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Dalla relazione di Ludovico Quaroni.

I miei rapporti con Adriano Olivetti sono durati circa 14 anni: dal mio rientro in Italia (insieme a Serafini e a Innocenti, dopo guerra e. prigionia in India) , alla morte tragica di Adriano. Quattordici anni d'una vicinanza imperfetta, dovuta alla mia incapa­ cità di seguire bene il suo pensiero oltre quella generica adesione alla sua idea "comuni­ taria", che metteva insieme tutti noi, olivettia- ni di varia estrazione, contro le "altre" due ideologie - anzi contro le vere ideologìe politiche - quella democristiana e quella comunista.

Le mie affinità, con Adriano, erano mode­ ste: una certa comune timidezza, ma diversissima poi nel fondo nostro: la sua, una timidezza fatta d'ottimistico orgoglio e di piena fiducia nelle sue idee e nel suo destino; la mia, fatta invece di pessimismo, di indecisione e di rinuncia, di poca stima nelle mie qualità, di nessuna fiducia nell'avvenire. Ma c'era, ad unire)., una non meglio identificata scarsa fiducia nelle ideologie e nella rozza pratica dei partiti ufficiali, soprattutto una comune concezione dell'essere umano e delle sue necessi­ tà, delle possibilità di lavorare per lui più direttamente, fuori dagli slogans e dalle altre linee convenzionali. E c'era una certa aura di semispiritualità che ci teneva

equidi-stanti dal materialismo marxista e dal sedicen­ te cattolicesimo democristiano. C'era la "Humana Civilitas" e la campana: una impresa ed un simbolo.

Le categorie che entravano in una parte qualunque del discorso non erano omogenee: erano spesso decisamente eterogenee. Per questo risulta difficile, a chi sia calato in un pozzo disciplinare, vedere intorno tutti gli addentellati dell'opera olivettiana. Per questo, anche, trovava tanta incomprensione. Ma per questo stabiliva poi, colle valenze libere di molti fra noi, un colloquio un intreccio e un legame che difficilmente avremmo trovato con altri.

Tutte le persone che a suo tempo, con diverse posizioni, hanno preso parte, in qual­ che modo, all'avventura olivettiana, sarebbero ben felici di ripercorrere l'esperienza vissuta e di rileggere a distanza anche i propri erro­ ri, la propria incapacità di rispondere alla richiesta di Adriano, e il loro lavoro potreb­ be essere affiancato con vantaggio dalla presen­ za di forze giovani, che correggerebbero gli eccessi di adorazione per la figura carismati­ ca di Adriano.

Il fascino di Adriano rimane: è sempre vicino a noi. I suoi occhi azzurri mettono la stessa paura, fotografati o cinematografati, che mettevano al vero. Probabilmente Adriano aveva imparato dal padre il potere irrinuncia­ bile della paura, dal padre che aveva gli stessi suoi occhi, dolci, ma d'acciaio. Era un uomo che uno avrebbe fuggito volentieri e che invece ti attirava come un magnete.

La sua stessa timidezza funzionava, nelle sue mani, come un'attrazione.

Era un uomo che sapeva esattamente cosa avrebbe voluto dagli altri : ma che sapeva anche subire l'insuccesso di chi lavorava per lui, senza volergliene. Io potrei tenervi ore - non vi spaventate - a parlarvi di tutti i miei- ""errori, e così potrebbero fare gli altri. Ma potrei anche dirvi per ore tutto quello che ho imparato da lui, e la dimensione dell'esperienza compiuta, con tutto il dialogo fra l'utopia e la realtà; la realtà che non raggiunta si trasformava in utopia, e l'utopia che, domata, rientrava nella realtà. La catena delle incomprensioni, degli errori, delle ingenuità e delle omissioni mie è una catena lunga, e lunga credo sia anche quella di molti altri.

Ma sarebbe importante che - su basi più solide - si potesse seguitare questo nostro discorso, perché di Adriano Olivetti ce n'è stato uno solo e la distanza che ci separa dalla sua morte è la distanza giusta per ripren­ dere tutto il suo disegno: domani sarebbe troppo tardi. Paragonare, valutare i suoi errori con gli errori compiuti dalla poli­ tica ufficiale, sarebbe per noi particolar­ mente utile; e sarebbe forse anche utile per il nostro paese, nel momento nel quale è necessario rivedere tutto il cammino per­ corso e l'impostazione stessa, forse superfi­ ciale, colla quale si è cercato di rimediare ai guai del fascismo.

La stessa visione culturale olivettiana della città, dell'architettura e del territorio

- dell'"ambiente", come meglio si diceva allora, considerando nel territorio e col territorio gli uomini che lo abitavano - ci aiuterebbe a chiarire la grande crisi attuale dell'urbani­ stica e dell'INU, la grande crisi dell'architet­ tura, l'una e l'altra separate, deliberatamente, dalla realtà umana per la quale avrebbero dovuto lavorare. Ad Adriano non sfuggiva il significato intimo della "forma" come irrinuncia­ bile mezzo per la comunicazione dei contenuti e delle idee che li sostenevano, li sottendevano; ' ma la forma era per lui anche un desiderio

di dignità, di perfezione, d'autocontrollo rispetto agli altri. E dunque un'esigenza culturale, di base, per ogni uomo. Adriano, del resto, ha anticipato di molti anni lo slogan de "l'immaginazione al potere". Si è detto qui, da parte di Musatti, che Adriano si comportava, nel dialogo fra l'utopia e la realtà, come un artista: e debbo ricordare che lui diceva esplicitamente come fosse molto importante, anche per un imprenditore industriale, l'apporto - accanto agli studi e alle ricerche scientificamente condotti con rigore - della "immaginazione", della intuizione. Anche la razionalità chiara ha bisogno, nei momenti delle scelte decisive, d'un catalizzatore del processo mentale relativo, e non può trovarlo che nella "razionalità profonda" della coscienza interna ed intima.

Capitolo Terzo