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CAPITOLO 5: LA LIBERALIZZAZIONE DELLE RISORSE IDRICHE

5.3 Argomentazioni a favore della gestione privata e controargomentazioni

Dopo aver esposto le motivazioni che possono spingere verso un processo di privatizzazione andiamo ad analizzare le caratteristiche tecniche che favorirebbero il modello di gestione privato con le relative controargomentazioni:

• L’andamento dei corsi dei titoli nel mercato azionario fornisce alle imprese privatizzate quella guida verso la migliore allocazione delle risorse che invece manca alle imprese pubbliche.

Si presuppone qui l’efficienza dei mercati azionari che rimuovono il gruppo dirigente incapace.

Nella misura in cui, tuttavia, la partecipazione pubblica si riduce ad una quota di maggioranza relativa dell’impresa, il restante flottante può comunque permettere un medesimo flusso informativo sulla valutazione dell’efficienza delle scelte di politica aziendale. Inoltre, qualora ottengano risultati giudicati insoddisfacenti, i dirigenti delle imprese pubbliche possono essere rimossi dall’autorità pubblica, ed in maniera spesso più agevole rispetto alle possibilità dei

raiders delle imprese private.

• Si sostiene che l’inefficienza relativa delle imprese pubbliche derivi dalla scarsa stringenza dei loro vincoli di bilancio. Questa soft bufdget constraint si sostanzia in una sistematica opera di salvataggio delle imprese pubbliche in difficoltà, politica che grava sui pubblici bilanci ed induce gestioni inefficienti delle imprese stesse.

Il controargomento ricorda come spesso anche le imprese private godano di tale attenzione da parte dei pubblici poteri, mentre talvolta anche le imprese pubbliche vengono liquidate.

• In un contesto di contratti incompleti, qualora i diritti residuali di controllo appartengano al governo, esso potrebbe ex post espropriare i manager dei rendimenti conseguenti ai loro investimenti irreversibili nell’impresa. Tale minaccia disincentiva,

ex ante, la formazione di un efficiente volume di firm specific capital. Problema che

non si pone nel caso di impresa direttamente gestita dal proprietario.

Nel caso tuttavia delle imprese ad azionariato diffuso, ancora caratterizzate dalla separazione tra proprietà e controllo, ritorna questo trade-off tra tutela degli interessi dei proprietari non controllanti e certezza del controllo.

• La gestione pubblica è naturalmente portata verso una molteplicità di obiettivi (stabilizzazione, allocazione e redistribuzione), mentre si presuppone che i manager privati cerchino unicamente di massimizzare il profitto delle loro imprese. Al di là della critica alla seconda parte della precedente affermazione già sviluppata nella teoria manageriale dell’impresa, questa molteplicità di obiettivi rimane una caratteristica ambivalente, ineliminabile, delle imprese pubbliche. Da una parte esse possono perseguire il benessere sociale, ma possono anche essere utilizzate per finalità indicate dagli alterni indirizzi politici, ed in ciò risentire delle attività di lobbying di particolari gruppi di interesse.

Tuttavia anche l’attività delle imprese private può essere influenzata, tramite la regolamentazione, dalle vicende politiche; così come un’attività di lobbying può cercare di indirizzare la stessa politica di regolamentazione. Ciononostante l’implementazione di contratti relativi agli obiettivi politici delle imprese pubbliche rimane più difficile rispetto a quelli concernenti la pura massimizzazione del profitto.

Poiché inoltre gli indirizzi politici di successive amministrazioni possono essere diversi, si rende necessaria l’introduzione di norme che limitino il grado di commitment nella persecuzione degli obiettivi. L’obiettivo dell’impresa privata rimane invece il medesimo nel corso del tempo: la massimizzazione del profitto.

Anche la verifica empirica non offre conclusioni univoche circa la superiorità di uno dei due tipi di assetti proprietari. Sarno (1994) ha svolto una ricerca relativa ad un campione di imprese privatizzate nel corso degli anni Ottanta. L’analisi comparata mostra come le scelte delle combinazioni produttive non differiscano molto tra le imprese pubbliche e quelle private (sebbene le imprese pubbliche mostrino un maggiore utilizzo del fattore lavoro, tale differenza non è statisticamente significativa). In altri termini la verifica empirica indica una sostanziale efficienza economica dei processi produttivi utilizzati dalle imprese pubbliche; ciò che distingue l’impresa pubblica è invece l’adozione di una scala della produzione sistematicamente eccessiva rispetto alle effettive possibilità di collocamento del prodotto ed agli sbocchi di mercato. L’impresa pubblica appare quindi sovradimensionata rispetto alle corrispondenti imprese private: gli investimenti finalizzati all’ampliamento delle sue capacità produttive corrispondono ad una sovracapitalizzazione e ad un uso eccessivo dell’indebitamento a lungo termine.

I rendimenti sul capitale delle imprese pubbliche sono di conseguenza assai modesti relativamente ai principali indici di redditività a conferma che la gestione delle imprese pubbliche non tende unicamente verso la massimizzazione del profitto.

Lo Passo (1997) viceversa dimostra che, nella misura in cui i vincoli di bilancio diventano

stringenti, anche le imprese pubbliche mirano alla massimizzazione dei profitti, mostrando un grado di efficienza economica pari a quello dei loro corrispettivi privati. Egli, infatti, esamina alcuni indici di rendimento e di efficienza delle principali società affiliate ai gruppi IRI, ENI ed EFIM relativamente a due sottoperiodi. Dal 1978 al 1987, fase in cui tali imprese godevano di una sorta di soft budget contraint grazie ai conferimenti in conto capitale a garanzia (prestata dallo Stato) sui debiti da esse contratti, l’ipotesi tradizionale circa l’inefficienza e scarsa redditività delle imprese pubbliche viene confermata. Nel triennio 1988-90, in cui si riduce l’assistenza finanziaria dello Stato, le imprese partecipate mostrano un significativo recupero di competitività, tale da riportare il loro grado di efficienza in linea con i rispettivi

comparables privati. Se ne deriva che il processo di privatizzazione può essere inteso come

una (quasi) irreversibile imposizione di stringenti vincoli di bilancio ad imprese che altrimenti avrebbero perseguito finalità politiche.

Piuttosto che in fondamenti teorici, che ispirano una strategia di recupero di efficienza e concentrazione della presenza pubblica su punti strategici fondamentali per il governo

dell’economia, le ragioni del corrente processo di privatizzazione in Italia possono essere rinvenute nel tentativo di ridurre la crescita del debito pubblico tramite i proventi delle dismissioni. Questo obiettivo di finanza pubblica è tuttavia raggiungibile solo se l’introito netto della vendita, sommato agli oneri della precedente gestione pubblica, eccede i costi- opportunità di tale azione, costi-opportunità pari alla somma di:

• Eventuali utili, dividendi e potenzialità di guadagno in conto capitale a cui si rinuncia contestualmente alla cessione dell’impresa;

• Costi di collocamento e cessione;

• Costi per il successivo monitoraggio e regolazione dell’attività privatizzata.