Questo Capitolo, nel quale sono raccolti gli interventi che interessano la fabbrica e i problemi del lavoro, si apre con una testi monianza tutta particolare, quella di chi ha lavorato per anni sui documenti di archivio. Giovanni Maggia non è un testimone nel senso dei tanti che hanno conosciuto Adriano Olivetti personalmente. Né vuole essere un interprete della sua esperienza ideale e pratica, che anzi prova fastidio "per il gusto eccessivo per l'interpretazione a scapito del fatto più banalmente documentario", nonché per 1 'uso frequente di dire la propria opinione sull'opera, sulle idee di una determinata personalità, "quando sono poco studiate le fonti stesse di quel pensiero e di quelle opere".
La testimonianza particolare di Giovanni Maggia è pertanto una specie di contrappunto ai discorsi fondati sui ricordi o sulle inter pretazioni, che continueranno ad intrecciarsi anche negli altri capitoli di questa raccolta.
Io sono di Ivrea, ho perciò vissuto un certo clima, ho respirato - diciamo - il "mito" di Adriano Olivetti, se vogliamo usare un termine impegnativo. Constatare come si conti nuasse a parlare di Olivetti e sentirne la presenza storica è stato il fatto che mi ha spinto a una ricerca che mirava in qualche modo a recuperare quanto del patrimonio docu mentario sulla vita di Adriano Olivetti si
era fortunosamente conservato. Ho appuntato la mia attenzione sulla parte della sua vita - che è stata più volte richiamata negli inter venti del professor Musatti e dell'ingegner Martinoli, ma anche di altri — . che, almeno quando io cominciai questa ricerca, era invece singolarmente trascurata: voglio dire il periodo che va, grosso modo, dagli anni 1919, diciamo dalla formazione universitaria dell'ing. Adriano, fino al termine della Seconda Guerra Mondiale. Non c'è bisogno di sottolineare i validi motivi per f quali tutto sommato questa parte della sua vita passasse in secondo piano, come un qualche cosa di già scontato: era evidentemente l'ampiezza delle realizzazioni compiute durante il clima economico e sociale del secondo dopoguer ra, cioè nel momento in cui si dispiegava al massimo la personalità creatrice di Adriano Olivetti, a far trascurare i venticinque anni precedenti.
Non avrei potuto raggiungere il fine di raccogliere il materiale riguardante il periodo da me scelto se non avessi avuto l'oppor tunità di accedere alle carte familiari. E qui devo fare un pubblico ringraziamento.
C'è stata una persona senza la quale questo lavoro non sarebbe mai stato possibile e che ha aiutato sia me che Giuseppe Berta, per il suo libro Le idee al potere, con una liberalità estrema: mi riferisco alla Signora Silvia Marxer Olivetti che ha il merito di aver sistemato e aperto gli archivi familiari e di averne permesso la consultazione.
Il materiale raccolto riguarda appunto il periodo che va dal 1919 al 1943, trascurando
per il momento il periodo della guerra ed è centrato essenzialmente su due temi. Il primo, diciamo così, la formazione dell'impren ditore, la formazione delle prime realizzazio ni dell'imprenditore, documenta sostanzialmen te quello che con molta vivezza è stato ricorda to dall'ingegner Martinoli: documenta sostanzial mente come da una fabbrica di 400 operai, ancora nel 1923-1924, si sia poi passati nel 1942 ad una fabbrica di 4.500 persone. Ciò documenta che fu "di Adriano la scelta di passare a quella che allora si chiamava la produzione di serie.
L'esperienza statunitense
Una prima parte della documentazione raccol ta comprende le lettere che sono state inviate dall'ing. Adriano durante i suoi viaggi di studio: negli Stati Uniti nel 1925-26, poi nel soggiorno in Inghilterra nel 1927, e altre lettere dal 1928-29 . che si riferiscono a viag gi ed esperienze di lavoro. Inoltre vi sono tutti gli scritti editi ed inediti che si riferiscono a quel periodo. Quelli editi sono praticamente il complesso degli scritti pubbli cati sulla rivista "L'organizzazione scienti fica del lavoro", e poi sulla rivista fondata nel 1937 dallo stesso Olivetti, insieme allo staff tecnico che allora lo affiancava, e che si chiamava "Tecnica e organizzazione". C'è poi una sezione di inediti, anche questi non privi di un certo interesse: ad esempio uno scritto d'interpretazione su Taylor che risale al 1924. A questo proposito vale subito
la pena di spendere una parola. Ho sottolineato appunto l'anno, il 1924. Questo significa che la scoperta di Taylor, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, non è succes siva al viaggio negli Stati Uniti. In realtà, il principale libro di Taylor, Principi di organizzazione scientifica, come è documentato dalla biblioteca di famiglia, circolava in casa nella versione americana già dal 1917 (esiste anzi una lettera dell'ing. Camillo a un suo amico di Milano, un certo ingegner Finzi, al quale lo dà in prestito e c'è poi una risposta di quest'ultimo con cui il libro viene restituito con alcune osservazioni). L'America non ha dunque alcuna funzione tauma turgica nella formazione di Adriano Olivetti. Molto di quello che va a vedere in America egli già conosceva. Ne è prova il fatto che si era preparato degli appuntamenti e aveva fissato degli itinerari, con l'intento di approfondire determinate questioni che già lo interessavano e di cui cercava una migliore soluzione.
L'organizzazione scientifica del lavoro
L'esperienza del viaggio in America e di quello successivo in Inghilterra muta il patrimonio intellettuale dell'ing. Adriano. Nel dibattito di oggi ho sentito dire - non mi ricordo più chi l'abbia detto - una cosa su cui non sono d'accordo: che non era molto difficile cogliere i principi di organizzazio ne che allora erano nell'aria. Sarebbe da stupirsi del contrario. Questo è certamente
vero, ma - aggiungerei - è fin troppo vero. Basta fare un'analisi comparata, quella a cui venivamo invitati da un altro degli interve nuti di questa mattina, cioè fare il paragone con gli altri stati maggiori dell'industria italiana per vedere quanta grettezza -intellet tuale li caratterizzasse - anche quelli di maggiore prestigio - e cogliere la differenza d'impostazione. Illuminante, a questo proposito, è la famosa' questione del sistema di remunera zione ad incentivo o, diciamo, del cottimo. La maggior parte degli industriali i-taliani che avevano esperienze internazionali e che avevano man man introdotto nelle loro aziende il sistema del cottimo, a volte anche già durante la Prima Guerra Mondiale, cioè in anticipo confronto alla Olivetti, si erano riferiti al cosiddetto sistema Bedaux; cioè a un sistema di remunerazione che era stato causa non ultima di scontri a l l 'interno della fabbrica e di contrasto tra il movimento operaio e le direzioni di azienda. In realtà, il sistema Bedaux - secondo le parole dello stesso ing. Adriano in un famoso articolo pubblicato nel 1926 sull "'Organizzazione scientifica del lavoro" — era tra tutti i sistemi di remunera zione ad incentivo quello più rozzo, cioè quello che otteneva da parte dell'operaio la maggior fatica, e che, nello stesso momento, poteva anche arrivare a decurtare il precedente guadagno giornaliero dell'operaio.
Dall'esperienza degli Stati Uniti Adriano Olivetti torna invece con un sistema che, certo, è gravido di contraddizioni (chiunque innovi e si assuma rischi e responsabilità
in campo imprenditoriale è portatore di contrad dizioni) ma che, una volta rielaborato insieme ai suoi collaboratori, si presentava assai diverso. L'incentivazione veniva promossa fino a una certa curva di cottimo, quella che è compatibile con la qualità del prodotto e con il non esaurimento fisico della mano- d'opera. Si immagina la possibilità per l'operaio di rigenerare la propria energia nell'arco della stessa giornata lavorativa. In sostanza, è un sistema dotato’ di ben altra sofisticazione di quelli praticati al tempo.
II. ruolo della fabbrica
Questa particolare vicenda permette di fare il punto su un'altra questione centrale, che è tornata nel dibattito e che emerge dalla raccolta del materiale documentario: quale ruolo abbia la fabbrica nel pensiero e nelle realizzazioni dell'ing. Adriano Olivetti. Non c'è dubbio che, ad esempio, se noi teniamo presente il fatto dell'introduzione del cottimo alla Olivetti, avvenuta progressivamente a partire dal 1927-28 prima alle presse poi nelle officine e alla fine nei montaggi, possia mo misurare tutta una serie di questioni che tornano in tutti i discorsi sull'esperienza olivettiana e con le quali si deve sempre fare i conti. La prima, appunto, è quella che già è • ritornata in queste giornate di studio: di quale tipo sia stata l'imprenditoria lità di Adriano Olivetti. Un imprenditore al quale sono stati fatti ampi riconoscimenti, ma di cui si è detto che è stato portatore
in sé di una contraddizione fondamentale, cioè di essere stato un "razionalizzatore" del modo di produzione capitalistico secondo formule più sofisticate rispetto all'esperienza storica italiana, ma fermo rimanendo che egli operava nell'interno di un sistema economico dalle coordinate molto precise e sicuramente definibile come capitalistico.
Ora, su questo, io credo che sia questione di intendersi e la documentazione storica ha appunto il compito di fare chiarezza. Innan zitutto, come ho già detto, teniamo sempre presente quello che veniva fatto altrove. Oggi è facile dire che si trattava semplicemen
te di una razionalizzazione capitalistica, magari più "pericolosa" perché più sofisticata. Ma quali erano le condizioni di lavoro e di vita all'interno delle fabbriche in quel perio do? Non certo quelle cui si è abituati dopo le conquiste di oltre cinquant'anni. Un crite rio di comparazione con quella che era la cultura imprenditoriale dell'epoca è dunque essenziale. Basta sfogliare qualsiasi raccolta degli atti ufficiali delle assemblee d ell'AMMA Associazione meccanici e metallurgici del Piemonte - per rendersi conto di quale fosse il livello dell'imprenditorialità piemontese. Credo di non commettere un delitto di lesa patria se dico che anche l'imprenditorialità piemontese rivelava una grettezza mentale, soprattutto su tale questione, che era incommen surabile, io credo, rispetto all'esperienza olivettiana. Certo, nonostante questa maggiore attenzione al fatto umano, rimaneva che il sistema ad incentivo era un modo per far
lavo-rare di più e per incrementare la produttività, un sistema che incrementava la misura salaria le, ma che comunque non risolveva il problema che stava alla base, cioè quello dello sfrutta mento che viene operato sui luoghi di lavoro all'interno di un certo sistema. Questo proble ma torna negli scritti dell'ing. Adriano del periodo e non ne viene indicata la soluzione. Non si parla, certo, di superamento in senso socialista di questo sistema, anche perché poi, tornando sempre all'epoca, che cosa fosse allora il socialismo è ancora da vedere. Il socialismo allora - secondo una nota formula - era il Soviet più l'elettrificazione: non si andava assolutamente a sindacare, attraverso questa formula, su come si produceva all'inter no delle fabbriche. Questo sarebbe stato un problema successivo del movimento operaio, molto successivo. Anche nell'esperienza delle fabbriche occupate nel Venti, quando sì produ ceva in realtà si continuava a produrre secondo i sistemi che erano in atto. Si discuteva sulla destinazione del prodotto, ma nel merito del processo lavorativo, si credeva, come si è continuato a credere per lungo tempo, che ci fosse una certa neutralità della tecnica, del progresso tecnico, del progresso tecnologi co: che questi fossero dati in qualche modo non contestabili.
Adriano Olivetti si pose di fronte a questo problema in altri termini; innanzitutto, rifiutò il problema della fabbrica come un problema isolato. Dal complesso delle lettere e degli scritti di Olivetti emerge chiaramente una riflessione costante sul ruolo della
fabbri-ca, ed insisto sul termine fabbrifabbri-ca, all'interno di una società come quella italiana dell'epoca. Una società civile, ricordo ancora, per molti versi arretrata,- nella quale il movimento operaio aveva già dato grandi prove di sé, alcune straordinarie come nel biennio rosso, ma nella quale bastava uscire da alcune grandi città, bastava appunto trasferirsi da Torino anche fin nel Canavese in zone a prevalenza contadina, per vedere che in fondo prevalevano i connotati delle società tradizionali e statiche con scarsi fermenti culturali. Chi abbia dime stichezza con i quotidiani o comunque con la vita sociale di Ivrea dell'epoca credo possa capire quello che intendo dire.
Rispetto a questa società la classe diri gente ancora prima del fascismo non si era messa in una posizione di stimolo, né si propo neva in qualche modo di accelerare lo sviluppo e la crescita della coscienza sociale e dei momenti associativi. Semmai si proponeva una gestione basata sulla conservazione degli equilibri con mediazioni di vertice a volte estenuanti che miravano ad inserire le forze politiche principali • all'interno del sistema esistente, tagliando quelle che potevano essere le richieste sociali più estreme. Rispetto a questa condizione sociale e politica la fabbrica viene ad assumere il ruolo - diciamo così - di propulsore della società civile: e ancor più lo assumerà ovviamente negli anni tra il 1926 e il 1940. La fabbrica è l'unico posto dove sia possibile, mediante una inizia tiva consapevole, raggruppare e accumulare energie attraverso le quali premere sulla
società civile per imporne una trasformazione. Il luogo per lo sviluppo civile è la fabbrica, ad opera degli imprenditori che di questa funzione siano consapevoli. Certo, c'è molto di illuministico in questa idea ma io vi trovo anche un grande senso della realtà. E' facile dire a posteriori ciò che non ha funzionato, ma date le condizioni della società di allora non era questo un discorso irrealistico. Al contrario, veniva a focalizzare il punto di leva su cui operare per dare impulso ad una trasformazione della società: piacesse o non piacesse nelle condizioni sociali ed economiche di allora questo punto di leva doveva essere la fabbrica in quanto fabbrica moderna. Ecco quindi la • necessità di accogliere tutti i principi di ■ modernizzazione dei luoghi di lavoro, di favorire la socializzazione di coloro che vi entravano, e, mediante questo processo che tanto sconvolgeva le abitudini e gli equilibri della società preesistente, di far diventare operai i contadini (anche se poi rimanevano operai-contadini), di creare condizioni materiali di vita diverse.