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I sostegni pubblici e familiari al lavoro di cura

1.3 Ragioni che spiegano la femminilizzazione del lavoro

1.3.5 I sostegni pubblici e familiari al lavoro di cura

Le donne italiane che lavorano riducono lievemente il tempo dedicato alle attività familiari, perché i loro partner non aumentano granché il loro contributo alle attività necessarie alla vita della famiglia (Saraceno 2003). Infatti, benché tra le giovani generazioni si rilevino significativi mutamenti, i maschi italiani sono ancora quelli che dedicano minor tempo al lavoro di cura in Europa (Romano 2007). La conciliazione è diventata un vero e proprio oggetto di

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politiche pubbliche, in relazione al quale si sono generati diversi approcci e modelli di intervento (Jacquot, Ledoux e Palier 2010) che si traducono a livello operativo in programmi che si differenziano sia per la visione di conciliazione sottesa che per gli strumenti adottati. Gli strumenti utilizzati per concretizzare questi obiettivi sono i congedi, i servizi e la definizione di orari di lavoro amichevoli verso la famiglia (Saraceno, 2013). Naldini e Saraceno (2011) utilizzano i concetti di defamilizzazione e familismo sostenuto per fare vedere il diverso grado in cui i regimi di welfare perseguono lo scopo di ridefinire i rapporti di genere (Rizza, 2014). Per defamilizzazione si fa riferimento alla misura in cui i servizi sollevano, in particolare le donne, dal lavoro di cura dei familiari non autosufficienti favorendo la possibilità di non rinunciare alla carriera lavorativa mentre per familismo sostenuto si intende la presenza di congedi, indennità e trasferimenti economici che consentono di dedicarsi alla cura di un familiare salvaguardando il proprio posto di lavoro. L’analisi della combinazione di questi elemento consente di vedere (i) come vengono definite le responsabilità di famiglie e collettività rispetto alla cura; (ii) se e come gli specifici modi di allocare queste responsabilità facilitano incentivano o ostacolano la partecipazione delle donne al mercato del lavoro; (iii) se e come le forme di defamilizzazione e familismo sostenuto favoriscono una riallocazione delle responsabilità di cura tra uomini e donne o se mantengono la tradizionale divisone dei ruoli.

Il congedo retribuito di maternità e genitorialità sono le principali forme di riconoscimento del tempo di cura. Tre aspetti sono importanti: la durata, la generosità dell’indennità e la possibilità di accedervi per i padri. Alcuni studi hanno provato che congedi lunghi e ben retribuiti possono avere un impatto sulle scelte di fecondità e sull’attaccamento al mercato del lavoro (Saraceno, 2013); tuttavia l’impatto è diverso a seconda della condizione professionale della madre. Brevi congedi «effettivi» tendono a non essere utilizzati dalle madri con un livello di istruzione basso (Esping -Andersen 2009); questo sembra avere un esito negativo sulla fecondità perché le donne che investono nel lavoro non ritengono adeguato il tempo riconosciuto loro per la cura. Per le madri con livelli di istruzione più bassi aumenta la probabilità di non rientro dopo la maternità. Va osservato che anche i congedi lunghi ben remunerati possono avere lo stesso effetto negativo sulla occupazione, soprattutto fra le persone poco qualificate in quanto, se non sostenuti da misure di accompagnamento e aggiornamento, possono produrre fenomeni di de-skilling (Saraceno, 2013). È noto che nel nostro Paese l’aiuto per la cura dei figli è dipendente dalle reti parentali, in particolare dalle nonne, che spesso vivono vicino ai figli e alle figlie. Ciò che fa la differenza tra le donne che continuano a lavorare dopo la nascita di un figlio e quelle che smettono è la possibilità di ricorrere regolarmente ai nonni,

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mentre le differenze sia nell’uso degli asili nido sia soprattutto nell’aiuto del partner sono minime (Reyneri,2011). L’erogazione di servizi a favore della genitorialità si riferisce alla presenza di strutture pubbliche e private che coprono i bisogni educativi dei bambini tra gli 0 e i 6 anni.

Si è visto che intercorre una correlazione positiva tra la presenza di sistemi educativi e sostegno alla maternità e il livello di occupazione femminile (Espig Andersen 2000, Pissarides 2005) e il fatto di poter contare su servizi a sostegno della maternità permette alle donne di avere del tempo per lavorare fuori casa favorendo così la carriera professionale. Inoltre, servizi educativi sono un bacino di raccolta dell’occupazione femminile. Di conseguenza, erogare servizi per l’infanzia non solo favorisce la formazione di carriere professionali permettendo alla donna di non rinunciare al proprio lavoro ma crea posti di lavoro. Secondo un’indagine Istat del 2006 i problemi di conciliazione per le madri che possono usufruire delle reti di aiuto informale e che hanno orari e modalità più adatte alle esigenze delle lavoratrici sono minori. L’aiuto delle giovani nonne è però destinato a esaurirsi perché un numero sempre più crescente di donne ultra- cinquantenni sarà ancora al lavoro quando le loro figlie diverranno madri. Inoltre, su queste donne peserà sempre più il compito di assistere genitori o parenti ultra-ottantenni. I servizi di cura e assistenza per gli anziani non autosufficienti sono abbondantemente al di sotto delle necessità in quanto si stima che la percentuale di ultra-settantacinquenni residenti in casa di riposo non raggiunga il 3% e non presenti alcun segnale di aumento, anche perché negli ultimi quindici anni si è diffusa una particolare forma di assistenza domiciliare privata7 (Reyneri,2010).

Le analisi comparative mettono in luce l’importanza della disponibilità di servizi di childcare e di congedi parentali per l’occupazione delle donne (Del Boca, Pasqua e Pronzato 2008; Saraceno 2003; Plantenga e Remery 2005; Oecd 2003). Per quanto concerne la durata del congedo di maternità l’Italia risulta abbastanza generosa: il congedo di base è tra i più lunghi e copre l’80% della retribuzione ma il congedo facoltativo è tra i più brevi e copre solo il 30% (contro il 42% della Francia e oltre il 50% dei paesi scandinavi). Se si pesa la durata del congedo parentale per il livello di sussidio, si ottiene il “congedo effettivo”, un indice dell’importanza del

7 Quando si parla di assistenza privata si fa riferimento alle donne immigrate che lavorano come “badanti”. Si è stimato che quasi un anziano fragile su dieci sia assistito a domicilio da una persona (di regola una donna) immigrata in Italia per lo più da un paese dell’Europa orientale o dall’America Latina. Gran parte di costoro, anche qualora in possesso di adeguato permesso di soggiorno, non sono registrate presso gli istituti previdenziali e comunque quasi mai il loro orario di lavoro corrisponde a quello previsto dai contratti di lavoro. Se si considerano anche le altre centinaia di migliaia di immigrate che lavorano presso le famiglie italiane, ancor più frequentemente senza contratto di lavoro e quindi a costi ridotti, risulta che la recente forte immigrazione femminile ha dato un importante contributo all’aumento della partecipazione al lavoro delle donne italiane, in particolare di quelle istruite e di ceto medio-alto per ovvie ragioni economiche.

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congedo nella vita lavorativa, che pone l’Italia tra i paesi europei meno amichevoli verso le madri lavoratrici (Plantenga e Remery 2005). Inoltre, occorre ricordare che le numerose lavoratrici autonome e le collaboratrici solo recentemente hanno acquisito il diritto al congedo obbligatorio, ma non a quello facoltativo. In pratica non usufruiscono del congedo facoltativo il 19% delle madri nelle regioni settentrionali e ben il 40% in qu elle meridionali (Istat 2005). Va inoltre detto un congedo obbligatorio per maternità eccessivamente lungo può avere un effetto negativo sulla partecipazione al lavoro, perché deteriora le competenze professionali e riduce l’attaccamento al lavoro. Infine sono pochi padri (l’8%, quasi tutti nel pubblico impiego) che utilizzano il congedo, e se lo fanno lo fanno per brevi (Istat 2005). Stando agli ultimi dati disponibili sui servizi per l’infanzia, in Italia il 29% dei bambini al di sotto dei 3 anni usufruisce dei Servizi all’Infanzia, una cifra di molto inferiore alla percentuale dei bambini iscritti alla Scuola dell’Infanzia (il 98% dei bambini tra i 3 e i 5 anni). Solo il 6% dei bambini tra i 6 e gli 11 anni è iscritto a servizi di pre e dopo scuola, in parte a causa di finanziamenti ridotti (ISTAT-2011). La proporzione di bambini sotto i 3 anni nei servizi è particolarmente elevata in Belgio, Danimarca, Svezia e Francia. Tuttavia, esistono importanti differenze all’interno dei paesi nelle caratteristiche delle famiglie che vi fanno ricorso (cfr. Lewis 2009a), in termini sia di classe sociale sia di etnia di appartenenza. Un altro aspetto importante delle politiche di conciliazione è la dimensione relativa alla cura degli anziani non autosufficienti. Nel corso degli ultimi vent’anni è cresciuto il numero di anziani che necessitano di long-term care. Ciò è determinato dai cambiamenti demografici e dall’innalzamento dell’indice di dipendenza strutturale. I cambiamenti in corso determinano una riorganizzazione delle attività di cura: la domanda di cura non può più essere soddisfatta solo dalla famiglia ma dev’essere affiancata o sostituita dal ricorso a servizi domiciliari. Questo fatto determina la crescita delle lavoratrici di cura che a causa della scarsa copertura dei servizi long term care da parte del welfare pubblico si traduce in ampio ricorso a operatrici immigrate nell’ambito di un mercato privato che fa largo ricorso ai rapporti di impiego irregolari. (Colombo, 2009). Data la scarsità delle informazioni disponibili è difficile ricostruire il quadro comparativo della disponibilità e utilizzo dei servizi per gli anziani non autosufficienti rispetto ai servizi per l’infanzia. Norvegia, Danimarca, Olanda, Svezia e Austria, offrono un livello elevato di servizi sia di tipo residenziale sia domiciliare, sostenuto da un approccio di stampo universalistico. La principale soluzione nel sostegno alle cure degli anziani è in questi paesi la defamilizzazione della cura attraverso l’intervento pubblico. Un’assicurazione analoga è stata introdotta in Germania negli anni ’90 e più recentemente (2002) anche in Francia, provocando indirettamente un aumento nell’offerta di servizi da parte

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sia del terzo settore sia del mercato. La combinazione di obiettivi di sostegno ai bisogni di cura e di creazione di un mercato dei servizi si può riscontrare anche nei più recenti sviluppi in Spagna e in Portogallo, che da questo punto di vista si differenziano in misura crescente dall’Italia con cui fino a pochi anni fa condividevano l’approccio in questo settore, basato su un’erogazione monetaria senza vincoli d’uso e destinata solo alla non autosufficienza totale.