Dall'intervento di Gianfranco Eddone.
L'unitarietà di tutto il pensiero di Adriano Olivetti è da ricercare nell'unitarietà fondamentale della sua esperienza, essa è costituita da una molteplicità veramente grande di linee d'intervento, che però si possono ricondurre all'asse principale costituito dalla "fabbrica", origine prima di tutta una serie di oggettive contraddizioni, sia interne alla fabbrica stessa che esterne, soprattutto nell'ambito del territorio in cui la fabbri ca esisteva. Adriano Olivetti, consapevole di que ste contraddizioni, tentò di elaborare alcune ipo tesi di riequilibrio pur considerando tali con traddizioni oggettive e connaturate con lo svilup po industriale e quindi positive perché creative di un nuovo ordine: erano contraddizioni che nascevano dallo sviluppo industriale, dal superamento degli aspetti più arretrati dell'eco nomia contadina. Erano contraddizioni che scaturivano- da tutta una serie di attività che determinavano oggettivamente anche un progresso e un maggior sviluppo economico e sociale del territorio, mai conosciuto fino ad allora.
Direi quindi che i filoni di studio di Adriano Olivetti e la sua attività pratica sono proprio da ricondurre a questo elemento fondamentale: l'emergere delle contraddizioni determinate dallo sviluppo industriale, sia
all'interno che all'esterno dell'azienda. All'interno dell'azienda le problematiche s'incentravano nello studio dell'organizza zione del lavoro, in particolare sugli effetti del lavoro meccanico ripetitivo. All'esterno, invece, l'azione di studio e d'intervento riguardava l'incidenza che la nascita di una grande azienda determinava su di un territorio di dimensioni abbastanza circoscritte, com'era il Canavese, e come questo sviluppo potesse provocare una serie di tensioni nell'equili brio fino ad allora raggiunto.
Abbiamo sentito in più occasioni citare la volontà di Adriano Olivetti, a questo proposito, di evitare che allo sviluppo rapido dell'azienda seguisse il costituirsi di grosse e. disorganiche concentrazioni urbane, grosse relativamente al Canavese. Da ciò il tentativo di mantenere i lavoratori legati alle origina rie residenze in modo da consentire un rapporto, il più equilibrato possibile, con la campagna e con le attività produttive preesistenti.
La realtà sociale e umana dei lavoratori, duramente condizionata dalle contraddizioni di questo sviluppo, nonostante le linee teoriche e la prassi concreta che Adriano Olivetti intendeva percorrere, non erano certo annullate. Basta solo fare un esempio: l'organizzazione del lavoro in fabbrica, l'introduzione del taylorismo e la meccanizzazione. Adriano Olivetti credo ne fòsse perfettamente consapevole, lo ha lasciato scritto in modo così chiaro da far dire persino che avesse un senso di colpa per la disumanità dell'organizzazione del lavoro industriale.
L'organizzazione del lavoro in fabbrica fu, d'altra parte, uno dei settori di cui Adriano Olivetti si interessò maggiormente; emerge da alcune sue iniziative il tentativo di ridurre gli elementi più negativi insiti nella meccanizzazione. Però, è d'altra parte incontestabile che la meccanizzazione, negli anni di Olivetti, ebbe la maggior spinta, sia nel settore della produzione dei particola ri (officine) sia nei settori dei montaggi.
Spesso ci si sofferma, anche in questi anni, soprattutto sui problemi dei montaggi ripetitivi, visti come fatto particolarmente stressante e disumano; forse pochi si sono soffermati invece sull'attività di produzione d'officina effettuata con sistemi meccanizzati semi-automatici. Basta pensare a certe operazio ni che si facevano all'Olivetti fino a qualche anno fa (e che si continuano a fare in molte altre aziende) come la ribaditura e la trancia tura dei particolari; queste operazioni venivano eseguite con frequenze elevatissime, anche una fase ogni due, tre secondi, con manovre ripetitive sempre uguali, collegate stretta- mente alla macchina. - Questo era il tipo di ambiente, di situazione umana, in cui "consuma vano" la loro vita molti lavoratori dell'epoca di Adriano Olivetti. Questa permanenza di contraddizioni, oggettive perché la logica del sistema produttivo era quella, inserita in un sistema di mercato avente precise esigen ze, determinava logicamente rapporti di contra sto e di conflitto tra le forze politiche della sinistra, che rappresentavano una buona parte dei lavoratori, e il movimento che si
zione che le vede impegnate nel consolidamento, oltre che politico-ideologico, anche delle proprie strutture, difficoltà aggravate dalla crisi del '48 e da alcuni avvenimenti locali (come il continuo avvicendamento dei dirigenti e il fallimento della cooperativa di consumo).
Come bene si evidenzia dai giornali locali dell'epoca, la politica e l'organizzazione del sindacato e del partito si sviluppano, in un processo, centripeto che permarrà nel tempo, in fabbrica piuttosto che nel territo rio. E' appunto alla Olivetti che nel dopoguerra vengono portate avanti le prime rivendicazioni : senza difficoltà, ma anzi in sostanziale accor do con la Direzione, vengono concordati soprat tutto miglioramenti salariali. Lo scontro di maggior rilievo che nasce alla fine degli Anni Quaranta, quello sulla creazione del Consiglio di gestione (fortemente osteggiato dai comunisti e sul quale mostra notevoli perplessità anche il comitato coordinatore dei c.d.g. di Torino) appare più un riflesso della generale ripresa della politicizzazione del conflitto (e della conseguente funzione politica degli strumenti di lotta) che un momento del dibattito sindacale aziendale. Si pensi per esempio all'uso che si fa della Commissione interna.
Già all'inizio del '50 il clima di tranquil lità aziendale comincia ad incrinarsi: Adriano ha creato il Movimento Comunità, con le caratte ristiche che conosciamo; le organizzazioni operaie appaiono. ancor più interessate da quegli eventi che a livello nazionale coinvolgo no tutta la sinistra, costretta ormai a non
frapporre indugi né illusioni al pròprio raffor zamento, operato mediante uno schematico rigore polìtico ed ideologico che ne compromette gravemente anche il livello di analisi teorica.
Per buona parte degli Anni Cinquanta, mentre le discipline sociali vengono a costituire - come dimostra il caso della Olivetti - anche uno strumento di valido supporto ai processi di accumulazione, l'analisi del PCI e della CGIL, non cogliendo gli elementi di peculiarità di quello che si va definendo come uno svilup po neocapitalista, resta dipendente da una visione meccanicistica e fatalistica dello sviluppo stesso. Come alcuni intellettuali avvertiti già in questo periodo sottolineano (si pensi a Franco Fortini e Roberto Guiducci), il ritardo con il quale il dibattito affronta l'indagine tecnico-scientifica e sociologica riduce il movimento operaio in una posizione di subalternità nella cultura e nella strategia politica.
La sottovalutazione dei mutamenti dell'or ganizzazione del lavoro, della modifica della struttura di classe, del carattere articolato della politica imprenditoriale, ancora le lotte sindacali a battaglie generali (vedi il Piano del lavoro o il conglobamento) che per questo loro carattere non tengono tuttavia conto della specifica realtà di fabbrica ma anzi concedono spazio a manovre corporative e scissionistiche.
Come altrove anche alla Olivetti questo impianto teorico generale dell'analisi informa la politica sindacale che nella prima metà del decennio resta legata alla contrattazione
del salario, nella sostanziale attesa del superamento del capitalismo. Aumento del cotti mo, lotta al taglio dei tempi, all'intensifica zione dello sfruttamento e alla figura dell'al lenatore, sono i terreni sui quali la CGIL si scontra in questi anni con la Direzione, riportandone delle vittorie molto parziali ch'e si sostanziano il più delle volte nella monetizzazione dei ritmi più faticosi e delle lavorazioni più nocive. Appare quindi con maggiore evidenza nel caso della Olivetti come la pressione padronale (qui inesistente) non sia che una delle componenti della sconfit ta operaia degli Anni Cinquanta: inadeguatez za teorica e politica spiegherebbero perciò, quale causa piuttosto che come effetto - come è stato osservato anche dal dibattito più recente - la crisi sindacale di questo periodo.
Di tale causa, oltre che nel socialismo municipalista di Olivetti, si alimenta anche Autonomia Aziendale. Mentre la sinistra storica avvia il proprio faticoso recupero, il sindaca to aziendale si propone quale forza dinamica, sganciata da troppo pesanti ipoteche teoriche, fautrice di un partecipazionismo resa estrema- mente attuale dall'aderenza alla realtà di fabbrica e ai mutamenti dei processi produtti vi. Il calo della tensione di classe che questa forza determina permette una gestione collabora tiva di importanti accordi, come quello sulla riduzione d'orario e quello sulla job evaluation,
nonché dell'articolazione degli aumenti salaria li attraverso la partecipazione agli utili. A contrastare questa egemonia che, dunque, è anche culturale (e si veda, non casuale,
il legame tra intellettuali del Movimento Comunità e intellettuali della "terza forza" che pure in questi anni sollecitano uno svecchia mento teorico della sinistra) non può ancora intervenire il sindacato socialcomunista. Il dibattito teorico e politico che comincia a prendere corpo nel 1953-54 (si veda a questo proposito l'importante funzione svolta dal "Contemporaneo") si svilupperà appieno solo dopo i congressi della CGIL (marzo 1956) e del PCI (dicembre 1956), sollecitato anche dalla "crisi delle ideologie" conseguente al XX Congresso del PCUS. Da questo momento, come un esame dei programmi per le elezioni della Commissione interna dal 1956 al 1961 permette di notare, anche la strategia sindaca le della FIOM del Canavese si fonda via via su una teorizzazione più complessa ed articolata: la diversificazione delle coordinate del rappor to di sfruttamento capitalistico (monopoli ed aree arretrate) porta ad individuare la presenza di una ristretta fascia di aristocra zia operaia che può avere una funzione di guida della lotta solo rivendicando un controllo democratico sui monopoli una conoscenza appro fondita di tutti gli elementi del processo lavorativo. Come già a livello nazionale in tutti gli interventi del Partito Comunista sul progresso tecnico (tra cui i convegni del luglio '56 e del novembre '57) è venuto in evidenza, il fondamento per tradurre quest'ul timo in progresso sociale appare la negazione del l 'inevitabilità della stagnazione capitali stica, ma soprattutto la scissione della base "oggettiva" dall'aumento produttivo (nuove
del salario, nella sostanziale attesa del superamento del capitalismo. Aumento del cotti mo, lotta al taglio dei tempi, all'intensifica zione dello sfruttamento e alla figura dell'al lenatore, sono i terreni sui quali la CGIL si scontra in questi anni con la Direzione, riportandone delle vittorie molto parziali ch'e si sostanziano il più delle volte nella monetizzazione dei ritmi più faticosi e delle lavorazioni più nocive. Appare quindi con maggiore evidenza nel caso della Olivetti come la pressione padronale (qui inesistente) non sia che una delle componenti della sconfit ta operaia degli Anni Cinquanta: inadeguatez za teorica e politica spiegherebbero perciò, quale causa piuttosto che come effetto - come è stato osservato anche dal dibattito più recente - la crisi sindacale di questo periodo.
Di tale causa, oltre che nel socialismo municipalista di Olivetti, si alimenta anche Autonomia Aziendale. Mentre la sinistra storica avvia il proprio faticoso recupero, il sindaca to aziendale si propone quale forza dinamica, sganciata da troppo pesanti ipoteche teoriche, fautrice di un partecipazionismo resa estrema- mente attuale dall'aderenza alla realtà di fabbrica e ai mutamenti dei processi produtti vi. Il calo della tensione di classe che questa forza determina permette una gestione collabora tiva di importanti accordi, come quello sulla riduzione d'orario e quello sulla job evaluation,
nonché dell'articolazione degli aumenti salaria li attraverso la partecipazione agli utili. A contrastare questa egemonia che, dunque, è anche culturale (e si veda, non casuale,
il legame tra intellettuali del Movimento Comunità e intellettuali della "terza forza" che pure in questi anni sollecitano uno svecchia mento teorico della sinistra) non può ancora intervenire il sindacato socialcomunista. Il dibattito teorico e politico che comincia a prendere corpo nel 1953-54 (si veda a questo proposito l'importante funzione svolta dal "Contemporaneo") si svilupperà appieno solo dopo i congressi della CGIL (marzo 1956) e del PCI (dicembre 1956), sollecitato anche dalla "crisi delle ideologie" conseguente al XX Congresso del PCUS. Da questo momento, come un esame dei programmi per le elezioni della Commissione interna dal 1956 al 1961 permette di notare, anche la strategia sindaca le della FIOM del Canavese si fonda via via su una teorizzazione più complessa ed articolata: la diversificazione delle coordinate del rappor to di sfruttamento capitalistico (monopoli ed aree arretrate) porta ad individuare la presenza di una ristretta fascia di aristocra zia operaia che può avere una funzione di guida della lotta solo rivendicando un controllo democratico sui monopoli una conoscenza appro fondita di tutti gli elementi del processo lavorativo. Come già a livello nazionale in tutti gli interventi del Partito Comunista sul progresso tecnico (tra cui i convegni del luglio '56 e del novembre '57) è venuto in evidenza, il fondamento per tradurre quest'ul timo in progresso sociale appare la negazione d e l l 'inevitabilità della stagnazione capitali stica, ma soprattutto la scissione della base "oggettiva" dall'aumento produttivo (nuove
tecniche di lavorazione) dall'utilizzazione soggettiva, padronale di essa che si traduce in aumento dello sfruttamento.
Nello specifico dell'azione sindacale tale scissione significa la contrattazione di tutti gli elementi del processo produttivo (organici, categorie, tempi, ecc.), la lotta per una generale riduzione d'orario e per una retribuzione collegata agli incrementi della produttività dovuti al progresso tecnico (il famoso premio di rendimento che si contrap pone alla richiesta parallela di Autonomia Aziendale del premio legato invece agli utili aziendali).
Questi sono dunque i temi sui quali si sviluppa la proposta del sindacato e del par tito, ma nel momento in cui essa si propone così rinnovata la presenza di Comunità è già radicata nel tessuto sociale della zona, così da favorire attraverso Autonomia Aziendale una soluzione istituzionalizzata del conflit to. Né, del resto, quei temi si traducono sempre in momenti effettivi di lotta sui quali ricostruire 1'ormai logoro rapporto con i lavoratori; solo dopo il 1961, quando ha già subito anche la sconfitta nella vertenza degli attrezzisti, con il mutamento delle condizioni strutturali della fabbrica e del Canavese, la FIOM riconquista una propria capacità propo sitiva e aggregativa.
La debacle quindi in questo caso non è tanto, o non solo, nella perdita della maggio ranza della Commissione interna, come alla FIAT, ma nell'impraticabilità culturale degli stessi spazi politici interni (la CI, il CdG,
la contrattazione aziendale, ecc.). Non è un caso perciò che la sconfitta elettorale della FIOM si abbia ad Ivrea nel 1957, quando in altri contesti industriali si assiste ad un recupero, proprio perché in questi casi le caratteristiche sono in parte diverse; né meraviglia che il Partito Comunista registri tra il 1950 e il 1960 una buona tenuta (e anzi un incremento rispetto al dato complessivo del trend nazionale) in termini di adesione formale, mentre perde il consenso della base operaia e cittadina (si vedano i risultati delle elezioni amministrative del 1956 ad Ivrea, dove le sinistre passano dal 32,32 al 15,12% e il Movimento Comunità ottiene il 55,13% dei voti).
Mentre l'azione di Olivetti si specializza, articolandosi in molteplici attività, culturali, politiche, sindacali, in quel continuum che dai primi interventi degli Anni Trenta sullo
scientific management aspira a giungere fino alla cogestione operaia e alla creazione di una "terza forza" nella società politica, l'elaborazione della sinistra di classe viene quindi appesantita dall'incapacità di superare canoni interpretativi tradizionali (tra cui idealismo e produttivismo) e più tardi dalla crisi successiva agli avvenimenti del '56.
veri.
Sullo stesso tema 1 'intervento di Piero
Cra-Olivetti fu forse l'unico industriale a salvare l'istituto postbellico del Consiglio di gestione. Il sindacato aziendale di Comunità nacque poi con finalità che non erano quelle di un "patronal-socialismo", come ha voluto dimostrare Donatella Ronci. Fu del resto l'unico sindacato aziendale nel settore industriale che la stessa CGIL non definì come "giallo", perché tale non era. Certo, Adriano Olivetti tentò di trasformare l'osservatorio sociale della sua fabbrica in un laboratorio di iniziati ve sociali e politiche innovative. Negli ultimi anni aveva probabilmente, in modo istintivo, fretta di realizzare qualcosa anche su questo terreno. E qui c'è probabilmente un tratto di utopia, proprio quella che può nascere da un'esperienza industriale, e che consiste nel voler imprimere ai movimenti di adattamen to e trasformazione del sociale il ritmo che è proprio del progresso tecnico-industriale. L'esperienza partecipativo-sindacale di Comuni tà restò incompiuta o meglio produsse frammenti non componibili in un risultato stabile. Tra i due fattori . originari di socializzazione del lavoro industriale, la cooperazione tecnico produttiva da un lato (che obbedisce alle regole gerarchiche e disciplinari poste dall'im presa come soggetto aggregatore dei fattori produttivi) e la coalizione Sindacale come momento di aggregazione antagonistica, che si esprime in uno o più soggetti autonomi,
che svolgono un ruolo conflittuale ed hanno una funzione contrattuale di cui sono garanti, ci doveva essere un terzo momento quello parte cipativo, come punto di mediazione e di osmosi tra i due precedenti, distinto e parallelo al momento meramente contrattuale.
Questa era l'idea di Adriano Olivetti; un'idea che in Italia allora non aveva molta diffusione, ma in altri sistemi di relazioni industriali costituiva già esperienza radicata o in corso di svolgimento. Anche qui c'è una sfasatura storica tra le idee e il tempo storico di Adriano Olivetti.
Il sindacato italiano non aveva allora maturato neppure una vera e propria esperienza conflittuale. Avviluppato in moduli vecchi e nuovi di tipo classista e contrattualista era lontano dal porsi anche solo progettualmen te il problema di un rapporto istituzionale stabile con le scelte di politica economica e industriale. Del resto, i suoi naturali interlocutori, governo e padronato, si muove vano su di una griglia di contraddizioni ancora più arcaiche, che la vicenda del centro-sinistra avrebbe poi messo in luce. Ma alla luce dei dibattiti di oggi è difficile negare che alcune esperienze messe in moto da Adriano Olivetti ci paiono ora come anticipazioni solitarie.
IL GIORNALE DI FABBRICA
Si ricollega al tema sindacato e fabbrica un contributo particolare di Carlo Doglio, che tornerà più ampiamente sull'argomento con una relazione tenuta al Convegno di Reggio Calabria del 1982 su Adriano Olivetti. Per ora questo frammento abbastanza significativo.
Ero arrivato ad Ivrea, nel 1949, per dirigere il "Giornale di Fabbrica" che era l'organo del Consiglio di gestione; e se non si riesamina il CdG nella sua realtà di Ivrea e d'altrove, post-1945 e gli equivoci con i vicini Consigli di fabbrica di Torino e dell'Unione Sindacale, è difficile capire molte cose della nostra fabbrica come delle altre del tempo.
Io ero stato scelto a dirigere il giornale perché essendo anarchico (come sono tuttora dopo una parentesi PSI e prima Partito d'Azione) non creavo problemi di preponderanze partitiche: fu un giornale interessante tanto dal punto di vista dei contenuti come da quello grafico - cose entrambe fondamentali per Adriano Olivetti e per noi che lavoravamo con lui. Ma come morì? perché il PCI decise, a un tratto, di cessare la sua collaborazione (tutto il Consiglio di gestione partecipava, io "organizzavo") e di procreare "Il Tasto"... Adriano mi autorizzò a tentare un periodico sciolto dal Consiglio e dai sindacati e da tutto, voce diretta degli operai e della gente dei paesi vicini.
L'AUTOGESTIONE
II sociologo Albert Meister (di cui è recente 1 'immatura scomparsa) diresse, per incarico di Adriano Olivetti, il Centro di sociologia della cooperazione e fondò, sempre d'intesa con Olivetti, una rivista internaziona le "Community Development" di cui si parlerà in una successiva citazione del suo intervento. Tra le sue opere si ricorda Socialisme et Autogestion. L'expérience yougoslave (Seuil, Parigi 1964).
Vorrei portare un complemento di informa zione sull'atteggiamento dell'ing. Adriano in tema di democrazia in fabbrica. Nel suo eccellente libro Giuseppe Berta nota che Adria no Olivetti, quando parlava di democrazia, si rifaceva sempre alla democrazia delegata e non al controllo, operaio, cioè alla democra zia diretta. L'osservazione è molto pertinente e non c'è dubbio che la figura di Olivetti è molto più una figura di sansimoniano che la figura di un discepolo di Fouriér. La sua