Sul rapporto organizzazione del lavoro-introduzione delle scienze sociali in Italia, interviene Roberto Gabetti.
Adriano Olivetti, già da giovane, aveva capito che una nuova organizzazione del lavoro esigeva una ricchezza di apporti specialisti ci, diversi da quelli correnti in un'azienda di prima industrializzazione, ancora fondamental mente basata su apporti artigianali (quale era quella chp aveva trovato a metà degli Anni Venti lui, ingegnere, e che gli veniva trasmessa dal padre, formato alle antiche scuole del socialismo libertario); già allora in America, i tayloristi avevano cercato l'ap porto di psicologi e di sociologi. L'adattamen to dell'uomo alla macchina, veniva mediato da osservazioni attente, di laboratorio e di stabilimento, sui modi e sui tempi degli interventi dell'uomo sulle macchine. A poco a poco, nel passaggio fra anteguerra e secondo dopoguerra, tale rapporto era stato rovesciato, fittiziamente, nel tentativo - "organico" di adattare la macchina all'uomo: un tentativo tutto interno ad una problematica del lavoro, che poneva pur sempre l'organizzazione produtti va al centro delle finalità degli industriali e delle preoccupazioni degli specialisti, nei vari settori (quasi l'organizzazione del lavoro costituisse di per sé una variabile indipendente, nel contesto della seconda
rivolu-zioné industriale).
Su queste basi vennero impostati, a metà degli Anni Cinquanta, gli inserimenti graduali di sociologi e poi di psicologi anche all'interno della Olivetti: essi erano considerati al principio soprattutto come specialisti adatti a rendere più umano il lavoro, secondo le linee di neo-umanesimo industriale, cui Adriano Olivetti, per motivi di 'cultura politica e anche religiosa, si era dimostrato particolar mente attento. A ben vedere, tale approccio "ergonomico", che consentì l'inserimento di alcuni apporti interdisciplinari, non fu alle radici niente affatto rivoluzionario: il rove sciamento del rapporto macchina-uomo, in un rapporto uomo-macchina, poteva essere in effet ti considerato ancora come strumentale ad una necessaria razionalizzazione organizzativa, che stava passando proprio allora, attraverso l'estesa introduzione nei suoi stabilimenti delle catene di montaggio.
Invece l'importazione di mano d'opera proveniente da paesi lontani (specie veneta e meridionale) nell'area degli stabilimenti Olivetti, rimaneva limitata: in questo senso l'operaio fordista (negro in quanto immigrato) non è l'operaio del secondo corso della Olivet ti: furono certamente le stesse concezioni di Adriano nell'ambito dell'organizzazione del territorio (prima e ancora al di fuori dell'economia dell'azienda) ad impedirlo.
Molto si è detto della involuzione dei rapporti sindacali all'interno dello stabili mento a partire, dagli Anni Cinquanta, fino al '68, e molto anche del contributo di
specia-listi di alta formazione scientifica .a tale involuzione. E' però chiaro, se non si vuole usare del senno di poi, che i limiti stessi di apporti interdisciplinari nel campo dell'or ganizzazione della produzione, sta nelle condi zioni economiche e sociali in cui tale apporto è avvenuto, avviene.
E 1 chiaro però che, rompendo allora, in quel modo, i limiti dell'idealismo italiano (gentiliano e crociano), Adriano aveva compreso l'importanza di scienze in formazione, e ne aveva promosso più di ogni altro il radicamen to in Italia: fra le prime la pianificazione del territorio, la programmazione urbanistica, la razionalizzazione della produzione edilizia (già nell'anteguerra); e ancora la sociologia, la psicologia (nelle loro articolazioni). Nel secondo dopoguerra Adriano aveva anche tentato di comporre attorno a nuclei culturali, validi anche in senso letterario e artistico, gruppi di competenze poste a confronto su determinati problemi, équipes interdisciplinari correttamente formate, propriamente connesse a temi economici e sociali emergenti.
E' strano, ma non stupisce, che tutto questo lavoro sia stato da lui svolto e portato avanti sempre al di fuori delle strutture dell'Università e del Politecnico, presenti a Torino come a Milano (poli di naturale gravita zione della sua attività). Chiamando stranieri, europei e nordamericani, per seminari, consulta zioni, conferenze, rivolgendo l'interesse delle Edizioni di Comunità verso gli autori più qualificati in ambito internazionale, Adriano fu, senza volerlo essere, uno dei
grandi riformatori dell'Università italiana: una riforma posta alle radici della scienza e della tecnica.
ADRIANO OLIVETTI IMPRENDITORE
Sulla teoria della direzione aziendale elaborata da A.O. nel periodo che va dalla metà degli Anni Venti alla fine degli Anni Trenta, interviene Giulio Sapelli.
Adriano Olivetti elabora, nel periodo che va dalla metà degli Anni Venti alla fine degli Anni Trenta, una teoria della direzione aziendale che è unica ed eccezionale per quel che riguarda l'Italia e i suoi imprenditori. Essa assume una connotazione non soltanto anticipatoria ma anche e soprattutto imprevedi bile e non comprensibile comparandola unicamen te con le fasi di crescita del sistema industria le. Voglio dire, cioè, che essa non è comprensi bile, nella sua genesi, come prodotto di una tappa dello sviluppo, quanto, invece, come una vera e propria innovazione frutto di una scelta concettuale e operativa non assimilabi le a nessun'altra di quelle presenti nel panorama italiano. Essa, già sin d'allora, superava la stessa concezione burocratico- weberiana della direzione d'impresa, che stenta ancor oggi ad essere generalizzata nella totalità delle unità produttive. La consapevolezza di Olivetti era tutta compresa nella volontà di unire alla cooperazione tra il management la legittimazione fondata sull'autorità tecni ca dei responsabili di impianto, instaurando in tal modo un nuovo ed equilibrato rapporto tra line e staff. Il cemento o la connessione
tra tale autorità e tale cooperazione era costituito dal cpsiddetto metodo degli "ideali direttivi", ovvero della pianificazione e della discussione democratica della strategia dell'impresa. In tal modo si ponevano i fondamen ti di quella che Luciano Gallino chiamerà "l'impresa processiva", avendo come modello, appunto, l'impresa olivettiana.
L'organizzazione del lavoro del top manage ment diveniva l'organizzazione di una profes sione dotata di una sua autonomia e di una sua irriducibilità al lavoro tecnico, finanzia rio, di mercato, di qualsivoglia funzione specifica dell'impresa. Quest'ultima poteva così essere concepita come un sistema che non destinava tutte le risorse individuali del management alla pratica gestionale, ma ne accumulava e ne utilizzava razionalmente sempre una quota rilevante per lo studio e per l'innovazione della strategia. Il manager diveniva in tal modo il meccanismo di regola zione e di cambiamento del processo che garantiva il rapporto continuo tra strategia e struttura dell'impresa. La direzione come professione, nel senso anti-burocratico e post-weberiano auspicata da Olivetti, poneva fortemente l'enfa si sul primo elemento di questa polarità, formando in tal modo una gestione innovativa dell'impresa.
Se guardiamo ad Olivetti imprenditore nella luce della sua teoria della direzione d'impresa, la sua personalità non si scinde, non si frantuma, ma s'unifica e s'illumina, appunto, di una sintesi che nasce dagli stessi prerequisiti del suo lavoro come uomo
dell'indu-stria. Voglio far riferimento all'altro conte nuto innovatore della personalità olivettiana, anch'esso anticipatore e atipico per quei (e per i nostri?) tempi. Per Olivetti la dire zione come professione non era più, come soste nevano i suoi contemporanei (se si fa eccezione per alcuni di essi, come Vailetta e Gobbato), un'arte, affidata al potere demiurgico dpi proprietario e del manager e alla sua intuizio ne di "uomo delle macchine e del mercato". Ma non era neppure una "scienza", così come pensava, nella sua utopia tecnocratica, Pacces, altro protagonista del dibattito di quegli anni, e di anni a noi assai più vicini di quelli di cui oggi qui discutiamo. La direzio ne che, attraverso la cooperazione degli ele menti dotati di potere decisionale, si tradu ceva in pratica operativa era, invece, l'utiliz zazione quotidiana del patrimonio tecnico scientifico e organizzativo nella gestione degli uomini e delle cose sulla base di un piano strategico consensualmente delineato dal top e dal middle management.
Un altro problema che vorrei sollevare in questa sede è quéllo della vera e propria contradditorietà storico-generale dell'esperien za di Adriano Olivetti imprenditore, quella che forse ne segna e scandisce il destino e gli oggettivi limiti nei quali si trovò ad esercitare.
Tale contradditorietà o singolarità può essere chiarita soltanto ponendo a confronto la vicenda olivettiana con lo stato degli studi sullo sviluppo dell'impresa come unità economica e organizzativa. Lo schema
interpre-tativo a questo riguardo è, com'è noto, assai semplice e lineare: ad una prima fase fortemente centralizzata della gestione imprenditoriale dove spicca la figura del "capitano d'industria" accentratore e fondatore della fabbrica, corri spondono una seconda e una terza fase nel corso delle quali la rottura del modello accen tratore, la divisione tra funzioni direzionali e tecniche, sino alla divisionalizzazione, si svolgono con un processo di costante adegua mento della struttura dell'impresa alla sua strategia, pena il fallimento o l'emarginazio ne economica. La fine dei metodi di gestione e di proprietà familiari è il logico corolla rio di un processo che tende, appunto, alla separazione della proprietà dal controllo, della funzione direzione generale da funzioni di responsabilità particolaristiche, tecniche od organizzative. Lo sviluppo dell'impresa, superata la prima fase, è quindi legato alla sua capacità d'investire in risorse ideative e progettuali, non soffocate da quelle di mantenimento e di controllo.
Adriano Olivetti sconvolge questo modello: è proprietario e proteso alla cooperazione, è imprenditore tipico di una fase ancora sostan zialmente (non si può dimenticare l'esperienza del padre Camillo) di crescita ma non è accen tratore, promuove riforme della strategia e della struttura dell'impresa ma conserva - non da solo, ma in un sistema proprietario familiare - una quota del controllo azionario. Si assiste, insomma, ad una sfasatura, ad un rapporto non sincronico tra fasi della vita dell'uomo e fasi della vita dell'impresa.