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Sulla base di quanto descritto finora è possibile affermare che il ruolo sociale e lavorativo della donna è stato soggetto a svariati cambiati nel corso del tempo, e che i comportamenti delle donne sia nel mercato del lavoro che nell’ambito familiare sono il risultato di scelte in cui le preferenze individuali si conciliano con le risorse disponibili a livello individuale, di coppia e familiare (ed esempio il capitale umano, il reddito, la rete di parentela) e con le caratteristiche del contesto in cui vivono. Secondo le studiose femministe (Crompton, Harris, 1998; McRae, 2003; Knudsen, Waerness, 2001) e i sociologi della scelta razionale (Blossfeld 1998) queste risorse contribuiscono a creare vincoli e opportunità e a strutturare le preferenze. Le dimensioni contestuali che influenzano l’offerta di lavoro femminile sono molteplici: il Welfare State e le politiche sociali di conciliazione famiglia-lavoro; il mercato del lavoro e la famiglia (luogo in cui si definiscono e si praticano relazioni di genere e di solidarietà intergenerazionale) le norme sociali e, in particolare, quelle che definiscono i ruoli di genere e la desiderabilità di un coinvolgimento delle donne nel mercato del lavoro, anche quando diventano mogli e madri. In Italia negli ultimi quarant’anni l’investimento femminile in istruzione è cambiato e la presenza delle donne nel mercato del lavoro è aumentata in modo importante seppur discontinuo. Le trasformazioni nei comportamenti familiari e lavorativi a livello micro si sono intrecciate con i cambiamenti (o i mancati cambiamenti) a livello macro, dei modelli culturali, dei regimi di welfare e della domanda di lavoro. Negli anni ‘50 e ‘60 la divisione di genere del lavoro era governata da norme sociali che sostenevano il modello del male-breadwinner: all’uomo spettava il mantenimento economico della famiglia e alla donna il lavoro domestico e di cura. A questo modello normativo corrispondeva un modello di welfare state e di regolazione del mercato del lavoro costruito intorno alla figura del lavoratore maschio capofamiglia, in un’epoca di crescita

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economica, di occupazione a tempo pieno (per lo più nell’industria) e di famiglia stabile. Poiché la famiglia si basava su una rigida divisione sessuale del lavoro e la tutela della moglie/madre passava attraverso la protezione data al lavoratore maschio “fordista” il problema della conciliazione famiglia-lavoro e dei diritti individuali delle donne non veniva nemmeno preso in considerazione (Lewis, Ostner, 1995; O’Connor, 1996). È a partire dagli anni ’70 che sulla spinta dei movimenti femministi e del crescente investimento delle donne in istruzione che il contesto istituzionale diventa più favorevole al lavoro remunerato delle donne attraverso l’estensione dei congedi di maternità e dei servizi per l’infanzia. Al contempo, e sempre in forte interconnessione con i mutamenti nell’offerta di lavoro, anche la domanda di lavoro diventa più favorevole alle donne grazie alla terziarizzazione dell’economia e all’espansione della pubblica amministrazione. Tuttavia, negli anni ’80 e ‘90 il processo si arresta sia sul fronte istituzionale che strutturale (Solera, 2006). Sul fronte istituzionale le politiche di conciliazione non vengono né ridefinite né estese, almeno fino a metà degli anni ’90. Infatti, la copertura dei servizi per la primissima infanzia rimane scarsa anche dopo l’istituzione degli asili nido pubblici, nel 1971, così come gli orari di apertura e i calendari annuali delle scuole rimangono poco compatibili con i tempi di una famiglia in cui entrambi i genitori lavorano. Solo nel 2000 i congedi di maternità e i congedi genitoriali, seppure già dagli anni ’70 fossero stati disegnati con una durata e un livello di sostituzione del salario relativamente generosi, sono stati estesi alle lavoratrici autonome e ai padri senza la necessità di assenza o di rinuncia da parte della madre. Neppure la disponibilità di lavori part-time cambia sostanzialmente: i contratti part-time, che vengono disciplinati con il decreto legge n.726 del 30 ottobre 1984 con restrizioni che, seppure in seguito sono state ritoccate (soprattutto nel 1994 e nel 1997) ne hanno bloccato la diffusione, poiché i datori di lavoro (ma soprattutto le lavoratrici) hanno ritenuto più convenienti altre strade per raggiungere la flessibilità, come il ricorso agli straordinari o al lavoro nero (Samek Lodovici, 2000). Sul fronte della domanda di lavoro, in Italia il settore terziario non si è espanso agli stessi livelli della maggior parte degli altri paesi europei. I servizi sociali, i servizi alla persona legati alle attività riproduttive, i prestiti finanziari a individui e coppie (per l’acquisto di una casa, per far fronte a spese impreviste o a periodi di disoccupazione non tutelata) hanno continuato e continuano ad essere svolti in larga misura all’interno della famiglia, nella sua peculiare forma mediterranea di solidarietà intergenerazionale estesa alla rete di parentela. Inoltre, come per l’industrializzazione, il livello e il tipo di terziarizzazione varia fortemente tra aree geografiche. Con la recessione economica, all’inizio degli anni ’80 e degli anni ’90, e con la difficoltà a farvi fronte attraverso adeguate politiche economiche e del lavoro (ma anche sociali) la crescente

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offerta di lavoro femminile si è presto scontrata con una domanda di lavoro stagnante e insufficiente tale da confinare molte donne, soprattutto del Sud, nel lavoro informale e nella disoccupazione (Chiesi, 1998; Reyneri, 2002). Le peculiarità della partecipazione femminile al mercato del lavoro hanno consentito di cogliere l’inadeguatezza degli assunti della teoria neoclassica dove il lavoro femminile si distingue da quello maschile per differenziali di produttività, in base ai quali le donne sarebbero sistematicamente discriminate nel mondo del lavoro, sia in termini salariali che in termini di opportunità di impiego. Le teorie neoclassiche si limitano a descrivere i dispositivi di selezione/esclusione della forza lavoro femminile senza però approfondire il fattore causale da cui questi processi prendono forma. L’inadeguatezza delle interpretazioni economiche viene dal fatto che queste non considerano i fattori extraeconomici che regolamentano la differenziazione dell’offerta sulla base del genere. “La rilevanza della identità sociale di genere, come forma allocativa di responsabilità e risorse individuali e istituzionali può, nel migliore dei casi, essere assunta come preferenza e/o vincolo individuale nelle spiegazioni interne alla new home economics e alle teorie del capitale umano, o viceversa come vincolo istituzionale appunto nelle teorie istituzionaliste; ma non può essere analizzata nei processi che la costruiscono e modificano nel tempo, o da un contesto all’altro” Saraceno (1992: 9-10). Gli aspetti attinenti la domanda di lavoro e la cultura di genere sono fattori che hanno trovato ampio respiro in campo sociologico, dove l’interpretazione dei profili partecipativi femminili si è orientata lungo due filoni prevalenti: uno di tipo micro-individuale ed uno di tipo macro-istituzionale dove il primo “considera il rapporto fra l’attore e il mercato del lavoro, includendovi la sfera della libertà di scelta, delle preferenze, delle capacità, dei valori e delle aspettative” e il secondo analizza “il rapporto fra istituzioni, norme sociali e mercato del lavoro e rileva l’influenza storica e culturale dei regimi di welfare nella strutturazione di relazioni di genere e nella divisione sessuale del lavoro all’interno della società” (Semenza 2004:79). Nei prossimi capitoli ci concentreremo su quest’ultimo filone, partendo dal presupposto che la corrente economica sia caratterizzata da una lettura approssimativa della partecipazione femminile al mercato del lavoro e che l’approccio micro-individualista tenti di giustificare la segregazione occupazionale in nome di un orientamento individuale, come se le scelte non fossero influenzate da preconcetti socio-culturali e da tradizioni condivise. La prospettiva macro-istituzionale valica la concezione dell’azione economica quale effetto di comportamenti razionali orientati a massimizzare l’utilità personale, per mettere in evidenza il suo essere embeddedness tra le reti di relazione sociali. Da questo punto di vista il processo di inclusione femminile nel mercato del lavoro è influenzato dalle spinte provenienti dall’ambiente

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istituzionale, sociale e culturale. Condizione confermata dalla pluralità e diversità non solo storica ma anche geografica delle manifestazioni dei profili delle donne nel mercato del lavoro.

59 Genere e pensionamento in Italia

2.1 Introduzione

In Italia il rapporto tra gli anziani e i giovani ha assunto proporzioni notevoli, a favore dei primi, raggiungendo al 1° gennaio 2014 quota 154,1 per cento. La vita media degli italiani è di 84,6 anni per le donne e di 79,8 anni per gli uomini e l’incremento dal 2003 al 2013 è stato rispettivamente di 2,6 anni per gli uomini e di 1,8 anni per le donne. Se analizziamo l’andamento degli ultimi 10 anni in ottica di genere vediamo che si riduce la differenza nella speranza di vita alla nascita fra uomini e donne che raggiunge un valore pari a 4,8 anni; nel 2003 tale differenza era di 5,6 anni (Istat,2015). Particolarmente marcato nei prossimi trenta anni sarà l’aumento del numero di anziani: gli ultra sessantacinquenni, oggi pari al 20,3% del totale, nel 2043 oltrepasseranno il 32%. Dopo tale data la quota di over 65enni si consoliderà intorno al valore del 32-33%, con un massimo del 33,2% nel 2056. Questa trasformazione avrà delle conseguenze sui rapporti intergenerazionali perché l’indice di dipendenza degli anziani (cioè il rapporto tra la popolazione di 65 anni e più e la popolazione in età attiva - 15-64 anni) oggi pari al 30,9% crescerà fino al 59,7% nel 2065. Il risultato dunque sarà: tanti vecchi e tutti assieme. Le caratteristiche del processo di invecchiamento della popolazione possono essere sintetizzate attraverso tre parole: inedito, incisivo e irreversibile (Golini e Rosina, 2011). Inedito perché è un fenomeno nuovo, incisivo perché è un processo che agisce in maniera marcata in tutti i paesi, popolazioni, classi sociali, e famiglie. Il processo di invecchiamento è irreversibile perché la crescita della popolazione anziana nelle società contemporanee è conseguenza diretta del fatto che le persone vivono più a lungo e che si fanno meno figli rispetto al passato. L’Italia si colloca al ventesimo posto tra i Paesi UE28, dove il tasso di fecondità totale è pari a 1,4 figli per donna15.

Il problema principale dell’invecchiamento della popolazione non si trova nei numeri, pur importanti essi siano, quanto nelle conseguenze di questo processo sul sistema socio-economico. Il fenomeno demografico non rappresenta dunque un problema in sé ma può avere importanti ripercussioni sull’identificazione di possibili risposte alle domande che esso genera. I demografi stimano che l’invecchiamento della popolazione subirà un rallentamento solo quando le

15 In un’ottica generazionale, il tasso che assicura a una popolazione la possibilità di riprodursi, mantenendo costante la propria struttura, è pari a 2,1 figli per donna (non semplicemente 2, perché si deve tenere conto della mortalità infantile)

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generazioni nate dopo il 1980 raggiungeranno la soglia della vecchiaia (dal 2045 circa): essendo queste generazioni relativamente meno numerose, se non si dovesse verificare un ulteriore abbassamento del tasso di mortalità, si dovrebbe assistere ad un riequilibrio del flusso in uscita dall’età anziana rispetto a quello in entrata (Zamagni, 2008). L’invecchiamento della popolazione ha innalzato il rapporto fra inoccupati e popolazione attiva ed è superfluo rimarcare dunque, come il relativo squilibrio tra classi economicamente produttive e classi anziane possa mettere a dura prova la sostenibilità dei sistemi pensionistici dei welfare contemporanei. L’obiettivo dello Stato è quello di proteggere la popolazione dai rischi, ma la scelta di quali rischi proteggere e in che modo, è propria di ogni modello nazionale. A livello europeo s’identificano quattro modelli di stato sociale: socialdemocratici, liberali, conservatori e mediterranei. Tale sistematizzazione si ricava incrociando la dimensione dell’equità, intesa come capacità del sistema di mantenere basso il rischio di povertà e dell’efficienza, intesa come capacità del sistema di incoraggiare la partecipazione al lavoro (Sapir, 2005).

Nei prossimi paragrafi, attraverso la ricostruzione analitica della letteratura scientifica sul pensionamento e grazie all’esame delle ricerche empiriche sul tema, prestando particolare attenzione alla situazione femminile, verrà presentata una panoramica delle principali teorie e dei fattori che sono stati identificati come determinanti delle scelte di pensionamento.