduce anche se il capitale umano della donna è superiore a quello del marito (Lucchini et al. 2007). Per tornare all’esempio precedente, se consideriamo i risultati delle più recenti ricerche empiriche sulla divisione del lavoro tra i partner (Grunow et al. 2012), la situazione più probabile è quella in cui entrambi i coniugi partecipano a tempo pieno nel mercato del lavoro, ma il lavoro domestico rimarrà principalmente a carico della donna. Entrambi gli approcci economici finora descritti condividono l’esistenza di una simmetria tra uomo e donna, sia per quanto riguarda i rapporti all’interno della famiglia, sia per quanto concerne l’offerta di lavoro nel mercato. Questa simmetria non resiste alla prova dei fatti ed è su questo punto che si sono concentrati i contributi degli approcci sociologici. Per interpretare i modelli familiari di divisione del lavoro all’interno delle famiglie è necessario allargare il campo

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d’indagine e puntare lo sguardo sia verso l’esterno, ovvero verso i vincoli e al contesto all’interno della quale sono prese le decisioni, sia verso l’interno, ovvero alle preferenze degli attori sociali. I fattori istituzionali e culturali, infatti, impediscono questa presunta simmetria tra uomini e donne, sia nel mercato del lavoro, sia nella divisione dei ruoli all’interno della famiglia, e contribuiscono a formare le preferenze degli attori sociali che tendono così a divergere a seconda del genere.