• Non ci sono risultati.

Un artigiano dilettante

JEAN RENOIR , PARTE PRIMA

1. Apollo e Dioniso che giocano alla guerra

1.1. Un artigiano dilettante

Lungo il corso della nostra ricerca, abbiamo finora incontrato Jean Renoir in due occasioni, e in entrambi i casi abbiamo osservato questo claudicante anti-eroe francese mentre fa i conti con la tragedia della guerra: il primo conflitto mondiale fa da sfondo all’aneddoto appena riportato; l’invasione nazista determina il trasferimento di Renoir e famiglia negli Stati Uniti, come abbiamo ricordato in apertura del primo capitolo.

Avevamo dunque provvisoriamente lasciato il nostro cineasta alle prese con la logica produttiva hollywoodiana: la divergenza di opinioni tra Renoir e il vicepresidente della 20th Century Fox Darryl F. Zanuck, sull’opportunità di girare Swamp Water in studio o nelle paludi georgiane, è stata la prima delle opposizioni esaminate nella nostra indagine sull’immagine sfocata del cinema. Da questo scontro Jean esce vincitore: il primo dei sei film diretti dal maestro francese in America è girato in locations reali, nel contesto della natura dura e primitiva che incuriosiva l’europeo appena sbarcato, e che la sceneggiatura di Dudley Nichols non poteva restituire pienamente.

La frizione tra le abitudini produttive di Jean Renoir e quelle degli Studios hollywoodiani può fare ancora una volta da spunto per la nostra ricerca: se nella prima occasione ci ha indirizzato verso una riflessione sulla intrinseca dualità interna alla macchina da presa, in questo caso ci offre l’opportunità di ritornare su un aspetto della questione che, in qualche modo, abbiamo già toccato esaminando il cinema di John Ford: il confronto/conflitto tra Stati Uniti ed Europa, osservato questa volta da una nuova angolazione. Gli studiosi che ci hanno accompagnato lungo l’indagine condotta sull’immaginario americano ci hanno permesso di individuare le profonde radici europee dell’American Dream, una distanza tra le due sponde dell’Atlantico talmente ridotta da indurre gli Stati Uniti a fondare la propria stessa identità sull’affannoso movimento di fuga dall’abbraccio soffocante della madre Europa. Può                                                                                                                

268 Id., Renoir, mio padre, cit., p. 13. 269 Ibid., p. 14.

essere pertanto utile osservare questo legame di dipendenza/conflitto dalla prospettiva di un europeo che sbarca nel Nuovo Mondo, ma non riesce a integrarvisi pienamente, faticando a partecipare al grande processo alchemico che trasforma la variegata composizione dei flussi migratori nell’identità omogenea del melting pot statunitense.

Gli obiettivi dei proprietari della 20th Century Fox nella stipula del contratto con Renoir non sono difficili da indovinare. Con ogni probabilità Zanuck e soci hanno fatto affidamento su una supposta affinità tra il cinema francese e quello americano degli anni ’30: un certo «umanesimo rurale» è presente in entrambe le scuole; nel cupo disadattamento dei protagonisti del cosiddetto «realismo poetico francese» – il Jean Gabin diretto da Marcel Carné ne è l’esempio più calzante270 – si è letta una filosofia compatibile con l’individualismo che pervade le narrazioni hollywoodiane; l’impiego di immigrati come personaggi e interpreti di un film, inaugurato dallo stesso Renoir in Toni (1934), era stato ripreso con successo da King Vidor in The Wedding Night (1935)271.

Nel proporre al regista francese la realizzazione di Swamp Water, inoltre, la produzione ha evidentemente puntato su due ingredienti di indubbia qualità: il cinema di John Ford e quello di Jean Renoir, ritenendo così che la preparazione di un prodotto di successo fosse semplice e assicurata. La sceneggiatura, scritta da Dudley Nichols – autore di Stagecoach e The Informer –, attinge direttamente all’immaginario fordiano, muovendosi sulla linea che distingue il mondo civile dalla natura selvaggia. Nella pellicola, lo abbiamo già ricordato, vi sono numerosi uomini di fiducia di Ford: Ward Bond, John Carradine, Russel Simpson. La vicenda stessa, ambientata in un mondo rurale, statico e torbido come una palude, rispecchia bene la recente crisi agricola inflitta agli Stati Uniti dalla Grande Depressione. Evidentemente la 20th Century prevedeva con una certa dose di sicurezza di poter bissare il successo ottenuto da The Grapes of Wrath appena un anno prima272.

Tuttavia, preparandosi alla collaborazione con il regista francese, nella stesura del soggetto Nichols e Zanuck commisero un errore clamoroso, impegnandosi a ricreare, con scenari, vicende e attori americani, le atmosfere care al Renoir degli anni ’30273: la campagna, la natura, la vita rurale sono i temi prediletti dal cineasta di Toni e Partie de Campagne (1936) – nonché figlio di uno dei più grandi interpreti della pittura en plein air. L’inatteso insuccesso del film mostrerà con chiarezza quanta ingenuità vi fosse nel progetto approntato dai dirigenti della 20th Century Fox, e rende bene la misura della distanza tra la professionalità e l’arte.

Leggiamo la trama del film.

La storia si svolge nella zona delle paludi dell’Okefenokee, tra la Georgia e la Florida. Alcuni abitanti della vicina cittadina, lo sceriffo (Eugene Pallette), Ben Ragan (Dana Andrews), Thursday Ragan                                                                                                                

270 Si veda al riguardo A. Masecchia, Le jour se lève (M. Carné, 1939), in G. Tinazzi, Il cinema francese attraverso i film, Carocci,

Roma 2011.

271 R. Durgnat, op. cit., p. 224. 272 Ibid.

(Walter Huston), Jesse Wick (John Carradine) e i fratelli Dorson (Ward Bond e Guinn Williams), si muovono sulle acque malsane della palude, alla ricerca di due cacciatori scomparsi. Il paesaggio è suggestivo e ricco di inquietanti presenze: in più di un’occasione i coccodrilli si avvicinano pericolosamente alle barche del gruppo di uomini in esplorazione. Durante la ricerca, il cane di Ben sfugge al suo padrone, il quale, il giorno seguente, è costretto a tornare da solo a cercarlo in quella zona cupa e selvatica che spaventa gli abitanti della città. Il giovane ritrova il fedele compagno, ma incontra anche Tom Keefer (Walter Brennan), un vecchio abitante del villaggio, fuggito nella palude dopo una ingiusta accusa di omicidio, e costretto così a vivere per anni a diretto contatto con la durezza inospitale del luogo. L’uomo tuttavia ha presto appreso dai nativi le tecniche per sopravvivere in una regione così primitiva, riuscendo anche a cogliere il significato profondo di un contatto arcaico con la natura. I due fanno amicizia, e decidono di avviare insieme una particolare forma di commercio: Tom sfrutterà la sua abilità nel catturare animali, mentre Ben ne venderà le pelli in città; il ricavato sarà diviso con Julie (Anne Baxter), la figlia di Keefer, ragazza dal temperamento scontroso e selvatico, rimasta a vivere in paese dopo la fuga del padre. Lungo il corso della narrazione, Ben si affezionerà sempre di più alla ruvida e dolce Julie, e, nel frattempo, scoprirà che la condanna per omicidio che grava su Tom è dovuta alla sola testimonianza di Jesse; questi, tuttavia, gli confessa di aver mentito per coprire i Dorson, veri colpevoli del delitto. Deciso a scagionare l’amico, Ben si reca nella palude per convincerlo a fare ritorno in città, ma i due fratelli criminali lo seguono e tentano di ucciderlo insieme a Keefer. L’epilogo della storia è tuttavia lieto: Bud Dorson viene inghiottito dalle sabbie mobili, mentre Jim è costretto da Ben a fuggire, condannato a vagare nella palude, come accaduto a Tom per anni. L’uomo selvatico può così finalmente rientrare in città.

La sceneggiatura è molto più vicina all’universo fordiano che a quello di Renoir. I personaggi sono troppo nettamente caratterizzati – i due fratelli Dorson sono inequivocabilmente negativi –, e la natura che divora i malvagi, nelle ultime battute del film, è chiaramente interpretata come strumento della giustizia divina, secondo una filosofia giusnaturalista che, come vedremo più avanti, è del tutto assente nella precedente filmografia del cineasta francese. D’altronde, Renoir stesso definisce il film come il compromesso finale raggiunto dopo un lungo e impegnativo lavoro di contrattazione274.

Già nei mesi precedenti alla scelta del soggetto, infatti, la divergenza di punti di vista si era fatta evidente allorché i produttori si erano mostrati convinti di valorizzare le qualità di Jean Renoir proponendogli storie francesi. Dal canto suo, il cineasta manifestava intenzioni del tutto contrarie. «Mi faceva rabbrividire l’idea di dirigere scene con gendarmi coi baffi, signori in tight e col pizzo su uno sfondo da falso Monmartre o falsi bar all’aperto»275. L’artista europeo si proponeva di esplorare l’America. Centocinquantanni dopo de Crèvecœur, un altro francese sbarcava nel Nuovo Mondo con                                                                                                                

274 J. Renoir, La mia vita, i miei film, cit., p. 166. 275 Ibid., p. 165.

un proposito interrogativo: «cos’è l’America?», si chiedeva la macchina da presa di Renoir. L’incontro con Hollywood ha rappresentato il primo ostacolo, nella ricerca di una possibile risposta alla domanda.

La difficile integrazione tra Renoir e gli Studios si esprime anche nel corso della successiva lavorazione del film. Il regista racconta della ingombrante presenza di Zanuck durante le riprese. E si tratta di una presenza che, a distanza di più di settant’anni, risulta evidente anche al pubblico odierno che segue la proiezione di Swamp Water. Si prenda, ad esempio, una delle sequenze di apertura della pellicola. Ben si trova in casa insieme al padre Thursday e alla giovane matrigna Mary (Mary Howard). Il giovane ha intenzione di tornare nella palude per ricercare il cane smarrito, ma il padre vuole impedirglielo con categorica risolutezza. La donna media affettuosamente tra i due. Nei suoi appunti sulla lavorazione, Renoir spiega come la propria intenzione fosse quella di risolvere l’intera sequenza in un’unica inquadratura, secondo lo stile con cui aveva diretto La grande illusion e La règle du jeu (1939)276, un’estetica che avrebbe spinto André Bazin, qualche anno dopo, a indicarlo come padre spirituale del cinema moderno, proprio in virtù dell’utilizzo massiccio di piano-sequenza e profondità di campo277. Nel commentare il suo proposito di riprendere la scena da una sola angolazione, Renoir cita i long-take di Citizen Kane (Welles, 1941), ed effettivamente la compresenza di più piani narrativi nell’unica inquadratura – Ben sullo sfondo, il padre ostile in primo piano, Mary tra i due, in posizione di mediatrice – ricordano molto alcuni passaggi del capolavoro del giovane cineasta americano. «Ma Orson Welles era ben lungi da fare scuola»278.

Una Major hollywoodiana, infatti, avrebbe difficilmente accettato che una scena drammaticamente significativa fosse girata senza nemmeno un primo piano, e pertanto impose a Renoir la tradizionale ripartizione delle inquadrature: il totale della stanza è così corredato da alcuni tagli più stretti, a sottolineare l’espressione e definire la psicologia dei personaggi279. Il risultato è disomogeneno, in quanto frutto di un improbabile tentativo di conciliare il découpage classico con quello che Bazin avrebbe indicato col nome di montaggio proibito, ossia una riduzione massima del numero di inquadrature per salvaguardare e valorizzare l’ambiguità del reale280.

In merito al montaggio, Jean Renoir esprime la medesima perplessità mostrata riguardo le riprese. «Nella sala di montaggio mi si tollerava appena»281, lamenta il regista. Il che non pregiudica il valore professionale del risultato finale: il cineasta stesso riconosce come il découpage sia stato eseguito in modo eccellente, mostrando un’abilità senza dubbio superiore a quanta ne avesse lui stesso. «Ma non era il mio montaggio»282.

                                                                                                               

276 Ibid., p. 170.

277 A. Bazin, Qu’est-ce que le cinéma?, cit., p. 82. 278 J. Renoir, La mia vita, i miei film, cit., p. 172. 279 Ibid.

280 A. Bazin Qu’est-ce que le cinéma?., cit., pp. 63 sgg. 281 J. Renoir, La mia vita, i miei film, cit., p. 172. 282 Ibid.

Malgrado le correzioni operate dalla produzione, e il meticoloso sguardo protettivo di Zanuck, il film ebbe scarso successo. È pur vero che Swamp Water non registrò un totale fiasco al botteghino, ottenendo qualche buon incasso, in particolare negli stati del sud. Ciò nonostante, l’esperimento di mescolare l’estetica di John Ford e quella di Jean Renoir risultò fallimentare. La critica americana si espresse in modo nettamente sfavorevole: al regista manca la capacità di enfatizzare i passaggi drammaticamente più intensi, sostennero gli esperti; al contrario, si coglie un costante tentativo di smussare, ammorbidire, attutire l’enfasi. Le riprese abbondano in piani medi o lunghi, con una inusuale riduzione di primi piani e dettagli, che avrebbero potuto alimentare la tensione e la forza drammatica dell’immagine. In termini fotografici, poi, i critici lamentarono l’incapacità di Renoir di mettere in rilievo la figura in primo piano: nelle scene girate all’aperto, i personaggi finiscono per confondersi con lo sfondo naturale, con un conseguente calo di definizione e caratterizzazione dell’azione; la stessa «piattezza» che si ritroverà, alcuni anni dopo, nei film neorealisti di Visconti e De Sica. La giornalista Dilys Powell condanna il film come miscuglio poco credibile, ed estende la critica all’intera produzione di Renoir, includendo nella bocciatura anche il recente, e sopravvalutato, La grande illusion283.

Insomma, il regista francese fallisce. Chiamato a raccontare in immagini un dramma coinvolgente, Jean Renoir mostra tutti i limiti di una regia anti-drammatica: proprio quando sembra puntare l’obiettivo verso il mito, finisce per deragliare nell’insipido ordinario. Segno inequivocabile di dilettantismo.

Il caso di Swamp Water non è il primo né l’ultimo esempio di difficoltà di integrazione di un cineasta europeo con lo Studio System. Sedici anni prima dell’esordio americano di Renoir, l’austriaco Eric Von Stroheim dirige con la Metro-Goldwyn-Mayer uno dei capolavori della storia del cinema, Greed (1924). Con minuziosità dittatoriale, il regista impone alla troupe nove mesi di lavorazione eccezionalmente impegnativa: la sequenza finale del film è girata nella Death Valley, con temperature e condizioni estreme, che rendono le riprese pressoché insostenibili per attori e tecnici. Il risultato è un film magnifico e complesso, in cui Stroheim compone immagini elaboratissime, lavorando sulla compresenza di più piani narrativi, e su quello che Ejzenštejn definirà montaggio nell’inquadratura284. La produzione giudica il film poco commerciale, e opera una serie di tagli, riducendo addirittura la pellicola a un settimo della sua durata originale. Negli anni successivi, Eric Von Stroheim deciderà di rinunciare al proprio lavoro di regista, dedicandosi alla sola professione di attore285.

Circa mezzo secolo più tardi, Michelangelo Antonioni dirige negli Stati Uniti Zabriskie Point (1970), negli stessi luoghi in cui Stroheim ha ambientato la conclusione (censurata) del suo Greed. Il film è uno dei più folgoranti poemi visivi che Antonioni dedica alla distinzione tra luogo e spazio, tra la                                                                                                                

283 D. Powell, «The Man Who Came Back», in Sunday Times, 31 ottobre 1942. 284 S. M. Ejzenštejn, Izbrannye proizvedenjia v sesti tomach, cit.

«concezione ludica e quella utilitaria della vita»286, come affermò Moravia nel commento all’opera. La critica americana si scagliò ferocemente contro la pellicola, giudicandola inconsistente, poco credibile, disomogenea, involontariamente comica287. La rivista Rolling Stone definì il film come uno dei più grandi disastri della storia del cinema moderno288.

In una scena del suo The End of Violence (1997), diretto dal tedesco Wim Wenders negli Stati Uniti, il cineasta europeo ironizza sulla questione in modo divertente. Udo Kier (Zoltan Tibor), regista tedesco, sta preparando l’inquadratura di un film di produzione americana. Un detective (Loren Dean) gli si avvicina sorridente e gli chiede se nella pellicola vi sarà una di quelle scene in cui, mentre il poliziotto va a fare pipì, il maniaco uccide la ragazza lasciata sola. Il regista non risponde. Poi, tra sé e sé, sospira: «Why I came to direct films in America?».

Con ogni probabilità, la descrizione più puntuale dello smarrimento vissuto da un cineasta straniero nell’incontro con lo Studio System è quella offerta dal regista belga, naturalizzato francese, Jacques Feyder, che, nell’autobiografia Le cinéma notre métier, dedica alcune gustosissime pagine alla sua esperienza hollywoodiana, vissuta sul finire degli anni ’30.

Gli americani hanno tutto quel che serve per un film: il materiale e il personale. Di tanto in tanto però si accorgono di trovarsi come in una palude, di rischiare di sprofondare nelle sabbie della produzione in serie, […] e decidono di procurarsi qualche lievito dall’esterno289.

Reduce dal successo ottenuto alla Mostra di Venezia con La kermesse héroique (1937), Feyder viene dunque convocato a Hollywood. E qui, secondo la sua divertente cronaca, dopo le innumerevoli manifestazioni di cordialità e amicizia, viene coinvolto in una interminabile serie di incontri e discussioni – alle volte lunghe settimane o mesi –, per cercare il soggetto adatto, e definire tutti gli aspetti della imminente lavorazione. «Un bel giorno si stabilisce un certo valore intermedio tra le varie opinioni. Ognuno ha ceduto un po’. Il regista, soprattutto»290. Si inizia quindi a girare, e Feyder riconosce la straordinaria professionalità del piccolo esercito di collaudati tecnici messi a disposizione dalla produzione. «Tutto scorre sul velluto. Un paradiso, per il regista abituato ai pastrocchi europei»291. Al termine della lavorazione, si visiona il film. E lì, spiega Feyder, malgrado il risultato senza dubbio brillante, emerge una sottile amarezza: sì perché, a furia di cedere, la sensazione è che il risultato sia il solito film americano in serie. E anche la produzione storce un po’ il naso: perché abbiamo fatto venire                                                                                                                

286 A. Moravia, «Zabriskie Point», in L’Espresso, 25 maggio 1970.

287 V. Canby, «Screen: Antonioni’s “Zabriskie Point”», in The New York Times, 10 febbraio 1970. 288http://www.phinnweb.org/links/cinema/directors/antonioni/zabriskie/ consultato il 28.8.2016.

289 Citato in G. Ardolino (a cura di) Una sedia da regista, in Cinéma mon amour, vol. V, Piccola Biblioteca Millelire, Torino 1995,

p. 10.

290 Ibid. 291 Ibid., p. 11.

un regista dall’Europa, per fargli dirigere un film che qualsiasi americano avrebbe potuto realizzare?292 Con la sua elegante ironia, Jacques Feyder individua alcuni elementi essenziali della difficoltà di integrazione tra lo straniero e il sistema hollywoodiano: il controllo minuzioso sul progetto; l’estrema

fluidità della lavorazione, dovuta alla grande professionalità dei tecnici; la mancanza d’identità del risultato

finale. A ben vedere, si tratta dei medesimi punti nevralgici che hanno segnato la produzione di Swamp

Water: eccezionale professionalità della troupe e contemporanea presenza ingombrante di una

produzione che si propone di assorbire totalmente il cineasta nel proprio sistema di lavorazione, sottraendogli così l’identità stilistica – l’imposizione dei primi piani nella sequenza della lite tra padre e figlio è esemplare, al riguardo.

C’è tuttavia una significativa differenza tra il resoconto di Feyder e l’esperienza di Renoir: Swamp

Water non è un «risultato brillante», ma un miscuglio indefinito, come sostiene Dilys Powell. E la

distinzione è dato dal fatto che l’integrazione del regista nel sistema hollywoodiano non può dirsi completa; Jean Renoir resiste all’assimilazione nella fluida logica hollywoodiana, ed è proprio questa sua resistenza che, in fin dei conti, lascia tutti scontenti: gli ammiratori europei del regista di La règle du jeu vedono dissolversi l’identità di un artista che avrebbe filmato la scena della lite in un’unica inquadratura; i critici americani si chiedono perché una storia così ben caratterizzata risulti povera di enfasi e di passaggi drammaticamente intensi. Renoir è partito dall’Europa, ma non è riuscito a sbarcare in America, restando sospeso in una scivolosa, acquosa mancanza di identità.

È proprio in questa crepa, in questa imprecisione approssimativa, in questo scarto, che cercheremo di penetrare: lì dove il mito viene meno. Chissà che non sia proprio l’impossibilità di sbarcare nel regno del mito a permettere di scoprire le tracce impreviste della realtà ordinaria.

Seguiamo dunque nel dettaglio una delle sequenze di apertura del film, quella successiva alla lite domestica tra Ben e suo padre.

Ora il giovane naviga sul pelo dell’acqua paludosa, alla ricerca del suo cane smarrito. Già la seconda inquadratura è una panoramica piuttosto prolungata in cui, da un punto di vista narrativo, non accade niente di rilevante: Ben affonda il remo in acqua ed esplora i dintorni con lo sguardo; è ripreso in campo lungo, e per di più i rami lo coprono per gran parte del tempo. Il ritmo non cambia nella inquadratura successiva: si tratta di un campo lungo senza raccordi in asse, e quindi senza avvicinamento, con il protagonista che, continuando a remare, ha il volto oscurato dall’ombra di uno dei grossi tronchi in primo piano. È pur vero che la musica, già da inizio sequenza, accompagna sinistra le immagini troppo distese, conferendo alla lunghezza della scena un significato di attesa che mira a riassorbirla nella narrazione. Ma la funzione della colonna sonora risulta inefficace, alle volte addirittura