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2.5 I fattori istituzionali legati alle scelte di pensionamento

2.5.1 I fattori pull

I fattori pull sono quei fattori che fanno leva sulle preferenze del lavoratore per il tempo libero rispetto al lavoro e spiegano la scelta del pensionamento tramite l’utilizzo di incentivi economici positivi (o ai disincentivi ad offrire lavoro) contenuti nel sistema previdenziale e nei programmi di welfare che attirano il lavoratore fuori dal mercato del lavoro. Secondo questa impostazione i miglioramenti della copertura dei rischi garantita dai sistemi di sicurezza sociale e la più facile accessibilità dei trattamenti pensionistici, unitamente ai vincoli imposti dall’andamento del mercato del lavoro (Zaccaria, 2009), avrebbero influenzato le scelte dei lavoratori e delle lavoratrici, facendoli propendere per l’interruzione anticipata della carriera lavorativa.

Il pensionamento anticipato è un meccanismo pull di regolazione della domanda e dell’offerta di lavoro che può assumere un duplice significato: da una parte rappresenta un’azione politica contro il mercato, data dall’espansione dei diritti sociali in risposta alle oscillazioni dello stesso, dall’altra parte rappresenta un’iniziativa della politica a favore del mercato in quanto consente più facilmente la realizzazione di processi di riorganizzazione economica (Ebbinghaus 2002).

Nel 1952 venne introdotto in Italia il “trattamento minimo di pensione” che erogava ai pensionati con ridotta anzianità contributiva, una pensione minima al fine di garantire un’esistenza dignitosa. Il Dpr 20/1956 introdusse successivamente la possibilità per i e le dipendenti della pubblica amministrazione di ricevere una pensione dopo 25 anni di servizio, ridotti a 20 nel caso di donne coniugate o con figli. Queste sono le “pensioni baby” che più tardi, nel 1973, verranno ulteriormente accorciate portando gli anni di contribuzione a 20 per gli uomini, 15 per le donne e 25 per i dipendenti degli enti locali. La normativa, definita come “la più vistosa anomalia del sistema pensionistico italiano” (Ferrera, 2012) è stata estremamente favorevole alle donne ed ha permesso allo Stato di evitare di affrontare il problema dei servizi di cura per minori ed anziani perché è grazie a queste pensioni che molte donne sono state in grado di “servire la comunità”; la norma, in vigore fino al 1992, confermava infatti il ruolo della donna come moglie, madre e figlia a servizio della famiglia e della società. Sempre nel 1956 furono

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introdotte le pensioni di anzianità per i dipendenti pubblici e il sistema di calcolo retributivo e nel 1965, con la legge n.903, le pensioni di anzianità vennero estese anche ai e alle dipendenti del settore privato, con 35 anni di anzianità lavorativa indipendentemente dall’età raggiunta. Per quanto riguarda il regime della pensione di anzianità, non esistono differenze di genere ma è bene sottolineare che alcuni regimi speciali (c.d. esclusivi) come quelli del pubblico impiego o quello dei dipendenti di enti locali, prevedevano requisiti di anzianità inferiori a quello generale dell’INPS e più bassi per le donne coniugate e con prole. Si trattava di norme considerate generalmente a favore delle donne, in relazione alla funzione familiare. Nel 1992 le pensioni baby, ritenute uno dei fattori principali della crisi finanziaria, sono state eliminate con la fusione dei regimi pensionistici introdotta dal decreto legislativo n. 503 che ha equiparato regimi speciali e regime generale riguardo al requisito dei 35 anni di contribuzione e ha introdotto il requisito di età anagrafica pari a 57 anni per la pensione di anzianità. L'introduzione delle pensioni di anzianità ha avuto conseguenze a lungo termine sul sistema pensionistico italiano perché la riduzione dei requisiti di contribuzione si è tradotto in un gap tra contributi versati e prestazioni erogate; inoltre le diverse regole introdotte tra le differenti categorie di lavoratori aumentano la frammentazione del sistema, con ovvie conseguenze in termini di equità tra le generazioni. Nel 1995 la legge 335 (articolo 1 comma 40) ha introdotto per le donne la possibilità di riscattare il periodo di astensione facoltativa dal lavoro per maternità per poter conseguire il trattamento previdenziale prima del previsto. I periodi di accredito figurativo vengono riconosciuti:

a) per assenza dal lavoro per periodi di educazione e assistenza dei figli fino al sesto anno di età in ragione di 170 giorni per ciascun figlio;

b) per assenza dal lavoro per assistenza a figli dal sesto anno di età, al coniuge e al genitore purché conviventi, nel caso ricorrano le condizioni previste dall'articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n 104, per la durata di 25 giorni complessivi l'anno, nel limite massimo complessivo di ventiquattro mesi;

c) a prescindere dall'assenza o meno dal lavoro al momento del verificarsi dell'evento maternità, è riconosciuto alla lavoratrice un anticipo di età rispetto al requisito di accesso alla pensione di vecchiaia pari a quattro mesi per ogni figlio e nel limite massimo di dodici mesi. In alternativa la lavoratrice può scegliere per la determinazione dell’assegno pensionistico attraverso l’applicazione del moltiplicatore relativo all'età di accesso al trattamento pensionistico,

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maggiorato di un anno in caso di uno o due figli e maggiorato di due anni in caso di tre o più figli. La legge citata permette alle lavoratrici madri di anticipare l’età pensionabile di 4 mesi per ogni figlio dato alla luce per un massimo di 12 mesi, quindi se una lavoratrice ha 3 figli potrà anticipare il pensionamento di un anno al massimo. Il beneficio è limitato alle lavoratrici che hanno l’assegno calcolato interamente con il metodo contributivo e che quindi hanno iniziato a lavorare dopo il 1 gennaio 1996. Le mamme lavoratrici che hanno iniziato a lavorare prima del 1 gennaio 1996 possono usufruire del beneficio soltanto in due casi:

➢ nel caso che esercitino la facoltà di opzione al sistema contributivo, che può essere

esercitata se si possiede un’anzianità contributiva inferiore ai 18 anni al 31 dicembre 1995 o se si possiede un’età contributiva superiore ai 15 anni di cui almeno 5 successivi al 31 dicembre 1995;

➢ o nel caso in cui le lavoratrici esercitino la facoltà di computo16 nella gestione separata che

determina il passaggio al calcolo contributivo anche della contribuzione versata prima del 1 gennaio 1996 (Inps, 2016).

Restano escluse le lavoratrici che esercitano l’opzione donna poiché tale opzione non comporta un passaggio totale al contributivo: con l’opzione donna l’assegno giuridicamente rimane nel sistema misto mentre il suo calcolo avviene con il sistema contributivo. I contributi figurativi possono essere accreditati anche per i periodi maternità che si sono verificati al di fuori di un rapporto di lavoro. Questa possibilità è stata introdotta dall’art. 14, comma 3, del Decreto Legislativo 30.12.1992, n. 503 ma era limitata agli eventi che si fossero verificati successivamente al 1.1.1994. Il Decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 ha introdotto la possibilità di riconoscere i periodi di maternità intervenuti al di fuori del rapporto di lavoro a condizione che la lavoratrice possa far valere almeno 5 anni di contributi versati per attività lavorativa subordinata. Da un punto di vista dell’analisi dei fattori pull, è evidente che la possibilità di andare in pensione in anticipo rispetto al regime ordinario, rappresenta un forte elemento di attrazione per l’uscita dal mercato del lavoro. L’uscita dal mercato del lavoro prematura è stata utilizzata come strumento per contenere la disoccupazione e per ridurre gli effetti delle ristrutturazioni industriali. Il prepensionamento ha avuto dunque una triplice

16 Strumento normativo per riunire gratuitamente tutti i contributi sparsi nelle altre gestioni della previdenza pubblica obbligatoria al fine di conseguire un'unica prestazione pensionistica.

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connotazione ovvero quella di “disoccupazione nascosta”17, di “espulsione” e di “dis-welfare”

(Kolberg e Hagen 1992).

Riprendendo il concetto di “disoccupazione nascosta” introduciamo gli altri fattori pull che hanno contribuito maggiormente all’affermazione di fasi intermedie tra lavoro e pensione di vecchiaia ovvero le pensioni di invalidità e i provvedimenti di compensazione della disoccupazione. Le pensioni di invalidità sono diventate il meccanismo più diffuso per regolare le uscite anticipate. Dagli anni ’70, le pensioni di invalidità sono state utilizzate con finalità assistenziali, sostituendo i sussidi di disoccupazione e altri strumenti di sostegno del reddito. Attraverso la concessione di pensioni di invalidità viene dato sostegno ai lavoratori dell’agricoltura, ai cittadini delle aree meno sviluppate e a quelli con storie contributive modeste. In quel periodo, i trattamenti di invalidità rappresentavano il 40% delle nuove pensioni per i dipendenti del settore privato e il 70% delle pensioni per i lavoratori autonomi (Franco, Marè 200). Questo sviluppo ha sollevato vari problemi in termini di controllo della spesa e di effetti redistributivi non desiderati. La disabilità è stata tradizionalmente un parametro di ammissibilità al pensionamento anticipato perché attraverso lo status di inattività, ridefinito al di là di condizioni relative alle limitazioni fisiche attraverso l’inclusione di criteri relativi all'età e all'obsolescenza delle competenze, è stata introdotta l’incapacità di lavorare come criterio determinate la bassa occupabilità dei lavoratori e delle lavoratrici definita da situazioni di peggioramento nel mercato del lavoro. La legge n. 222 del giugno 1984 attua la riforma delle pensioni di invalidità cancellando qualsiasi riferimento ai fattori socio economici e stabilendo che la prestazione è garantita a coloro “la cui capacità di lavoro, in occupazioni confacenti alle sue attitudini, sia ridotta in modo permanente a causa di infermità o difetto fisico o mentale” (Comma 1 L.222/1984). Il terzo elemento da sottolineare per quanto riguarda i percorsi di uscita anticipata dal mercato del lavoro si riferisce ai sussidi di disoccupazione, ovvero alla Cassa Integrazione Guadagni (CIG cassa integrazione) e allee liste di mobilità. Si tratta di strumenti di sostegno al reddito con tassi di sostituzione fino all'80% dello stipendio per i lavoratori in esubero in alcuni settori produttivi (industria) e i dipendenti all'interno di alcune aziende (grandi imprese). La Mobilità arriva alla fine della CIG e va solo ai lavoratori coinvolti nei licenziamenti collettivi. Può servire come ponte per la pensione, in particolare per i lavoratori oltre i 50 anni. In questo caso si tratti di un "assegno di mobilità lunga", istituito dalla L.223/91,

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che estende il termine della mobilità "ordinaria" al fine di consentire un dipendente di acquisire il diritto alla pensione.

L'estensione dura fino al giorno prima della data effettiva di pensionamento. I sussidi di disoccupazione sono una via relativamente attraente per uscire dal mercato del lavoro. La scelta di se e quanta assistenza debba essere finanziata all’interno del sistema pensionistico a ha che fare con importanti questioni macro-economiche. Se si dovesse decidere di garantire livelli minimi di pensione ai lavoratori con un’inadeguata storia contributiva si dovrebbero aumentare i contributi previdenziali, ridurre le prestazioni oppure combinare queste due misure. La legge 335/95 ha garantito pensioni corrispondenti, in senso attuariale, a una aliquota di prelievo sul salario ed ha chiesto al lavoratore di rimunerare, attraverso i contributi, le pensioni assistenziali. Questa legge ha costruito una rigorosa separazione tra previdenza e assistenza ed ha garantito prestazioni pensionistiche troppo elevate in relazione ai vincoli derivanti dalla competitività internazionale che imporrebbero una riduzione del prelievo obbligatorio sul salario, e alle possibilità di reperire, da fonti diverse dalla contribuzione obbligatoria sul lavoro, risorse finanziarie sufficienti per un trattamento adeguato dei redditi minimi negli anni della vecchiaia (Giarda 1998). La scelta di concentrare le risorse sulle pensioni è stata da un lato agevolata dalla presenza di strutture familiari che redistribuiscono risorse fra individui in posizioni fortemente differenziate sul mercato del lavoro (Ferrera, 1996) e dall’altro da un sistema fiscale che non garantisce valutazioni adeguate dei redditi diversi da quelli da lavoro dipendente. Ciò contribuisce all’uso delle pensioni di invalidità prima e di quelle di anzianità poi quale sostituto di specifiche prestazioni di carattere assistenziale o di disoccupazione. La massiccia diffusione di questi dispositivi di pre-pensionamento ha fatto sì che “l’esclusione dal mercato del lavoro di quote massicce di individui a fine carriera fosse considerata una soluzione socialmente accettabile in risposta a momenti di crisi economica e alla necessità di lasciare spazio ai giovani in ingresso. Altresì ha contribuito a rendere sempre più indefinito il legame tra le caratteristiche delle carriere individuali di lavoro e la durata e qualità del pensionamento: in altri termini, l’uscita dal mercato del lavoro corrisponde all’ingresso in un periodo, che può durare molti anni, in cui un individuo è messo nelle condizioni di beneficiare di un sostegno sociale, peraltro slegato dall’apporto lavorativo e contributivo dato, pur potendo continuare a mantenersi attivo nel mercato del lavoro” (Garavaglia, 2014:114).

77 2.5.2 I fattori push

I fattori push sono legati al cambiamento strutturale, alle condizioni di lavoro, e alle caratteristiche individuali dei lavoratori (paragrafo 2.6). L'assioma alla base del modello push è che se la gente potesse scegliere, preferirebbe lavorare piuttosto che lasciare il mercato del lavoro (Jensen, 2005). L’approccio pull afferma il primato delle circostanze negative (cattive condizioni di salute, limitate opportunità del mercato del lavoro, etc.) sul pensionamento anticipato rispetto a considerazioni di carattere finanziario (Radl, 2013). Dal punto di vista push, l'uscita precoce può essere interpretata come esclusione dal mercato del lavoro associato a una perdita di benessere, ovvero a una diminuzione di reddito e di status (Jensen, 2005); i fattori push abbracciano tre dimensioni:

- a livello individuale, l’uscita può avvenire a causa di cattive condizioni di salute, o di mancanza di competenze che riducono la capacità produttiva;

- a livello aziendale, l’uscita avviene per necessità produttive (lavoratori in esubero); - a livello di mercato del lavoro, l’espulsione dei lavoratori più anziani si verifica perché

questi, una volta che diventati disoccupati, hanno difficoltà ad essere reintegrati nel sistema produttivo.

Il cambiamento strutturale del mercato del lavoro, la crescente competizione internazionale e la dismissione di interi settori produttivi hanno innescato, a partire dal 1970 (a causa del calo della domanda di operai tradizionali) processi di uscita dal mercato del lavoro verso il pensionamento dei lavoratori più anziani (spesso con l’istituto del prepensionamento). A causa della mancanza di una tradizione di formazione permanente e della predominanza di rigidi confini professionali, la riqualificazione di questi lavoratori non è stata un'opzione realistica (Rinklake e Buchholz, 2012). Inoltre, i datori di lavoro hanno dimostrato poco interesse per la formazione dei lavoratori più anziani considerando il breve periodo di tempo che questi sarebbero rimasti nel mondo del lavoro, preferendo ridurre i costi e mandando i lavoratori in pensionamento. Di conseguenza, gli individui meno istruiti e i lavoratori poco qualificati sono stati spinti fuori al mercato del lavoro (Flynn et al., 2013).

I fattori push si riferiscono dunque a quei processi che spingono il lavoratore, suo malgrado, ad uscire dal mercato del lavoro. I politici, i datori di lavoro e i sindacati hanno utilizzato il prepensionamento come strumento di politica passiva e come strategia socialmente

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accettabile per alleggerire il mercato del lavoro in un momento in cui i processi di deindustrializzazione e di ristrutturazione economica - vale a dire il graduale passaggio da un'economia industriale ad un'economia di servizi - hanno colpito i lavoratori più anziani, che rappresentavabo una quota sproporzionata nei settori in declino. Varie analisi suggeriscono infatti una relazione tra ridimensionamento nei settori di cui sopra e il prepensionamento. Tuttavia, queste spiegazioni sostengono la fase iniziale del pensionamento anticipato, ma non spiegano il suo sviluppo a lungo termine (Ebbinghaus, Hofacker 2013). Questi strumenti sono stati additati come "welfare whitout work " da Esping-Andersen (1996) o come "dilemma continentale" da Scharpf (2001). L'uscita anticipata dal lavoro in risposta alla crescente disoccupazione ha aumentato la spesa sociale passiva e questo a sua volta ha aumentato il costo del lavoro che ha spinto ancora di più i dipendenti fuori dal mercato del lavoro (Hess 2016). Le politiche di pensionamento anticipato, soprattutto nei paesi dell'Europa continentale e meridionale a differenza dei paesi nord europei, sono sopravvissute alle crisi economiche e hanno continuato ad essere attuate anche nei successivi momenti di ripresa economica, in tal modo le uscite anticipate sono state scollegate dal ciclo economico e trasformate in "regimi di uscita anticipata” (Hofacker 2010; 2013).

Da questo punto di vista il prepensionamento può essere interpretato come un’esclusione che comporta un abbassamento del livello di benessere causato della perdita di reddito, status, e autostima. Non esiste una netta linea di demarcazione tra i fattori di spinta e attrazione poiché spesso sono condizionati dal contesto e dalla percezione dell’individuo. Occorre peraltro ricordare, come sottolineato anche da Denton e Spencer, che non esistono definizioni comunemente accettate sul concetto di pensionamento e ciò è particolarmente vero quando il pensionamento avviene continuando a svolgere un’attività lavorativa. L’abbandono graduale (gradual retirement) del mercato del lavoro può assumere essenzialmente due forme: pensionamento progressivo (phased retirement) o pensionamento parziale (partial retirement). Nel primo caso la transizione al pensionamento avviene attraverso la riduzione del numero di ore prestate senza cambiare datore di lavoro, nel secondo caso cambia il datore di lavoro o avviene il passaggio ad un’occupazione autonoma che porta alla riduzione delle ore di lavoro e/o a un minor guadagno. Quando nella decisione di pensionamento predominano i fattori push rispetto a fattori pull la percezione di volontarietà nella scelta si riduce (Shultz et al., 1998) e le chance di adattamento nella nuova condizione di pensionato sono meno elevate (Hanisch, 1994). L’età ha rappresentato un importante fattore di discriminazione in relazione alla partecipazione al mercato del lavoro, specialmente per le donne. Dalla metà degli anni '70 e nel corso degli anni

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'80, la crisi economica che ha colpito l’Italia ha causato la stagflazione a lungo termine, l’aumento del debito pubblico e crescenti livelli di disoccupazione derivanti dall’utilizzo della cassa integrazione nelle grandi imprese. Queste trasformazioni hanno avuto molteplici effetti sulla struttura occupazionale della popolazione perché le innovazioni in termini di organizzazione del lavoro hanno espulso i lavoratori anziani meno produttivi e qualificati (Mingione e Pugliese 2004). Le analisi relative alla transizione verso la pensione delle donne, soprattutto negli anni ’70 e ’80 sono molto limitate perché il pensionamento anticipato ha coinvolto i lavoratori di sesso maschile, dal momento che le misure adottate per favorire l’uscita anticipata hanno avuto l’impatto maggiore sui settori in cui la presenza femminile era scarsa (OECD 1995b). Ciò si deve soprattutto al fatto che tali schemi erano volti a fronteggiare situazioni di particolarmente gravi che affliggevano il mercato del lavoro in alcuni settori, come l’industria metalmeccanica, in cui la presenza femminile era minima. Le donne sono soggette al rischio di diventare inattive più che pensionate perché sperimentano periodi di inattività e di interruzione lavorativa maggiori rispetto agli uomini; le carriere intermittenti rendono più difficile per le donne raggiungere i requisiti di anzianità necessari al pensionamento anticipato. Negli anni ’70 il divario nel rapporto tra il tasso di uscita maschile e quello femminile era ampio ed è diminuito solo nel corso degli anni ’80 non perché il tasso di uscita delle donne fosse diminuito ma perché quello degli uomini ha subito un incremento più marcato; verso la fine degli anni ’80 si è registrato un lieve calo delle uscite anticipate delle donne. Secondo Honig (1998) le decisioni di pensionamento delle donne sono state influenzate, soprattutto negli anni ’70 e ’80, dalle condizioni di pensione e di salute dei mariti, fattori cruciali per misurare il valore del cosiddetto “non-market time” che è strettamente legato al concetto di qualità della vita, mentre scarso peso avevano i fattori di natura economica, legati a eventuali cambiamenti nell’ammontare previsto della propria ricchezza pensionistica. Questo ha provocato una sorta di tensione per quelle lavoratrici che vedono la transizione verso la pensione come uno strumento necessario per fronteggiare i carichi di cura familiari a scapito dei desideri di autodeterminazione e realizzazione nel mercato del lavoro (Abburrá e Donati 2008).