Marco Romano, in accesa polemica con 1 'Isti tuto Nazionale di Urbanistica, sostiene che Adriano Olivetti esercitò una cattiva influenza rendendo gli architetti e gli urbanisti "depo sitari della felicità umana".
Il suo modo di costruire un progetto poli tico partendo da un modello-obiettivo, definito anche fisicamente, è in conflitto con la manie ra attuale di pensare l'azione politica, sicché la figura stessa di Adriano Olivetti viene reinterpretata perché in qualche modo anch'essa la legittimi o almeno non la sconfessi. Ecco allora emergere il ritratto, per alcuni di noi nuovo, di un grande e moderno manager indu striale con un gusto per la politica forse goffo e dilettantesco e con una forte inclina zione verso ideologie "utopistiche".
Stiamo qui assistendo, in questa stessa sala, in molti degli interventi che mi hanno preceduto, nel discorso di Visentini, ad una operazione culturale entro la quale la figura di Adriano Olivetti viene deliberatamente rein terpretata per attenuarne i conflitti e sotto linearne invece le affinità con i modi di con cepire e di fare la politica di oggi. Anche questa è operazione legittima, è anzi forse il motivo per il quale si scrivono le storie: ma dobbiamo essere tutti pienamente consapevo li di questo lavorio di reinterpretazione, non possiamo lasciarcelo passare sulla testa
senza accorgercene o, peggio, facendo finta di niente.
La questione che vorrei portare alla ribal ta riguarda gli effetti del pensiero di Olivet ti .
Lamentava Zorzi che "Olivetti è passato e non ha lasciato quasi nessuna traccia, le sue erano idee generose che non sono state recepite e non hanno avuto seguitò". Può essere che le conseguenze visibili - le comunità rea lizzate - siano poche, ma vi sono altre influenze in apparenza meno misurabili, ma non per questo meno rilevanti, da prendere in considerazione: per esempio la formazione di un indirizzo cultu rale, di un modo di pensare (non è questo del resto il modo di valutare il peso degli intel lettuali?). E Olivetti ha avuto un'influenza fortissima nei modi di fare e di pensare l'urba nistica nel nostro paese, ancora oggi dominante.
Il fatto è che se l'ambiente era il proget to sociale centrale, l'urbanistica, l'arte di disegnare il territorio, era contempora neamente progetto della felicità umana, e diven tava la disciplina depositaria del modo di rendere gli uomini felici, mentre gli urbani sti non erano un ceto professionale ma una categoria di demiurghi capace di plasmare dalle condizioni fisiche e dalle altre discipline (per definizione "minori") il mondo meraviglio so.
Non esiste nessun altro ramo della tecni ca i cui cultori abbiano la curiosa presunzione di essere depositari della' felicità umana; anche se questa stessa inclinazione è rintrac ciabile in alcuni urbanisti stranieri nel dopo-159
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guerra, essa si è andata completamente perdendo nel corso degli Anni Cinquanta. Invece in Italia la scuola di Olivetti, che vuol dire l'Istitu to Nazionale di Urbanistica, ha formato una generazione di urbanisti che percorrono gli Anni Sessanta e Settanta ritenendo che il loro mestiere sia il tramite attraverso il quale si realizza la felicità degli uomini.
La prima conseguenza di questo atteggiamen to è stata che gli urbanisti, in quanto depo sitari delle tavole della felicità, sono usciti dal processo della storia; hanno interpretato cioè quanto accadeva nel paese negli ultimi vent'anni soltanto nei termini del suo rapporto con le immodificabili tavole della felicità: il progresso sociale si misurava così in termini di successivo avvicinamento al modello ideale posto dalla disciplina. L'evoluzione dei biso gni e della domanda sociale non sono stati quindi accolti come uno stimolo a cercare nuo vi modelli di organizzazione del territorio, a modificare le tavole, ma piuttosto ignorati per evitare di dover rimettere in discussio ne il principio stesso secondo il quale esi ste un rapporto fisso tra ambiente e felicità (perché se il rapporto non è fisso anche il migliore degli ambienti potrebbe diventare, per il modificarsi del sociale, obsoleto e repellente).
La seconda conseguenza, che discende da questo atteggiamento di negazione della dialet tica storica, è di non avere considerato neces sario un attento lavoro di aggiornamento di sciplinare, perché una concezione dei rapporti tra urbanistica e sociale fissata una tantum
non poteva implicare una flessibilità nel tempo. Gli strumenti tecnici e concettuali dell'urba nistica sono quindi rimasti rigidamente i me desimi anche quando i problemi posti dall'esi genza di controllare le trasformazioni terri toriali sono diventati molto più complessi e più difficili di quanto non fossero i tempi di Olivetti, ed imponessero quindi l'uso di strumenti intrinsecamente molto più flessibili.
Queste due conseguenze sull'evoluzione disciplinare della pesante influenza di Adriano Olivetti hanno avuto effetti concreti rilevanti. Quando la situazione politica è diventata più favorevole a che le prospettazioni degli urba nisti trovassero un'attuazione, quando cioè cinque anni fa i partiti della sinistra hanno conquistato il governo in alcune delle più grandi città italiane ed in alcune regioni, le nuove amministrazioni si sono trovate nella quasi totale incapacità di governare il processo di trasformazione delle città e del territo rio a causa della mancanza di strumenti disci plinari aggiornati. Come si vede da questa idea di Olivetti, della priorità dell'ambiente fisi co, è scaturita una interpretazione dell'urba nistica che ha profondamente condizionato e condiziona l ’operare degli urbanisti stessi, dei politici, dei governi.
Questa osservazione può apparire critica nei confronti di Olivetti, ed è certamente critica del fatto che gli urbanisti non siano stati in venti anni capaci di liberarsi della coltre ideologica buttatagli addosso da Adriano, ovviamente in vent'anni invecchiata fino al punto di compromettere la capacità di gestione
progressista del territorio delle stesse ammi nistrazioni di sinistra. Non necessariamente critica nei confronti di Adriano Olivetti nel suo tempo: essa se non altro testimonia al contrario per i più giovani tra noi, la grande forza e capacità di convincimento ideologico che quest'uomo deve aver avuto allora nel no stro pqese.